Archivi categoria : PENALE

Sono utilizzabili nel processo penale, ancorché imputato sia il lavoratore subordinato, i risultati delle videoriprese effettuate con telecamere installate all'interno dei luoghi di lavoro ad opera del datore di lavoro per esercitare un controllo per tutelare il patrimonio aziendale messo a rischio da possibili comportamenti infedeli dei lavoratori, in quanto le norme dello Statuto dei lavoratori poste a presidio della loro riservatezza non proibiscono i cosiddetti controlli difensivi del patrimonio aziendale e non giustificano pertanto l'esistenza di un divieto probatorio (Cass. Pen. Sez. II, 16 gennaio 2015 n. 2890, CED Cass.) IL CASO. Il caso sottoposto all’esame della Corte riguardava la vicenda in cui il proprietario di un negozio, in seguito a taluni furti, provvedeva ad installare una telecamera nascosta e puntata verso la cassa, così riprendendo, in più occasioni, una dipendente intenta a prelevarvi somme di denaro ricevute dai clienti. In base a tali risultanze, pertanto, la medesima veniva tratta a giudizio e condannata per appropriazione indebita. L’argomento giuridico invocato dalla difesa per censurare le unanimi pronunce dei giudici di merito è stato di natura squisitamente processuale: l’inutilizzabilità dei risultati delle videoriprese per violazione degli artt. 4 e 18 della legge n. 300 del 1970 (cd. Statuto dei Lavoratori). La Corte, nel rigettare la questione, ha dato continuità all’indirizzo giurisprudenziale secondo cui sono processualmente utilizzabili le videoriprese effettuate dal datore di lavoro per accertare comportamenti potenzialmente delittuosi e non, invece, per esercitare un controllo a distanza dei lavoratori. Ne consegue, secondo tale impostazione, che i risultati delle videoriprese sono pienamente acquisibili ed utilizzabili come documenti ex art. 234 c.p.p. La pronuncia, seppur concisamente, lambisce un tema di sempre maggiore attualità, cioè a dire l’ausilio tecnologico nell’accertamento della verità, sia processuale che extraprocessuale, e i correlativi limiti VIDEORIPRESE SUI LUOGHI DI LAVORO (NOTA A CASS. PEN. N. 2890/2015) (*) Luca Gessaroli Fascicolo n. 1/2016 www.ilforomalatestiano.it Pag. 2 di 9 rinvenibili nel sistema positivo a tutela dei diritti dei soggetti “osservati”. Occorre pertanto brevemente ricostruire il sistema pretorio delle videoriprese, per poi analizzare più nello specifico il caso in esame. VIDEORIPRESE SUI LUOGHI DI LAVORO. NATURA DELLO STRUMENTO. La sentenza in commento si iscrive in un orientamento già espresso in altre occasioni dalle sezioni penali della Corte di Cassazione1 . Il tema è peraltro di particolare interesse, poiché impone un’analisi necessariamente multidisciplinare che involge il sistema giuslavoristico e quello processualepenale, nonché fonti di rango secondario, rappresentate dai provvedimenti del Garante della privacy. Anzitutto,occorre preliminarmente indagare la natura dei risultati delle videoriprese effettuate in autonomia dal datore di lavoro sui luoghi di lavoro stessi. Trattasi, come è evidente, di (*) Il presente contributo è stato oggetto di positiva valutazione da parte del Comitato Scientifico. 1 Relativa allo stesso caso di specie è Cass. pen., 1 giugno 2010, n. 20722, n. 20722, in C.E.D. Cass., n. 247588, che, pur qualificando come privata dimora il luogo di lavoro ai sensi dell’art. 614 c.p., ha ritenuto che non abbiano carattere illecito, ai sensi degli artt. 189 e 191 c.p.p., le prove documentali rappresentate da riprese audiovisive effettuate nei locali aziendali, anche al di fuori dei limiti previsti dall'art. 4 della l. n. 300 del 1970 quando le stesse siano state eseguite non al fine di controllare l'attività del lavoratore ma al solo fine di salvaguardare il patrimonio aziendale dalle offese altrui, ivi compresi i lavoratori medesimi, perché le norme dello Statuto dei lavoratori poste a presidio della loro riservatezza, non fanno divieto dei cosiddetti controlli difensivi del patrimonio aziendale e non giustificano pertanto l'esistenza di un divieto probatorio. Nello stesso senso; Cass. pen., 26 marzo 2008, n. 26597, in D.p.l., 2009, p. 317; Cass. pen., 14 dicembre 2009, n. 47429, in N. g. l., 2010, p. 185; Cass. pen, 12 luglio 2011, n. 34842, in Cass. pen.,2012, p. 1430. documenti, acquisibili in dibattimento ex art. 234 c.p.p., e non invece di atti processuali. L’atto del procedimento, infatti, è qualificabile come l’atto che persegue le finalità del procedimento e che è compiuto da uno dei soggetti in esso operanti. La relativa documentazione, come i verbali o, nel caso di specie, le videoriprese, rappresenta la mera cristallizzazione (e dunque la rappresentazione) degli atti del procedimento stesso2 . Il documento3 , invece, è la rappresentazione di fatti, persone o cose effettuata al di fuori del procedimento, anche se non necessariamente prima4 . In tale 2 Tonini, Manuale breve diritto processuale penale, 2014, Milano, p. 239, ove si legge «se l’oggetto rappresentato è un fatto o un atto del medesimo procedimento, il codice non utilizza il termine “documento”, bensì il termine “documentazione”» e che «il verbale che rappresenta un atto del procedimento, non è un “documento” bensì è una forma di “documentazione”. Per “atto del procedimento” si intende comunemente quell’atto che persegue le finalità del procedimento e che è compiuto da uno dei soggetti legittimati, e cioè il giudice, il pubblico ministero, la polizia giudiziaria (o i loro ausiliari) ed i difensori». 3 Tonini, Manuale breve, cit., p. 239 afferma efficacemente che «il codice non contiene una definizione espressa di “documento”, anche se ne fornisce un requisito positivo ed uno negativo. Il requisito positivo è indicato nell’art. 234, comma 1: perché vi sia documento è sufficiente uno scritto o altro oggetto comunque idoneo a rappresentare un fatto, una persona o una cosa. Il requisito negativo si ricava dalla sistematica del codice come, del resto, viene sottolineato espressamente dalla Relazione al progetto preliminare (p. 67). L’oggetto rappresentato deve essere un atto o un fatto differente dagli atti processuali compiuti nel procedimento nel quale il documento è acquisito». 4 Cass., Sez. Un., 28 marzo 2006, n. 26795, in Cass. pen., p. 3937 che richiamando la Rel. Prog. Prel. C.p.p. vigente e la precedente giurisprudenza di legittimità in merito alla distinzione tra atti e documenti, ha sottolineato che «ai fini dell’ammissione delle prove documentali sono necessarie due condizioni: a) che il documento risulti materialmente formato fuori, ma non necessariamente prima, del procedimento; b) che lo Fascicolo n. 1/2016 www.ilforomalatestiano.it Pag. 3 di 9 fattispecie processuale, disciplinata dagli artt. 234 ss c.p.p., si inscrivono, evidentemente, i risultati delle videoriprese effettuate privatamente dal datore di lavoro per tutelare propri beni aziendali. Si tratta, infatti, di attività senza dubbio connesse all’accertamento della “verità”, ma collocate al di fuori del procedimento. Ciò posto, occorre interrogarsi sulla presenza di limiti all’acquisizione dei risultati delle videoriprese del datore di lavoro effettuate a scopi difensivi. Più precisamente, occorre chiedersi se dal sistema positivo siano desumibili divieti probatori che, ai sensi dell’art. 191 c.p.p., interdicano l’utilizzabilità degli elementi probatori tratti dalle prove acquisite al fascicolo ai fini della decisione sottoposta all’esame del giudicante. Occorre pertanto procedere ad una precisa analisi delle disposizioni rilevanti. IL QUADRO NORMATIVO. La censura proposta dal ricorrente concerneva l’inutilizzabilità delle videoriprese (rectius, dei risultati delle stesse) per violazione degli artt. 4 e 38 l. 300/1970. L’art. 4, in particolare, vieta l’uso di impianti audiovisivi finalizzati al controllo «dell’attività del lavoratore» e consente la sola predisposizione di apparecchiature di registrazione richieste da esigenze organizzative, produttive o di sicurezza, pur con il previo accordo con le rappresentanze sindacali. Come stesso oggetto della documentazione extra-processuale appartenga al contesto del fatto oggetto di conoscenza giudiziale e non al contesto del procedimento». Vedi anche Focardi, Sub art. 234, in Codice di procedura penale commentato, a cura di Giarda –Spangher, I, Milano, 2010, p. 1728. acutamente osservato5 , dunque, tale disposizione, da un lato, vieta in modo assoluto i controlli preordinati ad osservare il lavoratore nello svolgimento delle sue ordinarie mansioni; dall’altro, consente i controlli per esigenze organizzative, produttive e di sicurezza, che solo indirettamente ed accidentalmente potrebbero riprendere il lavoratore nell’ambito della sua attività, a condizione che siano osservate le procedure di cui all’art. 4, co. 2, St. lav.. L’art. 38, poi, sanziona penalmente il datore che abbia violato gli artt. 2, 5, 6 e 15, co. 1 lett a) dello Statuto; come è evidente, tra le disposizioni presupposte non rientra l’art. 4 in materia di impianti di videosorveglianza. Ed invero, tale materia è regolata anche dalla disciplina legislativa posta a tutela dei dati personali e contenuta nel d.lgs. 196/2003, poiché, come ha avuto modo di sottolineare il Garante della privacy, la raccolta, la registrazione e in generale l’utilizzo di immagini configura un trattamento di dati ai sensi dell’art. 4, co. 1, lett. b), d.lgs. 196/20036 . Orbene, ciò che rileva, ai fini che qui interessano, è che, ai sensi dell’art. 171 d.lgs. 196/2003, la violazione delle disposizioni di cui agli artt. 113, co. 1 e 114 d.lgs. 196/2003 è punita con le sanzioni di cui all’art. 38 dello Statuto. Dal canto loro, detti articoli dispongono rispettivamente che resta 5 Pasquarelli, Grande fratello sul luogo di lavoro: il contrasto fra sezione penale e sezione civile della Corte di Cassazione, in www.questionegiustizia.it. 6 Provvedimento in materia di videosorveglianza 8 aprile 2010, doc. web 1712680, punto 1. Fascicolo n. 1/2016 www.ilforomalatestiano.it Pag. 4 di 9 fermo quanto disposto dall’art. 8 (art. 113) e dall’art. 4 dello Statuto (art. 114). Dall’intricata tela normativa, dunque, sembra trarsi che le sanzioni previste dall’art. 38 dello Statuto conseguono non solo alla violazione degli articoli dallo stesso indicati, ma anche degli articoli 8 e, per quanto qui interessa, 4. Pertanto, ne deriva ulteriormente che l’installazione di impianti audiovisivi finalizzata al controllo dei lavoratori è condotta penalmente illecita. In tale materia, infine, trova spazio anche la disciplina dettata dal Garante privacy nella sua attività normativa regolamentare. Il Garante, in particolare, ha specificato il paradigma di comportamento richiesto al datore, stabilendo che l’uso di impianti di videosorveglianza è ammesso per molteplici finalità legittime, inclusa la tutela dei suoi beni e l’acquisizione di prove, purché ciò non determini un’ingerenza ingiustificata nei diritti e nelle libertà delle persone. Pertanto, occorre che il datore o il soggetto eventualmente delegato adotti sistemi di controllo in cui la compressione dei diritti fondamentali – tra cui rientra la privacy – sia ridotta al minimo in base ai principi di necessità e proporzionalità, espressi dall’art. 3 d.lgs. 196/20037 . Infine, il Garante ha stabilito che sono espressamente vietate le videoriprese dirette a verificare l’osservanza dei doveri di diligenza stabiliti per il rispetto dell’orario di 7 Provvedimento generale del Garante in materia di videosorveglianza, 8 aprile 2010, doc web n. 1116810, punto 2. lavoro e la correttezza dell’esecuzione della prestazione lavorativa. Per altro verso, anche qualora l’osservanza sia giustificata da ragioni organizzative e di produzione, non può escludersi che la stessa capti, pur indirettamente, comportamenti dei lavoratori: per tale ragione, il Garante prescrive la necessità di osservare in ogni caso le procedure di accordi con le rappresentanze sindacali prescritte dall’art. 4, co. 2, dello Statuto8 . GLI ORIENTAMENTI. Il quadro normativo testé riportato consente ora di apprezzare con maggior rigore i contrapposti orientamenti in ordine alla utilizzabilità, nel processo penale, dei risultati di videoriprese svolte dal datore sul luogo di lavoro per cogliere eventuali illeciti ivi commessi dai suoi dipendenti. Un primo orientamento, favorevole9 , ritiene che l’installazione degli impianti di videosorveglianza ad esclusivi “scopi difensivi” sia espressione di un potere datoriale privato, fondato sulla necessità di reprimere gli abusi dei dipendenti. Inoltre, sebbene le disposizioni contenute nello Statuto dei Lavoratori 8 Invero, su tale ultimo aspetto, potrebbero esprimersi non poche perplessità in ordine alla legittimità di quanto disposto dal Garante. Infatti, nel prescrivere l’osservanza delle procedure di cui all’art. 4, co. 2, dello Statuto, il provvedimento, che ha natura regolamentare, sembra porsi in contrasto con la lettera dell’art. 4, co. 1, che al contrario esclude tale necessità nelle ipotesi in cui il controllo sia giustificato da ragioni organizzative o di produzione 9 De Luca Tamajo, Introduzione, in Tecnologie della comunicazione e riservatezza nel rapporto di lavoro, a cura di Tullini, in Tratt. GI, 2010, 4 s.; ID., I controlli sui lavoratori, in I poteri del datore di lavoro nell'impresa, a cura di Zilio Grandi, Cedam, 2002, 29 ss.; Ichino, Il contratto di lavoro, in Tratt C.M., III, 2003, 233 ss.. Fascicolo n. 1/2016 www.ilforomalatestiano.it Pag. 5 di 9 siano poste a presidio della riservatezza e della dignità del lavoratore, il comportamento (penalmente) illecito di quest’ultimo, abusivo o infedele, non dovrebbe costituire un adempimento lavorativo, attenendo ad una condotta squisitamente extraprofessionale10. Si tratterebbe, in altre parole, di una condotta posta in essere in occasione delle mansioni lavorative, e non ad esse funzionale. Un diverso orientamento, invece, ritiene inutilizzabili i risultati di dette videoriprese, poiché l’esigenza di salvaguardare il patrimonio aziendale non può ritenersi prevalente rispetto alle garanzie di riservatezza e di dignità del lavoratore: «l'insopprimibile esigenza di evitare le condotte illecite da parte dei dipendenti non può assumere portata tale da giustificare un sostanziale annullamento di ogni forma di garanzia della dignità e riservatezza» a tutela del lavoratore11. Di conseguenza, le garanzie procedurali ed i limiti imposti all’impiego di impianti di videosorveglianza si estendono anche ai cd. controlli a scopi difensivi, derivando da essi la concreta, seppur indiretta, possibilità di un controllo a distanza dell’attività del lavoratore. Ed invero, occorre a questo punto una precisazione. Altro è predicare l’utilizzabilità o inutilizzabilità e, ancor prima, la possibilità stessa di effettuare le 10 Tullini, Videosorveglianza a scopi difensivi e utilizzo delle prove di reato commesso dal dipendente, in Riv. It. Dir. Lav., 2011, I, p. 86; Pasquarelli, Grande fratello sul luogo di lavoro, cit.. 11Cass. sez. lav., 17 luglio 2007, n. 15892, in Riv. it. dir. lav., 2008, II, 714, nt. Vallauri, È davvero incontenibile la forza espansiva dell'art. 4 dello Statuto dei lavoratori? videoriprese sotto il profilo civilistico, e più precisamente giuslavoristico, ad esempio sia ai fini disciplinari sia ai fini probatori in un’eventuale azione di risarcimento danni; altro , a ben vedere, è invece l’utilizzabilità o inutilizzabilità dei risultati di dette videoriprese nel processo penale. Non stupisce, quindi, che la giurisprudenza di legittimità abbia seguito strade divergenti. Più precisamente, la Sezione Lavoro ha aderito ad ambedue gli orientamenti suesposti. Alcune pronunce, nel bilanciamento tra i contrapposti interessi della riservatezza del lavoratore e del datore di lavoro, hanno ritenuto prevalenti le seconde tutte le volte in cui si faccia questione di videoriprese eseguite a scopi difensivi del patrimonio aziendale12. Altre più recenti, invece, hanno ritenuto che in detto bilanciamento non possa che prevalere la tutela della riservatezza del lavoratore, da cui la conseguente inammissibilità delle videoriprese e la inutilizzabilità dei loro risultati anche nel processo penale a carico del dipendente13. Al contrario, la giurisprudenza penale ha sostanzialmente14 ritenuto 12 Cass. sez. lav., 14 luglio 2001, n. 9576, in Arch. Civ, 2001, p. 1120; Cass. sez. lav., 2 marzo 2002, n. 3039, in Riv. It. Dir. Lav., 2002, 4, pp. 873 ss.., Cass. sez. lav., 17 luglio 2007, n. 15892, cit., Cass. sez. lav., 10 luglio 2009, n. 16196, in C.E.D. Cass, rv. 609379. 13 Cass. sez. lav., 17 luglio 2007, n. 15892, in C.E.D. Cass, rv. 598745, Cass. sez. lav., 23 febbraio 2010, n. 4375, in Riv. It. Dir. Lav., 2010, 2, pp. 564 ss., Cass. sez. lav., 1 ottobre 2012, n. 16622, in C.E.D. Cass., rv. 624112. 14 Cass. pen., 16 ottobre 2009, n. 40199, Riv. Giur. Lav., 2010, p. 275, è forse l’unica pronuncia in senso contrario, secondo cui commette il reato contravvenzionale dell’art. 38 St. Lav. Il datore di lavoro che installi un sistema di videosorveglianza sena Fascicolo n. 1/2016 www.ilforomalatestiano.it Pag. 6 di 9 dette videoriprese utilizzabili a fini probatori nel processo penale15. Secondo una lettura16, la ragione andrebbe rinvenuta nel principio di fondo seguito dalle Sezioni penali, cioè a dire la prevalenza del prioritario interesse pubblico alla prevenzione ed accertamento dei reati rispetto alla riservatezza dei dipendenti. A ben vedere, la difformità di vedute sul tema tra le Sezioni civili e penali, lungi dal disorientare, è il portato dei diversi principi che regolano l’utilizzabilità delle prove in campo penale, di cui la sentenza in commento fa (sostanziale) applicazione, pur senza chiarire esplicitamente tutti i passaggi del relativo iter logico. Risulta pertanto utile ripercorrerne il filo argomentativo. Come anticipato, i Giudici di Piazza Cavour hanno ritenuto dirimenti le finalità perseguite dal datore nell’installare gli impianti di ripresa visiva: in particolare, si afferma, sono utilizzabili nel processo penale le videoriprese effettuate con telecamere installate nei luoghi di lavoro per accertare comportamenti potenzialmente delittuosi. Per giustificare tale conclusione, vengono anzitutto richiamati i precedenti sul punto, secondo cui, ancorché l’imputato sia il lavoratore subordinato, sono utilizzabili nel processo penale i risultati delle la preventiva autorizzazione sindacale o amministrativa. 15, Cass. pen., 26 marzo 2008, n. 26597, in D.p.l., 2009, pp. 317 ss.; Cass. pen., 14 dicembre 2009, n. 47429, in N. g. l., 2010, pp. 185 ss.; Cass. pen., 1 giugno 2010, n. 20722, in C.E.D. Cass., rv. 247588; Cass. pen, 12 luglio 2011, n. 34842, in Cass. pen.,2012, p. 1430. 16 Tullini, Videosorveglianza a scopi difensivi, cit.. videoriprese effettuate con telecamere installate all'interno dei luoghi di lavoro ad opera del datore per esercitare un controllo a beneficio del patrimonio aziendale messo a rischio da possibili comportamenti infedeli dei lavoratori, perché le norme dello Statuto dei lavoratori, poste a presidio della loro riservatezza, non fanno divieto dei cosiddetti “controlli difensivi” del patrimonio aziendale e non giustificano pertanto l'esistenza di un divieto probatorio. La Corte conclude, pertanto, affermando che i risultati delle videoriprese non possono considerarsi prove illegali, illegittimamente acquisite, ex art. 191 c.p.p., bensì prove documentali, acquisibili ex art. 234 c.p.p.. A tale lettura si contrappongono alcune critiche. In particolare, si sottolinea che i controlli “a scopi difensivi” non sono espressamente previsti dal legislatore, ma sono frutto di una giurisprudenza creativa; che, in secondo luogo, l’art. 4 St. Lav. parla di «attività dei lavoratori» e non di «attività lavorativa», di talché il correlativo divieto sarebbe esteso ad ogni comportamento tenuto dal lavoratore nell’azienda. Infine, che, ad ogni buon conto, non sarebbe possibile distinguere a priori il controllo sull’attività lavorativa del dipendente dal controllo di suoi potenziali , comportamenti illeciti17. RILETTURA ALLA LUCE DELLE COORDINATE DEL CODICE: 17 Pasquarelli, Grande fratello sul luogo di lavoro, cit.; Dossi, Controlli a distanza e legalità della prova: tra esigenze difensive del datore di lavoro e tutela della dignità del lavoratore, in DRI, 2010, pp. 1155 ss.. Fascicolo n. 1/2016 www.ilforomalatestiano.it Pag. 7 di 9 INUTILIZZABILITÀ E ILLEGALITÀ DELLA PROVA. In realtà, come anticipato, il peso specifico degli argomenti appena esposti è (forse) dirimente nel processo civile; lo stesso non può dirsi, però, per il processo penale. All’uopo, occorre richiamare ancora una volta un passo della motivazione della sentenza in commento per meglio esplicare la ragione, forse inconsapevole, che rende corretto ritenere i risultati di dette videoriprese utilizzabili. Il dato di interesse è il termine prova “illegale”: nella sentenza, infatti, si afferma che le videoriprese sono utilizzabili poiché non è ravvisabile in esse alcuna illegalità. In occasioni passate la Cassazione aveva impiegato il termine prove “illecite”, affermando che non hanno carattere illecito, ai sensi degli artt. 189 e 191 c.p.p., le prove documentali rappresentate da riprese audiovisive effettuate nei locali aziendali, anche al di fuori dei limiti previsti dall’art. 4 St. Lav., laddove le stesse siano state eseguite al fine di controllare l’attività del lavoratore, ma al solo fine di salvaguardare il patrimonio aziendale dalle offese altrui, ivi compresi i lavoratori medesimi18. La difformità terminologica sembra trarre linfa, forse inconsapevolmente, dal lessico rinvenibile nell’art. 240 c.p.p., che, dopo la modifica avvenuta con il d.l. 259/2006, prevede l’inutilizzabilità e distruzione delle prove cd. “illegali”, laddove rientrino nelle ipotesi ivi previste, tra cui, a ben vedere, non 18Cass., Sez. V, 1 giugno 2010, n. 20722, cit.. figurano le videoriprese19. Ciò assume particolare rilevanza: infatti la giustificazione che la Corte adduce per ammettere i risultati delle videoriprese dovrebbe passare, in realtà, proprio attraverso l’analisi dell’art. 240 c.p.p. e degli articoli che disciplinano l’utilizzabilità delle prove in campo penale. Più precisamente, secondo l’opinione maggioritaria20i divieti probatori di cui all’art. 191 c.p.p. non possono che derivare dalla stessa legge processuale21 o, al più, dal dettato costituzionale, laddove si ammetta la 19 Il novellato comma 2 dell’art. 240 c.p.p., infatti, così recita: <>. 20 Cordero, Procedura penale, Milano, 2012, p. 613; CORDERO, Prove illecite nel processo penale, in Riv. it. dir. proc. pen., 1961, p. 38.; Cordero, Il procedimento probatorio, in Cordero, Tre studi sulle prove penali, Milano, 1963, p. 63, secondo cui l’elemento tipizzante di un divieto probatorio sia la carenza di potere istruttorio: <> e <>; Galantini, L’inutilizzabilità della prova nel processo penale, Padova, 1992, p. 35 ritiene invece che in assenza di un'espressa sanzione d'inutilizzabilità, una previsione normativa assume il ruolo di divieto probatorio se è posta a protezione di determinati interessi processuali o extraprocessuali. Occorre quindi «scoprire quando [la regola probatoria] si atteggia a strumento di tutela dell'attendibilità dell'accertamento o del diritto di difesa o di altri diritti anche costituzionalmente tutelati»; Scella, L’inutilizzabilità della prova nel sistema del processo penale, in Riv. dir. pen. proc., 1992, p. 203; Lozzi, Lezioni di procedura penale, 7° ed., Torino, 2006, p. 228. 21 In tal senso, il termine “legge” non starebbe a significare qualunque disposizione normativa di primo grado, ma solo quelle che disciplinano il processo penale e quelle che, pur di altri settori, siano dalle prime richiamate. Fascicolo n. 1/2016 www.ilforomalatestiano.it Pag. 8 di 9 discussa categoria delle prove cd. incostituzionali22. Ciò comporta quindi che, di regola, l’illiceità penale, civile o amministrativa di un mezzo probatorio (si pensi al classico esempio della testimonianza resa da chi aveva il dovere di serbare un segreto professionale) non determina automaticamente l’inutilizzabilità processuale dello stesso, all’uopo occorrendo un’espressa previsione normativa23. In altre parole, occorre che il legislatore valorizzi nel settore processuale la violazione di norme sostanziali, ricollegandovi una sanzione, appunto, processuale, come l’inutilizzabilità. Ciò accadeva, ad esempio, nell’art. 226 quinques c.p.p. del codice di procedura penale previgente24. Stando così le cose, la violazione da parte del datore di lavoro dell’art. 4 St. Lav., in sé, non avrebbe alcuna efficacia sul piano dell’utilizzabilità processuale dei risultati delle videoriprese, e ciò alla luce della previsione generale contenuta nell’art. 191 c.p.p., che fa riferimento ai “divieti” stabiliti dalla legge, intesa, secondo quanto appena ricordato, come legge “processuale”. Tuttavia, proprio in quest’ottica, il richiamo all’art. 240 c.p.p., e con esso all’illegalità, assume una portata dirimente. La novella normativa del 22 Sul tema in particolare: Mainardis, L’inutilizzabilità processuale delle prove incostituzionali, in Quaderni Costituzionali, 2002, 2, p. 371 23 Marinelli, Intercettazioni processuali e nuovi mezzi di ricerca della prova, Torino, 2007, p. 137. 24 L’art. 226-quinquies c.p.p. abr. prevedeva la nullità assoluta di ogni decisione fondata su <> costituenti reato ai termini dell’art. 615-bis c.p.. 200625 in materia di cd. dossieraggio e spionaggio illegali ha infatti innovato l’art. 240 c.p.p.: in particolare, ha introdotto la nuova categoria delle prove illegali, che, se accertate come tali, sono inutilizzabili e vanno immediatamente distrutte in un apposito procedimento camerale. Sul significato del termine “illegale” la dottrina ha espresso numerose critiche26. Ad ogni buon conto, secondo la lettura più convincente – e peraltro più condivisa - il legislatore sarebbe incorso in una “svista”, impiegando il termine “illegale” in luogo di “illecito”, e che l’illiceità rilevante sarebbe solo quella derivante dalla violazione di una disposizione penale27. Ne consegue, pertanto, che laddove un soggetto estraneo al procedimento e per finalità altre ponga in essere illeciti sussumibili nelle 25 Decreto legge n. 259 del 2006, convertito con modificazioni nella legge n. 181 del 2006. 26 Manzione, Intercettazioni illegali: soluzioni davvero urgenti ed adeguate?, in Leg. pen., 2007, p. 202; Beltrani, Intercettazioni illegali: cosa cambia se il sì alla distruzione è inoppugnabile, in Dir. e giust., 2006, 36, p. 110; Bricchetti-Pistorelli, La distruzione immediata della prova rischia di ledere i diritti dell’imputato, in Guida dir., 2006, 39, p. 22; Cesari, Su captazioni e dossiers illeciti, un intervento non risolutivo, in Giur. Cost., 2009, p. 3537; Conti, Le intercettazioni “illegali”: lapsus linguae o nuova categoria sanzionatoria?, in Dir. Pen. Proc. 2007, p. 158; Conti, Intercettazioni illegali: la Corte costituzionale riequilibra un bilanciamento“claudicante”, in Dir. pen. proc., 2010, p. 196. 27 In particolare sul punto Filippi, Distruzione dei documenti e illecita divulgazione di intercettazioni: lacune ed occasioni perse di una legge nata già “vecchia”, in Dir. pen. proc., 2007, p. 152 nonché Conti, Le intercettazioni “illegali”, cit., p. 161. Secondo una certa opinione, inoltre, la novella normativa avrebbe dato viepiù prova della necessità di una espressa previsione affinché una violazione sostanziale si ripercuota sull’utilizzabilità delle prove formate: Conti, Le intercettazioni “illegali”, cit., p. 163. Fascicolo n. 1/2016 www.ilforomalatestiano.it Pag. 9 di 9 fattispecie di cui all’art. 240 c.p.p., i “documenti” così formati non solo sarebbero inutilizzabili, ma andrebbero altresì tout court distrutti. Ciò posto, e venendo al caso di specie, la videosorveglianza effettuata dal datore a scopi difensivi non si configura come illecito penale in violazione del combinato disposto degli artt. 4, 38 St. Lav. e 114 e 171 d.lgs. 196/2003: infatti, l’art. 171 del d.lgs. 196/2003, nel disporre l’applicazione delle pene previste dall’art. 38 dello Statuto per la violazione dell’art. 114 d.lgs. 196/2003, che a sua volta richiama l’art. 4 St. Lav., esige che l’installazione degli impianti sia effettuata per il «controllo a distanza dell’attività dei lavoratori». Di talché, come è evidente, non solo difetterebbe l’elemento soggettivo richiesto dalla fattispecie, agendo il datore per finalità diverse da quelle tipizzate, ma, ancor prima, il fatto risulterebbe scriminato ex art. 51 c.p.28. Da ciò deriva che i documenti visivi confezionati dagli impianti di videosorveglianza sono processualmente utilizzabili. Tale conclusione, lo si ribadisce, dipende da ciò, che, se il controllo è posto in essere per la tutela dei beni aziendali, e non per un generico controllo dei 28 Si fa riferimento agli “offendicula”, cioè a dire quegli strumenti posti a protezione di un proprio diritto ed atti ad arrecare lesioni a terzi, ed inerenti alla titolarità di un diritto dominicale. Le videoriprese sono infatti ammissibili, poiché, seguendo i criteri elaborati dalla giurisprudenza, non sono idonee a cagionare eventi di rilevante gravita, o lesioni gravi, né ad incidere sulla incolumità di terzi e si presentano come proporzionate alle finalità perseguite. Trattasi della scriminante dell’esercizio del diritto, non potendosi configurare una legittima difesa per carenza di attualità del pericolo. lavoratori29, trattandosi di fatto penalmente lecito, il relativo risultato non rientra tra le prove “illegali” di cui l’art. 240 c.p.p. dispone l’inutilizzabilità. Resta, infine, un ultimo profilo, attinente alla tutela del domicilio: potrebbe infatti invocarsi l’inutilizzabilità delle riprese effettuate dal datore di lavoro in quanto integranti il reato di interferenze illecite ex art. 615 bis c.p. In tal caso, applicando i principi suesposti, le riprese visive si atteggerebbero come “prove illegali” ai sensi dell’art. 240 c.p.p. e, di conseguenza, andrebbero distrutte e ritenute non utilizzabili. Tuttavia, anche in questo caso, il risultato non cambierebbe. Infatti, l’esercizio di un diritto di tutela del proprio patrimonio aziendale ex art. 51 c.p. rendere non indebita la captazione di immagini sul luogo di lavoro. Sempreché, peraltro, le casse di un esercizio commerciali possano qualificarsi come “privata dimora”, ai sensi del medesimo articolo, e l’attività lavorativa qui svolta possa dirsi notizia attinente la vita privata. 29 Vedi Supra, ove si è infatti sottolineato come il legislatore, attraverso una serie di richiami normativi a cascata, sanzioni penalmente la violazione dell’art. 4 St. Lav.. Ed invero, la sussistenza del reato esige l’accertamento di tutti gli elementi richiesti dalla fattispecie, ivi compreso l’elemento psicologico qui rappresentato dal dolo specifico del controllo dei lavoratori, assente laddove esso consista nella tutela preventiva dei beni aziendali.
 

pdf-icon

1. PREMESSA: L'INCOSTITUZIONALITÀ DEL TRATTAMENTO SANZIONATORIO POST IUDICATUM Sappiamo come l'art. 2 Cost. voglia i diritti inviolabili dell'uomo riconosciuti e garantiti “sempre”, ma è dato notorio che il giudicato stabilisca un punto. Perciò, conviene interrogarsi: che ne è dei rapporti tra giudicato ed illegalità della pena? Un tempo qualcuno rispondeva: la pena in executivis non si tocca; la cessazione degli effetti penali delle sentenze irrevocabili di condanna implica necessariamente un'abolitio criminis o una dichiarazione d'illegittimità costituzionale della norma incriminatrice1 . Ammonimento severo, ma proviamo a fare i conti con il nostro ordinamento, con le fonti pattizie e con le corti internazionali. (*) Il presente contributo è stato oggetto di positiva valutazione da parte del Comitato Scientifico. 1 In tal senso, Cass., sez. I, 19 gennaio 2012, n. 27640, secondo cui «l'ultimo comma della L. 11 marzo 1953, n. 87, art. 30, che dispone la cessazione dell'esecuzione e di tutti gli effetti penali delle sentenze irrevocabili di condanna pronunciate in base a norma dichiarate incostituzionali, si riferisce alle sole norme incriminatrici dichiarate incostituzionali». Innanzitutto, solo l'irretroattività sfavorevole ex art. 25 comma 2 Cost. è principio assolutamente inderogabile, non suscettibile di bilanciamento con altri valori costituzionali, perché <> 2 . Invece, spetta alla legge ordinaria la risoluzione del problema circa la retroattività o meno della legge favorevole. L'argomento implica qualche riferimento alla disciplina: l'art. 2 c.p. consacra il principio della retroattività della lex mitior, imponendo la rimozione della sentenza o del decreto penale di condanna irrevocabili, nel caso in cui il fatto commesso cessi di costituire reato per un intervento legislativo successivo al fatto stesso o perché il reato è previsto da un decreto legge non convertito; l’art. 30 della 2 C. Cost., 23 novembre 2006, n. 394. STUPEFACENTI E CONDANNE IRREVOCABILI: LA RIDETERMINAZIONE DELLA PENA INCOSTITUZIONALE (*) Veronica Magnani Fascicolo n. 1/2016 www.ilforomalatestiano.it Pag. 2 di 17 legge n. 87 del 1953 si occupa della dichiarazione di illegittimità costituzionale della norma violata, statuendo che, se la sentenza di condanna è divenuta irrevocabile, ne cessano l'esecuzione e tutti gli effetti penali; nelle ipotesi di abrogazione o di dichiarazione d'illegittimità della norma incriminatrice, l'art. 673 c.p.p. attribuisce al giudice dell'esecuzione il potere d'incidere sulla sentenza o sul decreto, revocandoli. I fondamenti costituzionali di questa disciplina sono facili da identificare: il favor libertatis dell'art. 13 Cost., il finalismo rieducativo della pena e, soprattutto, il principio di uguaglianzaragionevolezza dell'art. 3 Cost. Non sarebbe discriminatorio punire differentemente soggetti responsabili della medesima violazione solo in ragione della diversa data di realizzazione dell'illecito o, ancora, far subire a qualcuno una condanna e i suoi effetti per un fatto che altri potrebbe impunemente commettere in un diverso momento storico? Certo, va evitato3 . Sennonché, osservava la Corte Costituzionale, il principio di retroattività della norma più favorevole, che non ha alcun collegamento con la libertà di autodeterminazione individuale e che si inquadra nell'alveo dell'art. 3 Cost., deve ritenersi suscettibile di «deroghe legittime sul piano costituzionale, ove sorrette da giustificazioni oggettivamente ragionevoli»4 . 3 Così, ex multis, Mantovani, Diritto Penale, Parte Generale, III Ed., 1996, p. 118 ss; FiandacaMusco, Diritto penale. Parte generale, VI ed., 2009, p. 76. 4 C. Cost., 23 novembre 2006, n. 394. Tra queste deroghe, era stata già messa in conto l'esigenza di salvaguardare la certezza dei rapporti ormai esauriti, perserguita statuendo l'intangibilità delle sentenze divenute irrevocabili5 ; ergo, post iudicatum, rileva la successione di leggi penali abolitiva, ma non quella modificativa della disciplina previgente. Sennonché, il limite della definitività della sentenza, con riferimento alla retroattività delle leggi sopravvenute favorevoli al reo, diverse dall'abolitio criminis, viene già meno con il terzo comma dell'art. 2 c.p., inserito dall'art. 14 della l. n. 85 del 2006: nell'ipotesi in cui la legge posteriore sostituisca la pena detentiva con la sola pena pecuniaria, il giudice deve immediatamente convertire la pena disposta nella sentenza irrevocabile6 . E questo è solo l'inizio, perché sulla questione si deve considerare anche la fondamentale incidenza delle fonti pattizie e della giurisprudenza delle corti internazionali. Il principio di retroattività della lex mitior è, infatti, sancito sia a livello 5 C. Cost., 20 maggio 1980, n. 74. 6 La possibilità d'intervenire sul trattamento sanzionatorio era stata già confermata da Cass., sez. unite, 20 dicembre 2005, n. 4687, che, nel riconoscere al GE, nell'ipotesi di revoca di precedenti condanna per intervenuta abolitio criminis ex art. 673 c.p.p., il potere di concedere, nell’ambito dei “provvedimenti conseguenti” alla suddetta pronuncia, il beneficio della sospensione condizionale della pena per altra condanna, ha passato in rassegna diversi istituti che dimostrano come nel codice di rito vigente il principio della immutabilità della cosa giudicata abbia perduto valore assoluto. Ad avviso della Corte: «È sufficiente ricordare, al riguardo, la disciplina del concorso formale e del reato continuato in sede esecutiva (art. 671 c.p.p.), anche nel caso di sentenze di applicazione della pena su richiesta delle parti (art. 188 disp. att. c.p.p.), la revoca di sentenze per abolizione di reati (art. 673 c.p.p.), il ricorso straordinario per errore di fatto (art. 625-bis c.p.p.)». Fascicolo n. 1/2016 www.ilforomalatestiano.it Pag. 3 di 17 internazionale sia a livello comunitario (dall’art. 15 del Patto internazionale sui diritti civili e politici e dall’art. 49 comma 1 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea); di conseguenza, l'applicazione retroattiva è la regola e tale regola è derogabile solo in presenza di interessi di analogo rilievo (quali – a titolo esemplificativo – quelli dell'efficienza del processo, della salvaguardia dei diritti dei soggetti che, in vario modo, sono destinatari della funzione giurisdizionale, e quelli che coinvolgono interessi o esigenze dell'intera collettività nazionale connessi a valori costituzionali di primario rilievo). Pertanto, «lo scrutinio di costituzionalità ex art. 3 Cost., sulla scelta di derogare alla retroattività di una norma penale più favorevole al reo deve superare un vaglio positivo di ragionevolezza, non essendo a tal fine sufficiente che la norma derogatoria non sia manifestamente irragionevole»7 . L'attenzione, in seguito, si focalizza sulle norme della Convenzione per la Salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), rilevanti nel nostro ordinamento quali parametri interposti ex art. 117 comma 1 Cost8 . 7 C. Cost., 23 novembre 2006, n. 393. 8 Con le sentenze gemelle n. 348 e 349 del 2007 la Corte Costituzionale ha affermato che le norme Cedu sono dotate di copertura costituzionale in forza dell'art. 117/1 Cost., nella parte in cui impone il rispetto, da parte della legislazione interna, dei vincoli derivanti dagli obblighi internazionali; pertanto, in caso di potenziale incompatibilità tra norma nazionale e norma convenzionale, il giudice, ove fallisca il tentativo di un’interpretazione conforme alla norma convenzionale interposta, non può autonomamente disapplicare la legge interna, ma deve sollevare questione di legittimità costituzionale della Succede, infatti, che il Sig. Scoppola, condannato dalla Corte di Assise d'Appello alla pena dell'ergastolo per aver commesso un omicidio aggravato e altri reati, ricorre alla Corte Europea, lamentando di essere rimasto vittima di una penalizzante successione normativa: il giorno stesso in cui, all'esito del rito abbreviato, è stato condannato dal GUP, con la riduzione di pena prevista dall'art. 442 comma 2 c.p.p. (così come modificato dalla l. n. 479 del 1999), a 30 anni di reclusione, è entrato in vigore il d.l. n. 341 del 2000 (convertito in l. n. 4 del 2001), che, con una disposizione, definita d'interpretazione autentica (art. 7 del d.l. citato), ha precisato come, nell'ipotesi di pena dell'ergastolo con isolamento diurno (prevista qualora concorra un delitto punibile con l'ergastolo e altri gravi delitti), lo sconto per il rito comportasse la sostituzione non con la reclusione ad anni 30, bensì con l'ergastolo senza isolamento. Così, la Corte d'Assise d'Appello, applicando la legge d'interpretazione autentica (in luogo della lex mitior intermedia, vigente al tempo in cui l'uomo aveva fatto richiesta di accesso al rito abbreviato), ha riformato la sentenza, condannando l'imputato all'ergastolo, e, successivamente, la Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso di Scoppola. Come noto, a questo punto si colloca l'intervento della Corte di Strasburgo, a cui il condannato si è rivolto: l'art. 442 comma 2 c.p.p. oggetto dell’interpretazione autentica e l'art. 7 disposizione interna per violazione del citato art. 117 comma 1 Cost. Fascicolo n. 1/2016 www.ilforomalatestiano.it Pag. 4 di 17 del d.l. n. 341/2000, disciplinando il trattamento sanzionatorio conseguente alla scelta del rito abbreviato, costituiscono norme di diritto penale sostanziale. Da ciò deriva sia l'intervenuta violazione dell’art. 7 della Convenzione, in quanto espressione non solo del principio di non retroattività della legge penale più severa, ma anche, implicitamente, di quello di retroattività della legge penale più favorevole al condannato, sia l'intervenuta violazione dell’art. 6, relativo al diritto ad un processo equo, perché l'imputato, scegliendo il rito speciale, ha fatto legittimo affidamento sulla riduzione di pena prevista al momento della sua richiesta9 . A fronte della conseguente necessità di reintegrare Scoppola nel diritto fondamentale violato, la Corte di Cassazione, adita dalla difesa con un ricorso straordinario ex art. 625 bis c.p.p., pur riconoscendo che «affidare al giudice dell'esecuzione il compito di sostituire la pena inflitta … è pienamente conforme alla normativa vigente», preferisce, evocando il principio della ragionevole durata del procedimento, procedere direttamente a ripristinare gli originari trent'anni di reclusione10. Residua il problema dei “fratelli minori di Scoppola”11, ossia dei condannati al carcere a vita, ammessi al rito abbreviato, che, pur non avendo presentato ricorso individuale alla 9 Corte Edu, caso Scoppola, ric. n. 10249/03, sentenza del 17 luglio 2009. 10 Cass., sez. V, 11 febbraio 2010, n. 16507, Scoppola. 11 Romeo, Giudicato penale e resistenza alla lex mitior sopravvenuta: note sparse a margine di Corte Costituzionale n. 210 del 2013, in www.penalecontemporaneo.it. Corte di Strasburgo, hanno optato per il procedimento speciale nell'arco di tempo compreso tra il 2 gennaio 2000, giorno di entrata in vigore della l. n. 479/99 (che ha consentito l'accesso a tale rito anche per i reati puniti con l'ergastolo), e il 24 novembre 2000, giorno di entrata in vigore del d.l. n. 341 del 2000 (convertito in l. n. 4 del 2001) e della sua disposizione autentica. Per gli altri, invece, partita chiusa; la situazione deve essere identica a quella del Sig. Scoppola: al momento della richiesta del rito alternativo ci deve essere stato un legittimo affidamento nell'applicazione della pena detentiva temporanea. Altrimenti, il processo è equo; quell'ergastolano non ha acquisito alcun diritto a vedersi applicata la più favorevole versione dell'art. 442 comma 2 c.p.p. Sulla questione “fratelli minori di Scoppola” si pronuncia la Corte Costituzionale, dichiarando l'illegittimità costituzionale della norma di cui all'art. 7 d.l. 341/2000 (in riferimento all’art. 117 comma 1 Cost., per violazione dell’art. 7 Cedu) e indicando la possibilità di provvedere in sede esecutiva alla rideterminazione delle pene, applicando la lex mitior intermedia12. Non si prendano, però, iniziative autonome: la Consulta ribadisce la tesi della necessità di un proprio intervento ove occorra dare esecuzione ad una sentenza della Corte EDU, che abbia accertato l’illegittimità di una norma nazionale (tesi già sostenuta nelle sentenze gemelle n. 348 e 349 del 2007). In particolare, il giudice 12 C. Cost., 18 luglio 2013, n. 210. Fascicolo n. 1/2016 www.ilforomalatestiano.it Pag. 5 di 17 dell'esecuzione non può intervenire in via diretta sul titolo esecutivo, autonomamente disapplicando la norma interna sulla base della sentenza della Corte europea, ma deve sollevare questione di legittimità costituzionale della disposizione interna per violazione dell'art. 117 comma 1 Cost., integrato dalla norma convenzionale interposta, così come interpretata dalla Corte di Strasburgo in un caso normativamente identico. Il Giudice delle Leggi, poi, chiarisce: l’ordinamento «conosce ipotesi di flessione dell'intangibilità del giudicato, che la legge prevede nei casi in cui sul valore costituzionale ad esso intrinseco si debbano ritenere prevalenti opposti valori, ugualmente di dignità costituzionale, ai quali il legislatore intende assicurare un primato. Tra questi, non vi è dubbio che possa essere annoverata la tutela della libertà personale, laddove essa venga ristretta sulla base di una norma incriminatrice successivamente abrogata oppure modificata in favore del reo». Evidentemente, allora, lo scenario muta e non solo per i pochi fratelli di Scoppola13. 13 Cass., sez. unite, 24 ottobre 2013, n. 18821, ric. Ercolano, chiudendo la saga dei fratelli minori di Franco Scoppola, ha precisato: «L'istanza di legalità della pena, per il vero, è un tema che, in fase esecutiva, deve ritenersi costantemente sub iudice e non ostacolata dal dato formale della c.d. "situazione esaurita", che tale sostanzialmente non è, non potendosi tollerare che uno Stato democratico di diritto assista inerte all'esecuzione di pene non conformi alla CEDU e, quindi, alla Carta fondamentale. Non va sottaciuto, infatti, che la restrizione della libertà personale del condannato deve essere legittimata, durante l'intero arco della sua durata, da una legge conforme alla Costituzione (artt. 13, comma secondo, 25, comma secondo) e deve assolvere la funzione rieducativa imposta dall'art. 27, Sono dei passe-partout i principi a cui perviene la Corte Costituzionale con la sentenza citata, adoperabili anche alla fattispecie di chi è stato condannato in virtù del d.p.r. 309/1990, come modificato dal d.l. 272/2005. Sul terreno pratico, infatti, nulla cambia: anche nel caso al nostro esame ci troviamo di fronte a una pronuncia d'incostituzionalità (la sentenza n. 32/2014), da cui potrebbe derivare per le condotte di detenzione illecita di droghe c.d. leggere una mitigazione della sanzione inflitta, e a un giudicato che pretenderebbe la definitività di una pena illegittima. 1.1 LA NUOVA LETTURA DELL'ART. 30 COMMA 4 L. N. 87 DEL 1953 Qual è la previsione che autorizza la rideterminazione post iudicatum della sanzione incostituzionale? All'interrogativo di recente si è risposto facendo leva sull'art. 136 Cost. e sull'art 30 comma 1 l. n. 87 del 1953 (ossia, sulla cessazione di efficacia e sull'inapplicabilità della norma dichiarata incostituzionale dal giorno successivo alla pubblicazione della decisione), nonché, sull'art. 30 comma 4 della legge citata. In particolare, quest'ultima disposizione, in deroga alla disciplina che regolamenta il fenomeno della successione di leggi “legittime” nel tempo (art. 2 comma 4 c.p.), ossia della successione di norme sino a quel momento valide ed efficaci, per il comma terzo, Cost., profili che vengono sicuramente vanificati dalla declaratoria d'incostituzionalità della normativa nazionale di riferimento, perché ritenuta in contrasto con la previsione convenzionale, quale parametro interposto dell'art. 117, comma primo, Cost». Fascicolo n. 1/2016 www.ilforomalatestiano.it Pag. 6 di 17 differente fenomeno dell'invalidità originaria (caducazione della norma ex tunc), prevede: «quando in applicazione della norma dichiarata incostituzionale è stata pronunciata sentenza irrevocabile di condanna, ne cessano la esecuzione e tutti gli effetti penali». La rilevante ampiezza del termine “norma” dichiarata incostituzionale (che va oltre i casi d'illegittimità del solo precetto d'incriminazione, com'è, invece, per l'art. 673 c.p.p.), porta a leggere la disposizione come divieto di dare esecuzione alla condanna (o alla porzione della condanna) pronunziata in applicazione di una norma penale dichiarata illegittima, pur incidente unicamente sul trattamento sanzionatorio. Sennonché, non tutti sono d'accordo; vengono ravvisati dei punti deboli: innanzitutto, la cessazione di tutti gli effetti penali è possibile solo se si fa cessare l'esecuzione dell'intera sentenza irrevocabile di condanna (non si dimentichi la congiunzione copulativa «e» che unisce «ne cessano l'esecuzione» a «tutti gli effetti penali»); poi, dato che la sentenza irrevocabile di condanna viene presa in considerazione quale frutto dell'applicazione di una norma dichiarata incostituzionale, l'enunciato linguistico porta a ritenere che la norma dichiarata incostituzionale debba essere quella sulla base della quale l'agente è stato condannato, ossia quella relativa alla fattispecie incriminatrice14. 14 Gambardella, Lex mitior e giustizia penale, Ed. Giappichelli, 2013, p. 181 e segg. 2. L'AMBITO D'INTERVENTO DEL GIUDICE DELL'ESECUZIONE Siamo alle condanne inflitte in relazione alle cd. droghe leggere, perché, a differenza di quanto previsto per le cd. droghe pesanti, la riviviscenza della legge JervolinoVassalli ha determinato la reintroduzione di un regime sanzionatorio più favorevole al reo per gli illeciti commessi, puniti con la pena della reclusione da due a sei anni e della multa da 5.164,57 a 77.468,53 Euro, anziché con la pena della reclusione da sei a venti anni e della multa da 26.000 a 260.000 Euro15. Innanzitutto, nessun dubbio che competa al giudice dell'esecuzione ricondurre la pena inflitta a legittimità; il giudice dell'esecuzione è, infatti, il garante del rapporto esecutivo, che deve essere adeguato alla situazione normativa sopravvenuta16. 15 E' utile rilevare che per le condotte di detenzione illecita di droghe c.d. pesanti, in ossequio al principio della irretroattività della legge penale meno favorevole previsto dall'art. 2 comma 4 c.p. («se la legge del tempo in cui fu commesso il reato e le posteriori sono diverse, si applica quella le cui disposizioni sono più favorevoli al reo, salvo che sia stata pronunciata sentenza irrevocabile»), la norma incriminatrice dichiarata incostituzionale, conducendo in concreto ad un trattamento più favorevole per l'imputato, può continuare a trovare applicazione per le condotte realizzate nel corso della sua vigenza. 16 Espressive dell'orientamento affermativo del potere di rideterminazione della pena in executivis sono: Cass., sez. I, 27 ottobre 2011, n. 977, che attribuisce al G. E. il compito d'individuare la porzione di pena corrispondente all'aggravante della clandestinità prevista dall'art. 61 n. 11 bis c.p. (giudicata incostituzionale con la sentenza n. 249 del 2010) e dichirarla non eseguibile; Cass., sez. I, 4 dicembre 2014, n. 5973, che, in seguito alla declaratoria di illegittimità costituzionale dell'art. 630 c.p., per omessa previsione dell'attenuante del fatto di lieve entità (C. Cost., sent. 19 marzo 2012, n. 68), riconosce al soggetto che stia scontando condanna definitiva per tale reato la possibilità di chiedere in executivis la verifica della sussistenza dei presupposti per il riconoscimento dell'attenuante e, Fascicolo n. 1/2016 www.ilforomalatestiano.it Pag. 7 di 17 L'approdo, però, obbliga a svolgere una serie di considerazioni. In particolare, si tratterà, innazitutto, di rispondere a questa domanda: quando una pena può considerarsi illegale? Secondo un primo orientamento, sono illegali solo le pene quantitativamente incompatibili con l'attuale quadro edittale. Ne consegue che, allorché i termini qualitativi e quantitativi della pena risultino contenuti sia nella legge concretamente applicata, sia in quella che avrebbe dovuto applicarsi nel quadro della legalità costituzionale (cioè, se si attesta nell'attuale massimo edittale di 6 anni di reclusione e nella frazione ricompresa tra i 26.000 e i 77.468 Euro), la pena non potrà essere rideterminata, perché “in concreto” non illegale17. Secondo la giurisprudenza prevalente, però, la conclusione deve essere diversa: l'illegalità della pena va valutata “in astratto”. Indipendentemente dalla sanzione comminata, in presenza di una conseguentemente, di chiedere la rideterminazione della pena; Cass., sez. unite, 29 maggio 2014, n. 42858, che riconosce come, nei casi della declaratoria di incostituzionalità dell’art. 69 comma 4 c.p., relativamente al divieto di prevalenza sulla recidiva reiterata del fatto di lieve entità di cui all’art. 73 comma 5 d.p.r. 309/90 (C. Cost. 215/2012), il GE possa affermare la prevalenza dell'attenuante in parola, rideterminando la pena non ancora interamente espiata. 17 Cfr., Cass., sez. VI, 2 dicembre 2014, n. 1409, cit.: «In tema di patteggiamento avente ad oggetto il reato di detenzione illecita di droghe cosiddette leggere sussiste la illegalità sopravvenuta della pena, solo quando la sentenza - pronunciata prima della dichiarazione di illegittimità costituzionale degli artt. 4 bis e 4 vicies ter del D.L. 30 dicembre 2005, n. 272, convertito con modificazioni della legge 21 febbraio 2006, n. 49, ad opera della Corte costituzionale con sentenza n. 32 del 2014 - faccia riferimento ad una sanzione incompatibile con i limiti edittali formalmente abrogati dalle disposizioni oggetto della pronuncia di incostituzionalità ed oggetto di reviviscenza per effetto di quest'ultima». dichiarazione d'incostituzionalità, in fase esecutiva è necessaria una rivalutazione18; la quantificazione è avvenuta tenendo conto di uno spazio sanzionatorio (il minimo e il massimo edittale) diverso e mutato, ergo, la determinazione è illegittima. Il discorso, poi, è destinato a complicarsi non appena si rivolge lo sguardo ai criteri di rideterminazione della pena. Si registrano tre diverse impostazioni: la prima, secondo cui il giudice dell'esecuzione deve limitarsi a riportare la pena inflitta per le droghe leggere all'attuale massimo edittale (in buona sostanza, a 6 anni), frazionando la pena ed eliminando la parte eccedente19; la seconda, che fa riferimento a un'operazione di tipo aritmetico-proporzionale, ossia la pena, costituzionalmente corretta, da applicare, deve corrispondere in proporzione all'entità della pena comminata sulla base dei limiti edittali in vigore al momento della decisione20 18 In tal senso, Cass., sez. I, 22 maggio 2015, n. 25891, cit.: «Va ribadito, inoltre, che la comparazione tra le fasce edittali previste dalla normativa dichiarata incostituzionale e quelle previgenti (e riattivatesi per effetto della pronunzia di incostituzionalità) porta a ritenere in ogni caso "illegale" il trattamento sanzionatorio inflitto in ipotesi di condotta illecita concernente le droghe c.d. "leggere" (ossia le sostanze rientranti nelle tabelle 2^ e 4^ allegate al D.P.R. del 1990) posto che in relazione a tali sostanze l'intervento normativo dichiarato illegittimo aveva comportato (a differenza di quanto previsto per le altre sostanze) un massiccio incremento dei limiti edittali della sanzione detentiva: il minimo edittale della condotta ordinaria era stato innalzato da 2 a 6 anni, quello della condotta attenuata da sei mesi a 1 anno; il massimo edittale era stato innalzato da 6 a 20 anni nell'ipotesi ordinaria e da 4 a 6 anni per l'ipotesi attenuata». 19 Trib. Milano, sez. XI, 3 aprile 2014, Giud. Cotta. 20 Cfr., tra le tante, GIP Rovigo, 28 marzo 2014, Giud. Mondaini;GIP Mantova, 3 giugno 2014, Giud. Grimaldi; GIP Bologna, 27 maggio 2014, Giud. Fascicolo n. 1/2016 www.ilforomalatestiano.it Pag. 8 di 17 (alcuni si sono orientati su uno sconto di 2/3, perché l’attuale minimo edittale è pari a 2 anni, quindi, la normativa dichiarata incostituzionale triplicava la pena minima); la terza, che, facendo leva sulla necessaria individualizzazione del trattamento sanzionatorio e sul fatto che il giudice della cognizione, nel commisurare la pena ai sensi dell’art. 133 c.p., si è riferito a dei parametri normativi illegittimi, riconosce in capo al giudice dell'esecuzione un autonomo potere discrezionale di determinazione, che tenga conto della più mite cornice edittale attualmente in vigore21. Altro problema spinoso: che ne è del reato continuato, nell'ipotesi in cui le condotte inerenti alle droghe leggere abbiano assunto il ruolo di reatisatellite? Per una tesi, se la pena-base è stata determinata con riferimento a una condotta avente ad oggetto la droga pesante, le modifiche normative, pur scaturenti da dichiarazione d'incostituzionalità della legge apparentemente vigente al momento del giudizio, non comportano la riformulazione del trattamento sanzionatorio, perché i reati minori perdono la loro autonomia sanzionatoria e la pena unica deve essere calcolata solo aumentando la pena individuata per il reato più grave Giangiacomo; Cass., sez. I, 25 novembre 2014, n. 51844. 21 Per esempio, GIP Rovereto, 17 aprile 2014, Giud. Dies; GIP Pisa, 15 aprile 2014, Giud. Bufardeci; GIP Trento, 18 aprile 2014, Giud. Ancona; Cass., sez. VI, 2 dicembre 2014, n. 1409. con quelle che si ritengono adeguate per i reati-satellite22. Sed contra, la rivalutazione è necessaria; la determinazione in concreto della misura dell'aumento da apportare per i singoli reati-satellite non può che avvenire con riferimento agli effettivi parametri edittali previsti per tali delitti (anche se ciò non impedisce al giudice di confermare la pena precedentemente applicata, ritenendola congrua)23. Insomma, una situazione interpretativa – e conseguentemente applicativa – molto complessa. A dirimerla sono intervenute le Sezioni Unite, che, con la sentenza n. 22471 del 26/02/15, pur investite del solo tema della legalità della pena stabilita per il reato continuato, non hanno esitato a chiarire:  la pena è illegale in astratto;  il giudice, come si osserva nella sentenza n. 26340/14 (Di Maggio), deve determinare nello specifico il trattamento sanzionatorio, riesercitando il potere discrezionale conferitogli dagli artt. 132 e 133 c.p., alla luce dei mutati indicatori astratti (il minimo e il massimo edittale);  anche l'aumento di pena calcolato a titolo di continuazione per i reatisatellite in relazione alle droghe leggere deve essere oggetto di specifica rivalutazione, non potendosi prescindere, nel 22 In tal senso, Cass., sez. VI, 6 marzo 2014, n. 12727; Cass., sez. VI, 25 marzo 2014, n. 21608; Cass., sez. III, 30 aprile 2014, n. 27066. 23 V., ex plurimis, Cass., sez. IV, 12 marzo 2014, n. 16245; Cass., sez. IV, 27 maggio 2014, 36244; Cass., sez. IV, 21 ottobre 2014, n. 46825. Fascicolo n. 1/2016 www.ilforomalatestiano.it Pag. 9 di 17 determinare la misura dell'incremento da apportare alla pena-base, con riferimento ai reati minori, dalla più favorevole cornice edittale applicabile a seguito della sentenza della Corte Costituzionale (e ciò, per la natura del reato continuato, che è una fictio iuris, espressione del principio del favor rei, già suscettibile di scissione per l'applicazione di diversi istituti, quali la prescrizione, l'indulto, l'estinzione delle misure cautelari personali e la sostituzione delle pene detentive brevi; perché l'art. 533 comma 2 c.p.p. impone espressamente al giudice, nell'ipotesi di condanna che riguardi più reati, di stabilire la pena per ciascuno di essi e, solo dopo, di determinare la pena da applicare per il reato unitariamente considerato; per consentire la verifica dell'osservanza del limite massino di estensione dell'aggravamento, coincidente, come previsto dall'art. 81 comma 3 c.p., con il cumulo delle singole sanzioni applicabili ai vari reati uniti dalla continuazione);  nell'ipotesi di "droga mista", allorché, applicando la normativa all'epoca (ritenuta) vigente, sia sia concluso per la unitarietà della condotta (sul presupposto della equipollenza tra i due tipi di sostanze stupefacenti), lo sdoppiamento delle fattispecie non potrà risolversi in danno dell'imputato, rimanendo quindi immutata la "pena unica" applicata all'epoca. Nondimeno, e per concludere, sempre sul piano del potere di rideterminazione, si ricordi: il giudice dell'esecuzione procede tenendo conto delle questioni già decise dal giudice della cognizione per ragioni di merito autonome (cioè, per ragioni indipendenti dall'applicazione della norma dichiarata incostituzionale), perché, insegna la Suprema Corte, «... le valutazioni del giudice dell'esecuzione non potranno contraddire quelle del giudice della cognizione risultanti dal testo della sentenza irrevocabile»24. L'intervento in executivis rimane residuale e sussidiario. 2.1 IL FATTO DI LIEVE ENTITÀ Anche nell'ipotesi di fatti di lieve entità concernenti le droghe leggere, la riviviscenza della legge JervolinoVassalli ha determinato la reintroduzione di un regime sanzionatorio più favorevole al reo per gli illeciti commessi (art. 73 comma 5 d.p.r.), puniti con la pena della reclusione da 6 mesi a 4 anni e della multa da 1.032 a 10.329 Euro, anziché con la pena della reclusione da 1 a 6 anni e della multa da 3.000 a 26.000 Euro (per le droghe pesanti la pena detentiva è rimasta invariata). Sennonché, dall'entrata in vigore del d.p.r. n. 309/90 ad oggi, si sono succedute altre due versioni dell'art. 73 comma 5: con il d.l. 23 dicembre 2013 n. 146 (convertito nella l. 21 febbraio 2014 n. 10), il legislatore ha 24 Cass., sez. unite, 29 maggio 2014, n. 42858, Gatto. Fascicolo n. 1/2016 www.ilforomalatestiano.it Pag. 10 di 17 trasformato la circostanza attenuante del “fatto di lieve entità” in una fattispecie autonoma di reato, senza alcuna distinzione tra droghe leggere e pesanti, e ha ridotto la pena detentiva, portandola da 1 a 5 anni di reclusione25; con la l. 16 maggio 2014 n. 79 (di conversione del d.l. 20 marzo 2014 n. 36), il legislatore ha ulteriormente mitigato la risposta sanzionatoria, prevedendo (sempre per tutti i tipi di sostanza supefacente) la reclusione da 6 mesi a 4 anni e la multa da 1.032 a 10.329 Euro. Allora, l'incostituzionalità del trattamento sanzionatorio post iudicatum si scontra con il fenomeno della successione di leggi penali nel tempo. Ci si riferisce al fatto che la sentenza n. 32 della Corte Costituzionale non ha alcuna incidenza sulla validità della nuova incriminazione prevista al medesimo comma 5 dell'art. 73, perché si deve sempre distinguere la declaratoria di illegittimità costituzionale di una norma dal fenomeno della successione delle leggi penali nel tempo, disciplinato dall’art. 2 c.p. Proprio in ragione di tale distinzione, «il giudice dell’esecuzione, nella rimodulazione della pena, dovrà senz’altro tenere conto della versione originaria dell’art. 73, comma 5, d.p.r. n. 309/1990, tornata ipso iure in vigore 25 Cfr., Cass., sez. I, 15 luglio 2015, n. 36760, cit.: «L'effetto della pronunzia di incostituzionalità è stato quello di "riespandere" ... la previgente disciplina incriminatrice e le correlate diverse sanzioni (fermo restando che per l'ipotesi di fatti di lieve entità il limite temporale finale va anticipato al 23 dicembre 2013, essendo il giorno seguente entrata in vigore diversa e autonoma disciplina normativa introdotta dal D.L. n. 146 del 2013)». a seguito dell’intervento del Giudice delle leggi», ma, stante il limite preclusivo di cui all'art. 2 comma 4 c.p., quand'anche la nuova disciplina fosse più favorevole (e lo è senz'altro per i fatti aventi ad oggetto droghe pesanti), mai potrebbe dar rilevanza alle modifiche intervenute con il d.l. n. 146/2013 e con la l. n. 79/2014, relativamente alle sentenze già passate in giudicato26. 3. LA RICHIESTA PER LA RIDETERMINAZIONE Come si esordisce? Innanzitutto, c'è chi dice: non vi è nulla da revocare, l'accertamento del fatto costituente reato e la sua attribuzione alla persona condannata rimane ferma. Si tratta, invece, di dichiarare non eseguibile una data pena e di applicarne una legittima. Quindi, lo strumento processuale non può essere l'art. 673 c.p.p.27 (revoca della sentenza per abolizione del reato), che prende espressamente in considerazione i fenomeni della abrogazione o di dichiarazione d'illegittimità dell'intera fattispecie oggetto della pronuncia irrevocabile, con l'attribuzione al giudice dell'esecuzione del potere di incidere direttamente su questa, cancellandola radicalmente o limitatamente a uno o più dei fatti-reato oggetto di giudizio (cd. revoca parziale), perché quella norma non 26 Le parole citate sono tratte da Turco, Illegittimita costituzionale di una norma penale non strettamente incriminatrice e rimodulazione della pena in executivis: un altro passo verso la graduabile erosione del “mito del giudicato”, in Processo penale e giustizia, n. 3/2015, p. 80. 27 Cfr., in tal senso, Cass., sez. unite, 24 ottobre 2013, n. 18821, ric. Ercolano. Fascicolo n. 1/2016 www.ilforomalatestiano.it Pag. 11 di 17 consente «la scissione del singolo capo d'accusa e la risoluzione del giudicato formale in relazione ad aspetti meramente circostanziali, o sanzionatori, ad esso inerenti»28. Da questa premessa prendono il via due orientamenti: alcuni sostengono l'esistenza di un potere atipico, fondato sulla diretta applicazione dell'art. 30 comma 4 l. n. 87/53, perché il genus delle doglianze da cui può essere investito il giudice ex art. 666 c.p.p. comprende «tutti quei vizi che, al di là delle specifiche previsioni espresse, non potrebbero farsi valere altrimenti considerata l’esigenza di garantire la permanente conformità a legge del fenomeno esecutivo» 29; altri, invece, individuano lo strumento nell'incidente disciplinato dall'art. 670 c.p.p., che rappresenta «un mezzo per far valere tutte le questioni relative non solo alla mancanza o alla non esecutività del titolo, ma anche quelle che attengono alla eseguibilità e alla concreta attuazione del medesimo»30. Circa il momento oltre il quale non è più consentita la rimozione, questo è da individuarsi in quello della completa esecuzione della pena (o della parte di pena) di cui si chiede la rideterminazione. Invero, si sottolinea come la totale espiazione della pena per 28 Così Cass., sez. I, 27 ottobre 2011, n. 977, ric. PM in proc. Hauohu. 29 Così, Cass., sez. unite, 24 ottobre 2013, n. 18821, ric. Ercolano, richiamata da Cass., sez. unite, 29 maggio 2014, n. 42858, ric. Gatto. 30 Così, sempre, Cass., sez. unite, 24 ottobre 2013, n. 18821, ric. Ercolano, nella quale si afferma anche: «Ricorrendo tali condizioni, il giudice dell'esecuzione non deve procedere alla revoca (parziale) della sentenza di condanna, ma deve limitarsi, avvalendosi degli ampi poteri conferitigli dagli artt. 665 e 670 c.p.p., a ritenere non eseguibile la pena inflitta e a sostituirla con quella convenzionalmente e costituzionalmente legittima». un fatto-reato, già giudicato con una pronuncia irrevocabile, renda gli effetti della sentenza irreversibili e, dunque, irrimuovibili, perché l’art. 30 comma 4 della l. 87/1953, prevedendo espressamente la «cessazione dell'esecuzione» della pena, postula che il rapporto esecutivo sia ancora in corso e che la pena sia in fase (o in attesa) di espiazione31. 3.1 LA SOSPENSIONE CONDIZIONALE DELLA PENA Abbiamo considerato gli strumenti processuali suggeriti dalla giurisprudenza prevalente ed è, dunque, fisiologico affrontare i conseguenti maggiori problemi pratici. Supponiamo che una pena originariamente fissata oltre i limiti previsti dall’art. 163 c.p., venga rideterminata entro tali limiti. Secondo la giurisprudenza di merito, sia che si adotti la soluzione dello strumento di cui all'art. 670 c.p.p., sia che si addotti quella della competenza generale del giudice dell'esecuzione di cui agli artt. 665 e 666 c.p.p., il giudice, pur sussistendo i presupposti, non potrà concedere la sospensione condizionale della pena, trattandosi di potere previsto, in fase esecutiva, solo nelle ipotesi di riconoscimento del concorso formale o della continuazione ai sensi dell'art. 671 comma 1 c.p.p. e, implicitamente, nel caso di revoca di cui all'art. 673 c.p.p. («adotta i provvedimenti conseguenti»). Quei giudici, dunque, non nascondono le loro perplessità; è irragionevole la 31 Cfr. Cass., sez. I, 22 dicembre 2014, n. 53793; in senso analogo, Cass., sez. unite, 29 maggio 2014, n. 42858, Gatto, e Cass., sez. I, 22 maggio 2015, n. 25891. Fascicolo n. 1/2016 www.ilforomalatestiano.it Pag. 12 di 17 diversità di disciplina rispetto ai casi analoghi disciplinati dall’art. 673 c.p.p. (e dall’art. 671 c.p.p.). In particolare, si sottolinea come «nonostante la perentorietà delle affermazioni compiute sul punto dalle Sezioni Unite la partita sullo strumento processuale non può ritenersi definitivamente chiusa, considerando che entrambe le sentenze si sono pronunziate su casi in cui la possibilità di concessione della sospensione condizionale della pena era esclusa alla radice (alternativa tra ergastolo e 30 anni di reclusione, nel primo, recidivi reiterati, nel secondo), mentre verrà posta in modo impellente dalle numerose richieste di rideterminazione della pena fondate sull’incostituzionalità della legge c.d. Fini-Giovanardi»32. Si articola, così, il diverso orientamento secondo cui lo strumento processuale per la rideterminazione della pena incostituzionale è la norma di cui all'art. 673 c.p.p., applicabile in via analogica, perché, come ha affermato la Corte Costituzionale (n. 96 del 1996), investita di una questione di legittimità costituzionale dell’articolo citato (per le ipotesi di condanne per più reati uniti in continuazione solo alcuni dei quali oggetto di abolizione), il potere di rideterminazione non è altro che la conseguenza ineludibile della revoca del giudicato. Del resto, se il legislatore ha ritenuto d'introdurre l'art. 673 c.p.p. «proprio al fine di realizzare una più compiuta tutela dei casi previsti dall’art. 2, comma 2 c.p. e 30, comma 4 legge n. 87 del 1953, con revoca della condanna 32 Così, Tribunale di Rovereto, ordinanza del 2 ottobre 2014, Pres. Est. Riccardo Dies. anziché con la sola perdita di efficacia esecutiva, ragioni di coerenza sistematica spingono a ritenere che l’estensione in via interpretativa della norma sostanziale possa e debba implicare anche una corrispondente estensione interpretativa della norma processuale»33. Tale orientamento affonda le sue radici, per un verso, nella comune ratio sottesa, per l'altro, nel principio di parità di trattamento e di legalità delle pene, che impediscono sperequazioni punitive fondate unicamente sul tempo in cui si forma il giudicato. Ne deriva, accedendo a tale impostazione, che, all'esito dell'udienza, il giudice dovrà, da un lato, revocare, limitatamente alla pena, la condanna pronunciata in applicazione di una norma illegittima, dall'altro, rideterminare la sanzione alla stregua della norma legittima, con la possibilità anche di concedere il beneficio della sospensione condizionale negato dal giudice della cognizione per il superamento dei limiti previsti dall’art. 163 c.p. Diversa, invece, la soluzione proposta recentemente dalle Sezioni Unite della Suprema Corte, che, pur ammettendo la possibilità di riconoscere la sospensione condizionale, in conseguenza della determinazione di una nuova pena in sostituzione di quella illegale, continuano a esprimere un netto rifiuto all'applicazione analogica dell'art. 673 c.p.p34. 33 Così, sempre, Tribunale di Rovereto, ordinanza del 2 ottobre 2014. 34 Cfr. Cass., sez. unite, 26 febbraio 2015, n. 37107; in senso analogo, Cass., sez. I, 9 settembre 2015, n. 40702, e Cass., sez. I, 19 giugno 2015, n. 31434. Fascicolo n. 1/2016 www.ilforomalatestiano.it Pag. 13 di 17 In particolare, la conclusione favorevole alla concedibilità della sospensione condizionale della pena nell'ipotesi di rideterminazione in mitius della pena per effetto della dichiarazione d'illegittimità costituzionale di norma incidente in misura sfavorevole sul trattamento sanzionatorio, viene tratta da esigenze di ordine logico, coessenziali alla razionalità del sistema. La legge demanda al giudice dell'esecuzione la funzione di ricondurre la pena inflitta a legittimità, facendone cessare l'esecuzione e tutti gli effetti penali, e proprio dalla necessità di eliminare gli effetti giuridici comunque pregiudizievoli scaturiti dal giudicato s'inferisce la possibilità di concedere il beneficio di cui all'art. 163 c.p. prima precluso. Nihil novi, si è osservato: in executivis, il potere di prendere in considerazione, ricorrendone i presupposti, anche la richiesta del condannato di concessione della sospensione condizionale, è già riconosciuto nel caso di concorso formale e di reato continuato (art. 671 c.p.p.), anche se si tratti di sentenze di applicazione della pena su richiesta delle parti (art. 188 disp. att. c.p.p.), e nel caso di revoca di sentenze per abolizione di reati (art. 673 c.p.p.). Quanto, invece, al giudizio prognostico richiesto dall'art. 164 comma 1 c.p., ossia alla presunzione di astensione del condannato da comportamenti di rilievo penale, il giudice dell'esecuzione, titolare di propri poteri istruttori e valutativi, non potrà circoscrivere il suo apprezzamento alla sola situazione esistente al momento in cui è stata pronunciata la condanna, ma dovrà valutare tutti gli elementi sopravvenuti. Infine, però, mettiamo che il giudicante ritenga di non poter accogliere la richiesta del beneficio. Nessun problema se si tratta di reati giudicati nelle forme ordinarie: il giudice rigetta. Il discorso è, invece, destinato a complicarsi, non appena si rivolge lo sguardo ai reati oggetto di sentenza di patteggiamento, la cui pena, come vedremo, deve essere rideterminata in sede esecutiva attraverso la rinegoziazione dell'accordo tra le parti35. In particolare, al riguardo, si registrano due impostazioni: la prima, secondo cui «resta ferma la valutazione del giudice dell'esecuzione che potrebbe non condividere l'applicazione del beneficio, nel qual caso, non potendo respingere l'accordo, come invece avviene in sede di cognizione, dovrà comunque recepirlo, escludendo la sospensione condizionale, sempre che ritenga congrua la pena»36; la seconda, che ritiene che il diniego del beneficio debba «comportare il rigetto della richiesta a norma dell'art. 444 c.p.p., comma 3 e non l'applicazione della pena con modalità diverse da quelle convenute tra le parti»37. 3.2 LA FUNGIBILITÀ. CONSIDERAZIONI PERSONALI Non solo, a parere di chi scrive, conviene anche interrogarsi sulle “situazioni esaurite”, lette come 35 Vedi infra par. 4. 36 Così, Cass., sez. unite, 26 febbraio 2015, n. 37107. 37 Così, Cass., sez. I, 29 maggio 2015, n. 35842. Fascicolo n. 1/2016 www.ilforomalatestiano.it Pag. 14 di 17 integrale espiazione della pena di cui si chiede la rideterminazione. Si è detto, la rimozione è consentita solo se la pena sia in fase (o in attesa) di espiazione. Tuttavia, la situazione appare stravagante; se la pena (o la parte di pena) ancora da espiare è illegale e, come tale, ingiusta (perché imposta da un legislatore che ha violato la Costituzione38), non si vede perché non debba essere ritenuta tale anche quella già integralmente espiata. Ledendo il principio di uguaglianza/ragionevolezza sancito dall'art. 3 Cost. e quello del favor libertatis desumibile dall'art. 13 comma 1 Cost., si diversifica il trattamento di soggetti che hanno ugualmente riportato una condanna definitiva a pena detentiva e subito un'ingiusta carcerazione sulla base di circostanze meramente casuali (a seconda dell'eventualità che sia in atto il rapporto esecutivo dipendente dal titolo che scaturisce dalla condanna a pena illegittima, o che, invece, la pena sia già stata integralmente espiata in dipendenza di un fattore di natura temporale), senza che ciò trovi alcuna 38 Sull'ingiustizia della pena, cfr., ex plurimis, Cass., sez. unite, 29 maggio 2014, n. 42858. Alla luce della dichiarazione l'illegittimità costituzionale dell'art. 69 comma 4 c.p., nella parte in cui vietava di valutare prevalente la circostanza attenuante di cui all'art. 73 comma 5 d.p.r. 9 ottobre 1990, n. 309, sulla recidiva di cui all'art. 99 comma 4 c.p., riconoscendo al GE il potere di affermare la prevalenza dell'attenuante (fino a quando il trattamento sanzionatorio non sia stato interamente eseguito), la Corte osserva: «Nei confronti del condannato è, pertanto, in atto l'esecuzione di pena potenzialmente illegittima e ingiusta, in quanto parzialmente determinata dall'applicazione di una norma di diritto penale sostanziale dichiarata illegittima dalla Corte costituzionale dopo la sentenza irrevocabile e contrastante con la finalità rieducativa prevista dall'art. 27 Cost.., comma 3». giustificazione nell'art. 30 comma 4 della l. 87/1953, che fa espresso riferimento alla “cessazione dell'esecuzione”, ma che non esclude la praticabilità della via di cui all'art. 12 comma 2 disp. prel. (se una controversia non può essere decisa con una precisa disposizione, bisogna ricorrere alle norme che regolano casi simili o materie analoghe, oppure, in via gradata, ai principi generali dell'ordinamento giuridico dello Stato)39. A ciò si aggiunga quanto affermato dalla giurisprudenza costituzionale: «le finalità rieducative di cui al terzo comma dell'art. 27 Cost. … possono aver senso anche se riferite ad altro reato»40. In termini pratici, che ne è del condannato che, espiata per intero la pena, abbia comunque interesse a chiedere la rideterminazione al fine di computare in detrazione la pena espiata da quelle inflitte per altri reati? Perché il pregiudizio derivante da una limitazione della libertà ingiustamente sofferta, in quanto comminata in forza di una norma geneticamente invalida, non dovrebbe essere rimosso dall'universo giuridico? L'art. 657 c.p.p., che prevede una riparazione in forma specifica per la detenzione risultata ex post ingiusta, consentendo di imputarla alla pena da eseguire per altro reato, non contempla 39 Chi scrive, in realtà, si augura un intervento del legislatore che regoli compiutamente la materia o, quantomeno, una sentenza additiva della Corte Costituzionale. Quanto ai principi dell'ordinamento giuridico su cui ha fatto leva la giurisprudenza che ha ritenuto applicabile in via analogica l'art. 673 c.p.p., si ricordano quello della legalità delle pene e della parità di trattamento punitivo. 40 C. Cost., 14 aprile 1988, n. 442. Fascicolo n. 1/2016 www.ilforomalatestiano.it Pag. 15 di 17 espressamente il caso in questione, ma è evidente la similitudine tra il fenomeno della rideterminazione della pena fondata sull’incostituzionalità della legge e quello dell'abolitio criminis, per cui, invece, è ammessa l'applicazione della fungibilità. L'abolizione del reato (per abrogazione o per dichiarazione d'illegittimità della norma incriminatrice) comporta la cessazione del reato e della relativa sanzione; la dichiarazione d'incostituzionalità della legge c.d. Fini-Giovanardi, invece, fa sopravvivere il reato, ma, comunque, ne muta la sanzione. Ergo, in entrambi i casi, siamo in presenza di un provvedimento che genera un “credito” di pena per una carcerazione indebitamente subita; tale carcerazione, anche alla luce del principio del favor rei, che, per la giurisprudenza, si applica in fase esecutiva, deve poter essere recuperata. 4 LA RIDETERMINAZIONE DELLA PENA PATTEGGIATA Vale a tale proposito quanto osservato sub § 2, la rideterminazione della pena è possibile anche nei casi di sentenza irrevocabile di patteggiamento. Nessun dubbio, infatti, per le Sezioni Unite. La Suprema Corte, con la decisione n. 37107 del 26.2.2015 (ric. Marcon), afferma che la pena applicata su richiesta delle parti per il reato di cui al d.p.r. n. 309 del 1990, art. 73, con riferimento alle c.d. "droghe leggere", con pronuncia divenuta irrevocabile prima dell'intervento della Corte Costituzionale, debba essere rideterminata dal giudice dell'esecuzione. Sennonché, quella decisione si spinge oltre: ciò deve avvenire, «in sintonia con quanto previsto dall'art. 188 disp. att. c.p.p.»41, attraverso la "rinegoziazione" dell'accordo tra le parti ratificato dal giudice dell'esecuzione, investito attraverso un incidente di esecuzione attivato dal condannato o dal pubblico ministero (anch'egli interessato all'eliminazione di una sanzione illegale, quale garante della corretta applicazione della legge); in caso di mancato accordo (per dissenso o inerzia del pubblico ministero), il giudice dell'esecuzione potrà ugualmente accogliere la proposta del condannato. Infatti, «il ricorso analogico alla disposizione in esame non solo consente di intervenire sulla pena illegale della sentenza di patteggiamento irrevocabile, ma assicura alle parti la possibilità di rinnovare l'accordo, rispettando l'essenza stessa dell'istituto dell'applicazione della pena su richiesta»42. In proposito, può essere utile ricordare che l'art. 188 disp. att. c.p.p. disciplina, parallelamente all’art. 671 c.p.p., il riconoscimento della continuazione o del concorso formale in sede esecutiva, con riferimento alle pene inflitte per reati giudicati con plurime sentenze di patteggiamento in procedimenti distinti. Sinteticamente, l'interessato ed il pubblico ministero, dopo aver 41 Così Cass., sez. I, 16 luglio 2015, n. 32239. 42 Così, Cass., sez. unite, 26 febbraio 2015, n. 37107. Fascicolo n. 1/2016 www.ilforomalatestiano.it Pag. 16 di 17 concordato l'entità di una pena che non sia superiore ai cinque anni di reclusione, ovvero ai due anni nelle ipotesi speciali previste nel comma 1 bis dell’art. 444 c.p.p., soli o congiunti a pena pecuniaria, presentano congiuntamente al giudice un’istanza, con la quale chiedono l'applicazione del regime del reato continuato (in quanto tali sentenze sono frutto di un accordo che il giudice si è limitato a recepire e ratificare, dopo averne valutati i presupposti di legge). Il giudice, una volta accertata l’esistenza della continuazione, è vincolato all’applicazione della pena nella misura concordata, mentre, quando vi sia disaccordo da parte del pubblico ministero (sulla quantificazione della pena o sull’esistenza stessa della continuazione), dopo la necessaria verifica dell’unitarietà del disegno criminoso, può ugualmente accogliere la richiesta. Allora, torniamo alla pena incostituzionale e non dimentichiamo l'autorevole dottrina: se lo strumento processuale per la rideterminazione della pena incostituzionale non è l'art. 671 c.p.p., come può essere invocata la parallela norma di cui all’art. 188 disp. att. c.p.p. per i casi di pene illegali inflitte con sentenze di patteggiamento? L'art. 188 disp. att., che ha natura eccezionale, disciplina un’ipotesi precisamente delineata (per la sentenza delle Sezioni Unite richiamata si tratta di una disposizione “speciale” rispetto a quella generale prevista dall'art. 671 c.p.p.); non solo, sembra mancare l’eadem ratio (nel caso di specie, il giudice dell'esecuzione è chiamato esclusivamente ad eliminare la pena "incostituzionale") e la lacuna normativa (la materia è trattata dai commi 3 e 4 dell'art. 30 l. n. 87/1953)43. Infine, altro problema spinoso: cosa succede qualora la pena proposta non sia ritenuta congrua? La via breve è quella di legare il giudice, come nel caso di riconoscimento del concorso formale o della continuazione tra reati, al contenuto dell'accordo negoziato: se la pena è determinata in modo incongruo, non essendo consentito un intervento di modifica da parte del giudice, la soluzione obbligata è il rigetto della richiesta44. Ma questa lettura, con riguardo all'ipotesi di pena incostituzionale, non convince. Invero, sottolineano le Sezioni Unite, se la valutazione negativa in ordine alla congruità della sanzione proposta (sia essa frutto dell'accordo delle parti o indicata dal condannato con il dissenso del pubblico ministero), potesse solo sfociare in un provvedimento reiettivo, si giungerebbe al paradosso di autorizzare la conferma di una pena illegale. Peraltro, continua quella giurisprudenza, l'opzione qui disattesa «appare comunque in contrasto con il principio di ragionevole durata del processo e di economia processuale, in quanto consentirebbe la moltiplicazione delle istanze e la conseguente protrazione dei tempi di decisione, con la permanenza della 43 Giuseppe Riccardi, Giudicato penale e “incostituzionalità” della pena, in Diritto Penale Contemporaneo, 22/12/2014, p. 21. 44 Cfr., tra le tante, in riferimento all'art. 188 disp. att. c.p.p., Cass., sez. I, 2 aprile 2014, n. 18233. Fascicolo n. 1/2016 www.ilforomalatestiano.it Pag. 17 di 17 pena illegale per un tempo indeterminato»45; mentre, il potere di rideterminazione si pone in continuità con la disciplina e il sistema del procedimento speciale, dal momento che sia in sede di cognizione (art. 448 c.p.p.), sia in sede di esecuzione (art. 188 disp. att. c.p.p.), sono previste ipotesi in cui il giudice prescinde dall'esistenza dell'accordo. Perciò, il giudice dell'esecuzione, che non aderisca alla commisurazione del trattamento sanzionatorio, ben potrà rideterminarlo in via autonoma, sulla scorta dei parametri di cui agli artt. 132 e 133 c.p. (con la diminuzione di un terzo spettante per effetto della scelta del rito alternativo), secondo i canoni dell'adeguatezza e della proporzionalità che tengano conto dei nuovi limiti edittali.
 

pdf-icon