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L’art. 131-bis c.p., inserito subito prima degli articoli concernenti l’esercizio del potere discrezionale del giudice nell’applicazione della pena, è un istituto previsto in attuazione della più ampia delega conferita al Governo per la riforma del “sistema delle pene”. La norma - introdotta con il decreto legislativo n. 28 del 2015 - in ossequio alle indicazioni di delega, configura la possibilità di definire il procedimento con la declaratoria di non punibilità per particolare tenuità del fatto relativamente ai reati per i quali è prevista la pena detentiva non superiore nel massimo a cinque anni, ovvero la pena pecuniaria, sola o congiunta alla pena detentiva. Le esigenze che stanno alla base dell'istituto, sintetizzate nella Relazione di accompagnamento sono; 1) l ’ alleggerimento del carico giudiziario, soddisfabile al meglio ove la definizione del procedimento tenda a collocarsi nelle sue prime fasi; 2) il rispetto del principio di proporzione, che è f u n z i o n a l e a d evitare il dispendio di energie processuali per fatti cd. bagatellari, sproporzionati sia per l'ordinamento sia per l'autore, "costretto a sopportare il peso psicologico del processo a suo carico" ; 3) l'adeguata considerazione della posizione della persona offesa, soddisfatta con la previsione di spazi di interlocuzione anche nell’ipotesi dell'archiviazione (art. 411 comma 1 bis c.p.p.), come pure con l'esplicita previsione normativa dell’efficacia della sentenza di proscioglimento per particolare tenuità del fatto nel giudizio civile o amministrativo di danno (art. 651 bis c.p.p.). Il fondamento costituzionale della non punibilità per “particolare tenuità del fatto”, dunque, può BREVI OSSERVAZIONI SUL PROSCIOGLIMENTO PER PARTICOLARE TENUITÀ DEL FATTO Giorgio Barbuto Fascicolo n. 1/2016 www.ilforomalatestiano.it Pag. 2 di 10 rinvenirsi nei principi di proporzione ed economia processuale: l’istituto in esame rappresenta un momento di bilanciamento tra il principio costituzionale dell’obbligatorietà dell’azione penale (art. 112 Cost.1 ) e la finalità rieducativa della pena (art.27 Cost.), che presuppone, appunto, la proporzionalità fra la sanzione irrogata e la condotta commessa. Peraltro nella relazione illustrativa allegata allo schema di decreto legislativo, si precisa che l’istituto in esame realizza il principio, anch’esso di rango costituzionale, secondo cui la sanzione penale è l’extrema ratio dell’ordinamento giuridico. Come anticipato, l’istituto della particolare tenuità del fatto trova la sua disciplina sostanziale nell'articolo 131 bis c.p., laddove il relativo apprezzamento è correlato all'offesa che deve essere di "particolare tenuità" e va desunta dalle modalità della 1 In dottrina è stato acutamente osservato che la declaratoria di tenuità può operare, nella sua veste di strumento di tutela del principio di obbligatorietà, anche contro le ragioni dell’economia processuale. Tutti sanno che molte notitiae criminis concernenti fatti cd. bagatellari vengono oggi abbandonate sul binario morto della prescrizione, o rese immuni alla regola dell’obbligatorietà mediante l’ impiego del c.d. “modello 45”. Tuttavia, il nuovo istituto non permetterà di risparmiare tempo e risorse, perché lo smaltimento della notizia di reato avviene già a costo zero: al contrario, dovrà essere spesa l’ulteriore moneta processuale necessaria per la celebrazione del rito archiviativo. (così Caprioli, Prime considerazioni sul proscioglimento per particolare tenuità del fatto, in Diritto Penale Contemporaneo, 8 luglio 2015, 4). condotta e dall'esiguità del danno o del pericolo, nonché al comportamento c h e non deve risultare "abituale". Seppure, da un punto di vista procedurale, l'articolo 131 bis c.p. è la norma di riferimento allorquando la decisione liberatoria intervenga dopo 1'esercizio dell'azione penale (non a caso la norma trova la sua collocazione in apertura del titolo V del Libro I del Codice penale, subito prima degli articoli concernenti 1'esercizio del potere discrezionale del giudice nell'applicazione della pena), la causa di non punibilità può essere applicata anche durante la fase delle indagini, così soddisfacendo al meglio l'esigenza di alleggerimento del carico giudiziario (v. Relazione di accompagnamento). Infatti, nell'articolo 411 c.p.p. nel nuovo comma 1 b i s è contenuta la disciplina dell'archiviazione "per la particolare tenuità del fatto", la cui peculiarità è rappresentata dall’interlocuzione dell’indagato e della persona offesa che possono censurare nel merito la richiesta di archiviazione. L'interlocuzione, invece, n o n è e s pressamente prevista dopo l'esercizio dell'azione penale, né in sede di udienza preliminare, t a n t o m e n o in sede dibattimentale, in quanto in tali fasi risulta già pienamente garantito il contraddittorio. Anche nel caso in cui la decisione Fascicolo n. 1/2016 www.ilforomalatestiano.it Pag. 3 di 10 intervenga prima dell'esercizio dell'azione penale, con l'archiviazione, i presupposti sostanziali di applicazione sono rinvenibili nell'articolo 131 bis c.p., norma fondamentale che fonda i presupposti e i limiti dell'istituto quale che sia la fase procedimentale. SOGLIA RILEVANTE DELL’OFFESA: NON PUNIBILITÀ ED OFFENSIVITÀ DEL FATTO In tal senso è molto chiara la Relazione di accompagnamento secondo la quale l'applicabilità dell'istituto presuppone sempre e necessariamente un fatto "non inoffensivo". Il giudizio sull’irrilevanza del fatto pretende, infatti, che sia risolta positivamente la valutazione sulla sussistenza, nella fattispecie esaminata, di una condotta riconducibile ad una fattispecie criminosa, perfetta in tutti i suoi elementi costitutivi, oggettivi e soggettivi, e concretamente punibile; pertanto, deve ritenersi esclusa l'applicabilità della disciplina del reato impossibile ( art. 49 c . p . ) c h e presuppone l’inidoneità assoluta della condotta a ledere l'interesse tutelato dalla norma. Detto altrimenti, l'istituto dell' irrilevanza per particolare tenuità presuppone un fatto tipico, costitutivo di reato e offensivo dell'interesse tutelato, ma da ritenere non punibile in ragione dei principi di proporzione e di economia processuale che stanno alla base del decreto legislativo. Questa conclusione trova conferma dalla circostanza che anche l'archiviazione per la riconosciuta particolare tenuità del fatto produce conseguenze giuridiche sfavorevoli, come attestato dalla prevista iscrizione del relativo provvedimento nel casellario giudiziale, con effetto - tra gli altri - ai fini dell'apprezzamento dell'abitualità ostativa all'applicazione dell’istituto (art. 131 bis, comma 3 c.p.). Ed invero, proprio per le medesime ragioni è stata introdotta un’interlocuzione nel caso in cui il pubblico ministero intenda richiedere l'archiviazione per la particolare tenuità del fatto, sì da consentire all’indagato, mediante l'opposizione, di far valere le ragioni che dovrebbero piuttosto condurre ad una decisione liberatoria nel merito. L'AMBITO DI APPLICAZIONE: L'INDIVIDUAZIONE DEI REATI L'istituto dell'esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto, in conformità a quanto previsto nella legge delega n. 67/2014, è applicabile ai soli reati puniti con la pena pecuniaria, sola o congiunta a pena detentiva, ovvero con la pena detentiva non superiore nel massimo a cinque anni (art. 131 bis, comma 1 c.p.). Fascicolo n. 1/2016 www.ilforomalatestiano.it Pag. 4 di 10 Nel comma 4 dello stesso articolo 131 bis sono dettati i criteri per la determinazione della pena detentiva ai fini dell'applicazione dell'istituto per il caso in cui siano presenti circostanze . E’ stato utilizzato un criterio già adottato nella nostra legislazione, stabilendosi che non si deve tenere conto delle circostanze, ad eccezione di quelle per le quali la legge stabilisce una pena di specie diversa da quella ordinaria del reato e di quelle ad effetto speciale, con la precisazione che, in tali evenienze, ai fini del computo della pena, non si deve tenere conto del giudizio di bilanciamento delle circostanze ex art.69 c.p. Invero, la regola riproduce la soluzione adottata dal codice di procedura penale, ad esempio, in materia di competenza (art. 4 c.p.p.), misure cautelari (art. 278 c.p.p.) ed arresto in flagranza (art. 379 c.p.p.) e si basa sul presupposto che le circostanze ad effetto speciale e quelle per le quali la legge stabilisce una pena di specie diversa da quella ordinaria del reato rivelano una particolare significatività e sono in qualche modo accostabili – nelle valutazioni del legislatore – a sottospecie di ipotesi autonome. Il comma 5 dell'articolo 131 bis, a sua volta, stabilisce che l’istituto può trovare applicazione anche quando la legge preveda la particolare tenuità del danno o del pericolo come circostanza attenuante. Non di rado, infatti, il legislatore ricollega alla modesta portata offensiva della condotta criminosa una semplice mitigazione del trattamento sanzionatorio: in taluni casi a costituire circostanza attenuante o elemento costitutivo di un’autonoma fattispecie attenuata è solo la particolare o speciale tenuità del danno o del pericolo ( v. artt. 62 n. 4 c.p., 2640 c.c., 219 comma 3 R.D. 267/1942), in altri casi è la particolare tenuità o lieve entità del fatto, risultante, alternativamente, dalle modalità della condotta o dalla particolare tenuità del danno o del pericolo (art. 311 c.p.), oppure dalle modalità della condotta, infine quando si tratta semplicemente di particolare tenuità del fatto ( v. artt. 323-bis c.p., 648 comma 2 c.p. e 171-ter comma 3 l. 22 aprile 1941, n. 633). Orbene: allo scopo di evitare che le suddette ipotesi, che contemplano la tenuità del fatto, siano considerate prevalenti in virtù di un supposto rapporto di specialità, il citato comma 5 chiarisce che quest’ultime hanno un carattere residuale, essendo destinate ad operare laddove l’art. 131-bis c.p. non possa trovare applicazione, come, ad esempio, nel caso in cui il fatto, pur tenue, non sia occasionale. Fascicolo n. 1/2016 www.ilforomalatestiano.it Pag. 5 di 10 I SINGOLI PARAMETRI DI RIFERIMENTO Una volta a c c e r t a t o che il reato rientra nei limiti edittali i quali astrattamente legittimano il ricorso alla causa di punibilità, segue la verifica dei diversi presupposti normativi che consentono di pervenire al giudizio di esclusione della punibilità. Gli "indici-criteri", secondo la nozione offerta dalla Relazione di accompagnamento, sono costituiti dalla "particolare tenuità dell'offesa" - ricavabile dalle "modalità della condotta" e dalla "esiguità del danno o del pericolo" derivato dal reato- e dalla "non abitualità del comportamento". Con riferimento al primo parametro , quanto all’“apprezzamento della "esiguità" - si richiama all’uopo la precondizione della non operatività dell’art. 49 c.p. - si osserva che il dato normativo è rimesso a l l a p r u d e n t e valutazione del giudice. Tale apprezzamento d e v e e s s e r e effettuato avendo riguardo a quanto indicato nell'articolo 133, comma 1, c.p. espressamente richiamato: di particolare rilievo il parametro della gravità del danno o del pericolo di cui al numero 2), gli altri parametri rilevando per la valutazione del concorrente presupposto delle "modalità della condotta". Pare utile sottolineare che il riferimento al danno non è necessariamente correlato ad un danno di tipo patrimoniale p a t i t o dalla persona offesa: invero, l'ambito di operatività dell'istituto si deve ritenere più ampio, potendosi applicare anche a d ipotesi in cui manchi in radice una persona offesa e comunque non si sia verificato un danno risarcibile ( v. artt. 116, 186 e 187 CdS, che si caratterizzano per l’assenza di una persona offesa e di un danno risarcibile). Il legislatore ha poi, tout court, ritenuto che 1'offesa non può, comunque, essere ritenuta di particolare tenuità quando l'autore abbia agito per motivi abietti e futili, o con crudeltà anche contro gli animali, od abbia adoperato sevizie ovvero profittato delle condizioni di minorata difesa della vittima, anche in riferimento all'età della stessa. Si deve ritenere che, al verificarsi di tali circostanze , debba essere esclusa l’operatività dell’istituto in esame anche laddove, in fatto, non vi sia stata una formale contestazione da parte del pubblico ministero delle relative circostanze aggravanti (v. art.61, nn. 1,4 e 5 c.p.). Inoltre, in ragione del carattere primario ed essenziale dei beni vita ed integrità psico-fisica della persona, è s t a t a esclusa 1' operatività della causa di non punibilità nelle ipotesi in cui l’evento lesivo sia costituito dalla Fascicolo n. 1/2016 www.ilforomalatestiano.it Pag. 6 di 10 morte o dalle lesioni gravissime in danno di una o più persone ( v. artt. 589, 590 e le ipotesi di analoghi eventi che derivino, quale conseguenza non voluta, dalla commissione di un delitto doloso, secondo quanto previsto dall’art.586 c.p.). Quanto alle modalità della condotta, il parametro valutativo s i i n d i v i d u a n e l l ’ a r t . 133 c.p. -come abbiamo vistoesplicitamente richiamato dall'articolo 131 bis , comma 1, c.p. : assumono quindi rilevanza la natura, la specie, i mezzi, l'oggetto, il tempo, il luogo e ogni altra modalità dell'azione. Viene anche in considerazione il grado della colpevolezza, ovverossia l'intensità del dolo o il grado della colpa. In tale versante, al fine di ancorare il giudizio a criteri strettamente connessi alla materialità del fatto, il legislatore ha inteso svincolare, per quanto possibile, il giudizio di irrilevanza da accertamenti di tipo psicologico-soggettivistico, sempre ardui e problematici, quanto più essendo destinati ad essere effettuati nelle fasi prodromiche del procedimento. Tuttavia, allo scopo di circoscrivere la discrezionalità del giudice, sono state introdotte precisazioni che rischiano di apparire superflue o, addirittura, paradossali, come spesso accade quando si legifera per presunzioni: sono state tipizzate, così, situazioni ostative prendendo a modello circostanze aggravanti comuni quali l’avere agito “con crudeltà, anche in danno di animali”, l’avere “adoperato sevizie”, l’avere “profittato delle condizioni di minorata difesa della vittima, anche in riferimento all’età della stessa”, mentre è consentito giudicare tenue il fatto commesso con abuso dei poteri inerenti ad una pubblica funzione. Il riferimento espresso al primo comma dell’art. 133 c.p. porta, poi, a concludere per l’irrilevanza, ai fini dell’applicabilità dell’istituto, della condotta contemporanea o susseguente al reato, con la conseguenza di dover escludere dal novero dei parametri di valutazione della “particolare tenuità” eventuali condotte riparatorie, restitutorie o risarcitorie. Il terzo parametro è l a "non abitualità" del comportamento incriminato: si definisce – sub comma 3 dell'articolo 131 bis c.p. - "abituale" il comportamento "nel caso in cui l'autore sia stato dichiarato delinquente abituale, professionale o per tendenza ovvero abbia commesso più reati della stessa indole, anche se ciascun fatto, isolatamente considerato, sia di particolare tenuità, nonché nel caso in cui si tratti di reati che abbiano ad oggetto condotte plurime, abituali e reiterate". In proposito, nessun dubbio interpretativo si pone in ordine all'apprezzamento dell'ipotesi Fascicolo n. 1/2016 www.ilforomalatestiano.it Pag. 7 di 10 ostativa rappresentata dalla intervenuta dichiarazione di delinquenza abituale, professionale o per tendenza, frutto di apposita dichiarazione giudiziale. L'inciso "commesso più reati della stessa indole” merita qualche approfondimento: la mancanza di un esplicito riferimento alla condizione di recidivo, induce del tutto fondatamente a concludere che la "recidiva", sebbene accertata e applicata giudizialmente - purché , pare evidente, non reiterata e specifica - non possa considerarsi di ostacolo a lla declaratoria di non punibilità. In tale direzione, peraltro, si muove la stessa Relazione di accompagnamento, laddove si afferma che la presenza di un "precedente giudiziario" non è di per sé ostativa al riconoscimento della particolare tenuità del fatto, in presenza ovviamente degli altri presupposti. E’ , invece, ostativa la situazione di colui il quale, pur non essendosi vista riconosciuta e applicata la recidiva reiterata e specifica, risulti avere commesso, con sentenza irrevocabile, "più reati della stessa indole" . In quest’ottica, del tutto coerente appare l'intervento di modifica sull'articolo 3, comma 1, d.P.R. 3 1 3 / 2 002 con l'inserimento, tra i provvedimenti d a iscrivere nel casellario giudiziale, anche di q u e l l i "che hanno dichiarato la non punibilità ai sensi dell'articolo 131 bis c .p . ”. Qualche ulteriore problema può nascere dall’interpretazione delle nozioni di condotta “reiterata” e “plurima”: tali potrebbero intendersi le condotte del medesimo tipo che l’agente reiteri più volte nel medesimo contesto spazio-temporale, non necessariamente riconducibili al paradigma della continuazione o da valutarsi unitariamente al fine della quantificazione della pena (a titolo esemplificativo si pensi alla condotta di chi, in unità di tempo e luogo, abbia proferito diverse espressioni di minaccia grave nei confronti della persona offesa). Quid juris nel caso di commissione di più condotte integranti una pluralità di reati della stessa indole che siano giudicati nell'ambito dello stesso procedimento? Appare conforme al sistema normativo escludere l’applicazione della causa di non punibilità, inducendo a tale conclusione il generico riferimento alla commissione di più reati della stessa indole, senza ulteriori specificazioni. Quanto alla punibilità dei "reati abituali", occorre distinguere tra reati "necessariamente abituali", che sono sulla base del dato testuale esclusi dall'ambito di applicabilità della causa di esclusione di punibilità (si pensi al reato di stalkin g previsto dall’a rt. 612 bis c.p.) ed i reati "eventualmente abituali", ossia Fascicolo n. 1/2016 www.ilforomalatestiano.it Pag. 8 di 10 quei reati che possono essere commessi anche con il compimento di un solo atto tipico della condotta incriminata, p e r i quali la causa di non punibilità deve ritenersi inapplicabile solo quando risultino commessi più atti tipici della condotta incriminata. In caso di concorso formale si ritiene applicabile l’istituto in esame, che si caratterizza per l’unicità della condotta incriminata. In ogni caso, l’applicazione dell’istituto è subordinato ad una valutazione "congiunta" di tutti i parametri di riferimento posti all'attenzione del giudice. BREVI CENNI SULLA PROCEDURA Alla declaratoria di non punibilità per la particolare tenuità del fatto può procedersi sia nel corso delle indagini preliminari, sia dopo l'esercizio dell'azione penale. Nel corso delle indagini il giudice per le indagini preliminari provvede con ordinanza o decreto di archiviazione, su richiesta del pubblico ministero; dopo l’esercizio dell’azione penale provvede il giudice del dibattimento con sentenza, prima del dibattimento nella ricorrenza dei presupposti di cui all’art.469 c.p.p. Nel caso di sentenza r e s a ex art. 469 c.p.p. il provvedimento è inappellabile; tuttavia può essere proposto ricorso per cassazione qualora si lamenti la carenza dei presupposti di legge, ovvero il mancato rispetto del contraddittorio. La persona offesa, invece, può dolersi solo di non essere stata ritualmente citata, così da consentirgli di comparire; si evidenzia che non è stato previsto l’avviso che contenga l'intenzione del giudicante di definire il procedimento in sede predibattimentale ex articolo 469 c.p.p. Quanto alla sentenza emessa in esito allo svolgimento del processo, sono esperibili gli strumenti ordinari di impugnazione. Con riferimento agli effetti della decisione che applica la causa di non punibilità, s i s e g n a l a i l d isposto dell’articolo 651 bis c.p.p. , il quale stabilisce che l’efficacia della sentenza di proscioglimento per particolare tenuità del fatto nel giudizio civile o amministrativo di danno è limitata alla sentenza resa in esito al dibattimento - non, quindi, a quella resa ex art.469 c.p.p.- ovvero in esito al giudizio abbreviato, salvo, in quest'ultima ipotesi, che vi si opponga la parte civile, la quale non abbia accettato il rito. L’equiparazione muove da una premessa corretta: il proscioglimento per tenuità potrà essere pronunciato in giudizio solo quando l’unica alternativa plausibile sarebbe la condanna, essendo già stato accertato che il fatto sussiste, che l’imputato lo ha Fascicolo n. 1/2016 www.ilforomalatestiano.it Pag. 9 di 10 commesso, che il fatto costituisce reato, che il fatto è previsto dalla legge come reato, che non sussistono altre cause di non punibilità dell’imputato e che quest’ultimo è imputabile; in altre parole , nella fattispecie esaminata, si discute di una condotta riconducibile ad una precisa fattispecie criminosa, perfetta in tutti i suoi elementi costitutivi , quindi punibile, con un imputato che ha avuto possibilità di esercitare le proprie prerogative in chiave difensiva. Analoga efficacia non p o t r à avere, di conseguenza, il provvedimento di archiviazione che applichi la causa di non punibilità. A sua volta, il giudice civile sarà obbligato alla decisione di ritenere il fatto di particolare tenuità nei seguenti termini : appare conforme a giustizia ritenere che, sia con riferimento al danneggiato dal reato che sia rimasto estraneo al processo penale, ma abbia esercitato l’azione risarcitoria in sede civile, sia nei confronti del danneggiato che si sia costituito parte civile nel processo penale o abbia esercitato l’azione risarcitoria dopo la pronuncia della sentenza penale di primo grado, riconoscere un’efficacia al giudicato penale contrasterebbe con la logica sottostante l’art. 24 comma 2 Cost. Di talché, di sostiene che il giudice civile sia obbligato soltanto a considerare il fatto sussistente, di natura illecito e commesso dall’imputato, il vincolo della decisione non estendendosi, invece, agli elementi costitutivi della tenuità, sì che il danneggiato, costituitosi parte civile, possa esercitare l’azione risarcitoria in sede civile al fine di ottenere un ristoro economico che, tuttavia, trattandosi di fatti tenui, del tutto verosimilmente sarà anch’esso di minima entità. De jure condendo, in un’ottica deflattiva, si potrebbe ipotizzare la facoltà del danneggiato di trasferire l’azione in sede civile dopo la sentenza di proscioglimento per tenuità, aggiornando l’elenco delle «eccezioni previste dalla legge” di cui all’art. 75 comma 3 c.p.p. Da ultimo, qualche importante modifica è intervenuta pure in tema di casellario giudiziale: in particolare si evidenzia che la decisione con la quale si sia applicata la causa di non punibilità, anche in sede di archiviazione, deve essere iscritta nel casellario giudiziale, assumendo indiscutibile rilievo ai fini dell'apprezzamento del presupposto dell’abitualità del comportamento, così escludendosi di poter di nuovo accedere n e l f u t u r o alla procedura in parola. LA DISCIPLINA TRANSITORIA In mancanza di una disciplina transitoria, deve farsi applicazione dei principi generali in tema di successione delle norme nel tempo (art. 2 comma 4 c.p.). Fascicolo n. 1/2016 www.ilforomalatestiano.it Pag. 10 di 10 Si ritiene, in conformità a l l e più recenti pronunce della CEDU, della Corte costituzionale( 2) e della Corte di cassazione che, mentre il princi pio di irretroatti v ità d ella n orma pen a le s favo revo le costi tui s ce un va l ore assolut o, qu ello de1la retroattiv ità della lex mitior è s uscettibile di limitazioni sul p i ano costitu z i o n ale, ove sorrette da giu stificaz i oni og g etti v a m e nte rag i o n e v oli e, in partico l ar e, d alla neces sita di pr e s erv are int e r e s s i, ad e sso contr apposti, di an a logo riliev o. In questo filone giurisprudenziale si inserisce la sentenza n.15449/2015(3) ,secondo la quale l’esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto ha natura sostanziale ed è applicabile ai procedimenti in corso alla data di entrata in vigore del D.Lgs. 16 marzo 2015, n. 28, ivi compresi quelli pendenti in sede di legittimità, nei quali la S.C. può rilevare di ufficio ex art. 609, comma secondo, c.p.p. la sussistenza delle condizioni di applicabilità del predetto istituto, fondandosi su quanto emerge dalle risultanze processuali e dalla motivazione della decisione impugnata. La S.C., in caso di valutazione positiva deve, quindi, annullare la sentenza con rinvio al giudice di merito. 2 C. cost., 22 luglio 2011, n. 236, Giur. cost. 2011, 4, 3021. 3 Cass., sez. III, 8 aprile 2015,

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TRIBUNALE DI RIMINI - UFFICIO DEI G.U.P., 1 OTTOBRE 2014 N. 513 La reazione a fronte di un’azione lesiva già del tutto esaurita, l’uso di un mezzo ben sostituibile con altri disponibili e ugualmente adeguati ad apprestare una asserita necessità di difesa e certamente meno lesivi per la vittima, dimostrano univocamente l’inesistenza di una situazione di legittima difesa La legittima difesa putativa postula i medesimi presupposti di quella reale, atteso che l’erronea supposizione dell’agente circa la situazione di pericolo deve essere fondata su un fatto accertato che abbia in sè l’idoneità a far sorgere tale supposizione: in mancanza di dati concreti, l’esimente putativa non può ricondursi ad un criterio meramente soggettivo identificato dal solo ipotetico timore o dal solo, personalissimo, stato d’animo dell’agente. Il tratto di discrimine tra delitto doloso e delitto preterintenzionale, non riguarda tanto l’elemento oggettivo, ma il coefficiente psicologico, che deve tradursi in una volontà e previsione di un evento meno grave di quello verificatosi in concreto, prescindendo completamente dal grado di prevedibilità dell’evento più grave: in particolare, il tratto peculiare del delitto di cui all’art. 584 c.p. risiede nel fatto che l’elemento psicologico consiste nell’avere voluto l’evento minore (percosse o lesioni) e non anche l’evento più grave (morte) che, pur non essendo voluto, rappresenta il risultato dello sviluppo causale insito nell’azione lesiva dell’altrui incolumità personale, conformemente all’espressa definizione contenuta nel comma 1 dell’art. 43 c.p. secondo cui il delitto è preterintenzionale, o oltre la intenzione, quando dall’azione od omissione deriva un evento dannoso o pericoloso più grave di quello voluto dall’agente. La struttura dell’omicidio preterintenzionale è connotata da una condotta dolosa, avente ad oggetto il compimento di atti diretti a percuotere o a ferire, e da un evento più grave non voluto (ossia la morte del soggetto passivo), legato eziologicamente, in progressione causale, all’azione lesiva dell’incolumità personale, mentre GIURISPRUDENZA Fascicolo n. 1/2016 www.ilforomalatestiano.it Pag. 2 di 32 nell’omicidio volontario la volontà dell’agente è costituita dall’animus necandi, ossia dal dolo intenzionale, nelle gradazioni del dolo diretto o eventuale, il cui accertamento è rimesso alla valutazione rigorosa di elementi oggettivi, desunti dalle concrete modalità della condotta: il tipo e la micidialità dell’arma, la reiterazione e la direzione dei colpi, la distanza tra aggressore e vittima, la parte vitale del corpo presa di mira e quella concretamente attinta. La volontaria assunzione della custodia di stupefacente altrui, con la piena consapevolezza della sua destinazione alla ulteriore cessione a terzi, integra la condotta di partecipazione concorsuale alla fattispecie criminosa dell’art. 73 DPR 309/90, dovendosi escludere una mera connivenza non punibile. (mass. redaz.) TRIBUNALE ORDINARIO DI RIMINI UFFICIO DEI GIUDICI PER L’UDIENZA PRELIMINARE Il Giudice Dott.ssa Fiorella Casadei Ha pronunciato e pubblicato mediante lettura del dispositivo la seguente S E N T E N Z A Nel processo penale CONTRO ME. Cl. nata a Bu., Va. (Co.), il 12.09.1976 Agli arresti domiciliari PQC – PRESENTE difesa di fiducia dall’avv.to Gu. CA. del foro di Rimini I M P U T A T A A) delitto di cui all’art. 575 c.p. perché - mediante un coltello da punta e taglio della lunghezza complessiva di cm. 35 - sferrava tre fendenti che attingevano HE. An. al collo (con ferita penetrante nel mediastino con sezione completa dell’arteria anonima e parziale della vena anonima), in regione lombare destra ed all’arto superiore sinistro cagionandone la morte. In Mi. (RN) il 19 agosto 2013. B) delitto p. e p. dall’art. 73 d.p.r. 309/90 per aver detenuto a fine di spaccio complessivamente gr. 5,50 di cocaina, suddivisi in nr.6 involucri di cellophane, di cui uno di gr. 0,50 e nr. 5 di gr. 1,00. In Fa. (PU) il 19 agosto 2013 *** Con l’intervento del Pubblico Ministero Dott. Ma. Ce.i, dell’Avv. Pa. Ri. per le parti civili costituite e dell’ avv.to Gu. CA. del foro di Rimini, difensore di fiducia dell’imputata Le parti hanno così concluso: Il Pubblico Ministero chiede la condanna dell’imputata alla pena di anni 11 mesi 4 di reclusione e pene accessorie come previste dalla legge, ritenuto più grave il reato di cui al capo a), concessa l’attenuante di cui all’art. 62 n. 2 c.p., la continuazione e la diminuzione per il rito prescelto. Il difensore delle parti civili Avv. Pa. Ri. chiede affermarsi la penale responsabilità dell’imputata, senza la concessione dell’attenuante della provocazione ma semmai con l’aggravante di cui all’art. 93 c.p.; deposita conclusioni scritte a cui si riporta, chiedendo la condanna dell’imputata al risarcimento del danno Fascicolo n. 1/2016 www.ilforomalatestiano.it Pag. 3 di 32 derivato dal reato, e, in caso di condanna generica, con la condanna ad una provvisionale a favore di ciascuna parte civile costituita. Chiede altresì la condanna dell’imputata alla rifusione delle spese di costituzione e patrocinio. Il difensore dell’imputata chiede quanto al capo A): - in via principale, sia pronunciata sentenza di assoluzione perché il fatto non costituisce reato in quanto scriminato dall’esimente della legittima difesa prevista dall’art. 52 c.p.; - in subordine la riqualificazione del fatto come omicidio colposo per il riconoscimento dell’eccesso colposo dell’esimente della legittima difesa ovvero per la sussistenza di esimente putativa della legittima difesa; in estremo subordine chiede la riqualificazione del delitto di omicidio volontario in omicidio preterintenzionale con condanna ad una pena minima previo riconoscimento dell’attenuante dell’art. 62 n. 2 c.p. In ordine al capo B) chiede che sia riconosciuta dell’ipotesi di cui al co. 5 dell’art. 73 DPR 309/90 e, qualora sia dichiarata la responsabilità dell’imputata per entrambi i reati ascritti, sia riconosciuta la continuazione fra gli stessi. ***** MOTIVI DI FATTO E DI DIRITTO 1. - Con decreto di giudizio immediato emesso in data 24 gennaio 2014, ME. Cl., sottoposta a misura custodiale per tale causa, era chiamata a rispondere del delitto di omicidio volontario commesso ai danni di HE. An. e di detenzione a fini di spaccio di grammi 5,5 di cocaina. Entro il termine di cui all’art. 458 c.p.p. l’imputata, mediante il difensore munito di procura speciale, formulava istanza di definizione del procedimento con il rito abbreviato, subordinato ad integrazione probatoria rappresentata dall’assunzione del teste OR. Ga. Fissata udienza per la valutazione di ammissibilità al 17 giugno 2014, in limine si procedeva ad ammettere la costituzione delle parti civili HE. Da., HE. Yu. e HE. Je., figli del de cuis HE. An. All’esito del contraddittorio delle parti, l’imputata ME. Ca., presente in vinculis e assistita da interprete in lingua spagnola, era ammessa al rito abbreviato con le condizioni apposte, come da ordinanza inserita a verbale di udienza. Nella stessa udienza camerale si procedeva ad assumere il testimone OR. e all’esame dell’imputata, espressamente richiesto dal suo difensore. In successiva udienza del 26 settembre 2014, esaurita la discussione, le parti precisavano le rispettive conclusioni come riportate a verbale di udienza e, il giudice, all’esito della camera di consiglio, pronunciava sentenza mediante lettura del dispositivo tradotto in simultanea all’imputata dall’interprete presente, riservando il termine di giorni novanta per il deposito della motivazione, stante la complessità delle questioni di diritto prospettate. Era infine dichiarata la contestuale sospensione dei termini di fase della misura in corso di esecuzione, per identico periodo di Fascicolo n. 1/2016 www.ilforomalatestiano.it Pag. 4 di 32 giorni novanta ai sensi dell’art. 304 comma 1 lett. C) c.p.p. (OMISSIS) 3. - Così riassunte nelle linee essenziali le fasi salienti della vicenda in esame ed il quadro probatorio delineatosi all’esito delle indagini preliminari, ai fini della valutazione della responsabilità dell’imputata per il delitto di omicidio di HE. An. è necessario esaminare le due questioni centrali del processo che riguardano da un lato, l’esimente della legittima difesa, anche nella forma putativa e dall’altro, l’animus necandi, sulle cui complesse tematiche si sono incentrate le diffuse e approfondite argomentazioni svolte dalla difesa dell’imputata. 3.1. Ha addotto il difensore, muovendo dalla ripetuta affermazione dell’imputata di essersi inconsciamente armata per difendersi da una nuova e temuta aggressione da parte di HE., come ME. avesse utilizzato il coltello unicamente per allontanare da sé l’uomo che già prima l’aveva picchiata e ora muoveva verso di lei per impedirle di recuperare il proprio cellulare, creando così l’inevitabile necessità per costei di difendersi con il primo oggetto che aveva trovato in quell’ambiente ristretto e caotico. Del resto i ripetuti tentativi di richiesta di aiuto ai presenti erano caduti nel nulla e ME. non aveva trovato così alternativa per tutelare la propria incolumità. Orbene, muovendo dalla natura stessa dell’esimente invocata, occorre valutare se, al momento in cui ME. ebbe a colpire la vittima, ripetutamente, con il coltello, sussistesse la necessità di rimuovere il pericolo di un'aggressione mediante una reazione proporzionata e adeguata, e per fare ciò ci si sia avvalsi di mezzi adeguati1 . Si evidenzia innanzitutto, alla luce della ricostruzione derivante dall’esame incrociato delle dichiarazioni dei testi CA. e OR. e dai dati estrapolati dai tabulati telefonici, come la condotta di accoltellamento non sia il segmento di un’unica sequenza cronologica con l’originaria colluttazione tra aggressore e vittima, avvenuta a parti inverse. Se dunque l’iniziale litigio, con reciproche offese da parte di HE. e ME. era approdato ad un “ceffone al volto” della donna, in una costante posizione remissiva, la sua attualità era tuttavia venuta a scemare per le sopravvenute condizioni evolutesi tutte ad esclusivo favore della “vittima” ME. Non solo costei era infatti uscita liberamente dall’abitazione, aveva chiamato i propri amici OR. e RA - , che coerentemente con la situazione descritta le avevano dato indicazioni di chiamare subito “i carabinieri o la polizia” ma, ormai fuori dal contesto violento, era in condizioni di reperire in zona plurimi aiuti, essendo in un contesto residenziale con più appartamenti tutti abitati e conoscendo, fra l’altro, gli occupanti del civico 6 1 Cfr. in tal senso, Cass. Sez. I, 25/10/2005 n.45425 ove si legge: “I presupposti essenziali della legittima difesa sono costituiti da un'aggressione ingiusta e da una reazione legittima: mentre la prima deve concretarsi nel pericolo attuale di un'offesa che, se non neutralizzata tempestivamente, sfocia nella lesione di un diritto (personale o patrimoniale) tutelato dalla legge, la seconda deve inerire alla necessità di difendersi, alla inevitabilità del pericolo e alla proporzione tra difesa e offesa”. Fascicolo n. 1/2016 www.ilforomalatestiano.it Pag. 5 di 32 con i quali aveva festeggiato per tutto il pomeriggio, avendo altresì a disposizione ben due utenze con le quali effettuare chiamata al taxi per allontanarsi definitivamente dalla zona. Eppure la stessa, già in una condizione di sicurezza e fuori da ogni contesto di pericolo, decideva di fare rientro proprio in quella casa ove era stata schiaffeggiata e dove non si sentiva sicura. La libera scelta di porsi nuovamente in situazione di già sperimentato pericolo, avendo ottenuto una concreta alternativa di difesa non solo conseguita. ma divenuta stabile per mancanza di inseguimento da parte del suo aggressore, rimasto dentro alla casa senza manifestare ulteriori intenti aggressivi, elimina ogni attuale e perdurante situazione di pericolo. Il libero affronto, così posto in atto da ME., dava origine, per sua esclusiva volontà, ad una nuova discussione con HE. - la cui aggressività aveva già saggiato per la veemenza verbale rivolta anche a terza persona, quale MA. El., intervenuta a difesa della ragazza - degenerata nel pugno alla bocca, con l’ampia ferita al labbro inferiore. La seconda e nuova offesa - non solo troncata con l’uscita di HE. dall’appartamento, con il soccorso di ME. da parte dei presenti, i quali cercavano di farla calmare e, aderendo alle sue richieste, le fornivano un numero d’emergenza a cui la stessa poteva subito chiedere aiuto, aveva una risolutiva conclusione con l’esplicito atteggiamento di scuse e di riappacificazione che HE. tentava verso ME., rientrando nell’appartamento. L’insorgenza e la successiva evoluzione infausta avveniva poi, secondo il coerente sviluppo narrativo dei testi, ad opera esclusiva di ME., la quale decidendo di rifiutare la proposta di riappacificazione, pur tuttavia sceglieva di rimanere nell’appartamento, nonostante avesse tutto il tempo e la libertà di movimento per allontanarsi, e, una volta rimasta, si armava di un coltello delle cui elevate potenzialità offensive ne aveva immediata e diretta percezione alla sola vista delle dimensioni e della lunghezza della lama, colpiva alle spalle HE. con un duplice colpo, uno alla regione lombare e uno alla spalla, per poi attingerlo, nell’azione di difesa che costui, girandosi frontalmente verso l’aggressore cercava di opporre, al braccio e infine, con colpo mortale assestato, con buona mira e insolita violenza, al collo, recidendone i vasi sanguigni. La posizione iniziale di aggressione della vittima, colpita di spalle e solo a seguire sulla spalla e sul braccio proteso a difesa del capo - così documentando la progressiva roteazione della vittima verso la fonte da cui proveniva l’aggressione - ne registra una situazione di mera difesa, realizzata in una situazione di evidente sproporzione, in quanto HE., posto di spalle, del tutto disarmato, era colto di sorpresa. L’inesistenza di una situazione di pericolo attuale e non altrimenti evitabile - non essendo in atto alcun cenno di aggressione all’integrità di ME. e sussistendo viceversa, per la stessa, la concreta alternativa di poter nuovamente abbandonare Fascicolo n. 1/2016 www.ilforomalatestiano.it Pag. 6 di 32 l’appartamento senza conseguenze negative per sé - era resa ancora più palese dall’inadeguatezza dello strumento scelto dall’imputata la quale (pur anche soggettivamente prospettandosi una nuova aggressione che peraltro obiettivamente appariva remota a fronte di quel contesto di riappacificazione) ben poteva optare per altro strumento ugualmente adeguato, avendo in quell’ambiente una tale e tanta molteplicità di scelte alternative - quali sedie, tegami, coperchi, altri utensili di cucina, e finanche un televisore ad “altezza uomo” - tutti “a portata di mano”, tutti prontamente afferrabili per le ridotte dimensioni della sala, gran parte dei quali già ritenuti ampiamente adeguati all’offesa/difesa reciproche nel litigio verbale e fisico che si era poco prima verificato e che si era poi spento (così come ha ricordato la teste CA. in merito al “rumore di mobili e sedie spostate” durante il primo litigio). La opzione per un coltello, la cui lama con punta e taglio assai affilato, mostravano, all’evidenza, la loro maggiore potenzialità offensiva, colorano viceversa in modo più evidente la intenzionalità aggressiva sottesa all’agire dell’autrice, la quale pur consapevole della carenza di una perdurante situazione di pericolo, decideva di armarsi e aggredire l’uomo. Se poi si considera il movente dell’aggressione - determinato dall’insorgenza di un sentimento di stizza per la pregressa condotta aggressiva e maleducata di HE., certamente censurabile e deprecabile - risulta inconsistente la tesi della legittima difesa, trovando l’agire di ME. come sua unica causale, la consapevole volontà di aggredire l’altrui bene - vita, avulso da una relazione di inevitabile necessità di difesa di un proprio diritto dal pericolo attuale di una ingiusta offesa. Né può valere a sostegno dell’esimente la allegata esigenza, opposta da ME., di rientrare in possesso del suo cellulare, prepotentemente strappatogli da HE., non solo per la contemporanea disponibilità che la stessa aveva di una seconda utenza ugualmente attiva (tanto che riceveva pressoché in concomitanza con i fatti, alcune telefonate) ma per la evidente sproporzione, nel conflitto fra i beni eterogenei venuti a confliggere fra loro, essendo pacifico che la consistenza dell’interesse leso - ossia la vita di HE. - sia di gran lunga più rilevante, nella gerarchia dei valori costituzionalmente e penalmente rilevanti, di quella dell’interesse difeso - ossia la proprietà di un telefono cellulare - . Ebbene, la reazione di ME. a fronte di un’azione lesiva già del tutto esaurita, l’uso di un mezzo ben sostituibile con altri disponibili e ugualmente adeguati ad apprestare una asserita necessità di difesa e certamente meno lesivi per la vittima, dimostrano univocamente l’inesistenza di una situazione di legittima difesa, sostenuta in un’unica funzione difensiva finalizzata a conseguire l’impunità ovvero la riqualificazione del fatto come colposo con prospettazione di un eccesso colposo nella causa di giustificazione2 2 Cfr. Cass. Sez. V, 11/05/2010 n.26172. In modo assai chiaro la Suprema Corte ribadisce come l’eccesso colposo richieda necessariamente l’esistenza dei presupposti dell’esimente cui si fa riferimento, e di cui se ne superano, colposamente, i limiti obiettivi di Fascicolo n. 1/2016 www.ilforomalatestiano.it Pag. 7 di 32 applicabilità: “L'assenza dei presupposti della scriminante della legittima difesa, in specie del bisogno di rimuovere il pericolo di un'aggressione mediante una reazione proporzionata e adeguata, impedisce di ravvisare l'eccesso colposo, che si caratterizza per l'erronea valutazione di detto pericolo e della adeguatezza dei mezzi usati. (Nella specie si è escluso che la scriminante di cui all'art. 52 cod. pen., nei confronti dell'imputata, in ordine al delitto di cui all'art. 575 cod. pen. - la quale, aggredita dal marito, lo aveva colpito con un coltello della lunghezza non inferiore a 10 cm - ritenendo che l'utilizzo del coltello non poteva configurarsi quale eccesso colposo di legittima difesa, posto che la vittima non aveva usato arma alcuna e non aveva inferto lesioni all'imputata, che costei aveva forza fisica sufficiente per sottrarsi alle percosse, che in casa vi erano altri soggetti cui chiedere aiuto e che, pertanto, doveva ritenersi che l'imputata fosse consapevole di non essere in pericolo grave per la propria incolumità). Tale orientamento registra, del resto, uniformità con precedenti pronunce fra cui si citano: Cass. Sez. I, 25/10/2005 n. 45425 già sopra citata: “I presupposti essenziali della legittima difesa sono costituiti da un'aggressione ingiusta e da una reazione legittima: mentre la prima deve concretarsi nel pericolo attuale di un'offesa che, se non neutralizzata tempestivamente, sfocia nella lesione di un diritto (personale o patrimoniale) tutelato dalla legge, la seconda deve inerire alla necessità di difendersi, alla inevitabilità del pericolo e alla proporzione tra difesa e offesa. L'eccesso colposo sottintende i presupposti della scriminante con il superamento dei limiti a quest'ultima collegati, sicché, per stabilire se nel fatto si siano ecceduti colposamente i limiti della difesa legittima, bisogna prima accertare la inadeguatezza della reazione difensiva, per l'eccesso nell'uso dei mezzi a disposizione dell'aggredito in un preciso contesto spazio temporale e con valutazione ex ante, e occorre poi procedere ad un'ulteriore differenziazione tra eccesso dovuto ad errore di valutazione ed eccesso consapevole e volontario, dato che solo il primo rientra nello schema dell'eccesso colposo delineato dall'art. 55 cod. pen., mentre il secondo consiste in una scelta volontaria, la quale comporta il superamento doloso degli schemi della scriminante”. Ancora in tal senso anche Cass. Sez. I, 04/12/1997 n.740 : “Il presupposto su cui si fondano sia l'esimente della legittima difesa che l'eccesso colposo è costituito dall'esigenza di rimuovere il pericolo di un'aggressione mediante una reazione proporzionata e adeguata, cosicché l'eccesso colposo si distingue per un'erronea valutazione del pericolo e dell'adeguatezza dei mezzi usati: ne deriva che, una volta esclusi gli elementi costitutivi della scriminante - per l'inesistenza di una offesa dalla quale difendersi - non vi è alcun obbligo per il giudice di una specifica motivazione in ordine ad un eccesso colposo in tale scriminante, pur se espressamente prospettato dalla parte interessata”. ovvero dell’esistenza di legittima difesa putativa3 . Ma né l’una né l’altra ipotesi sono praticabili: da un lato infatti, non può certo ritenersi che l’uso del coltello possa configurarsi, nel caso concreto, quale eccesso colposo di legittima difesa, posto che la vittima HE. era disarmato e addirittura, dopo essersi allontanato dal luogo della discussione e dell’aggressione cui aveva dato corso, era rientrato con esplicito intento di pacificazione, esprimendo pentimento e porgendo delle scuse, così che neppure in astratto sussisteva per l’autrice un contesto di pericolo grave per la propria incolumità4 . La consapevole e voluta scelta di quella precisa arma così offensiva, il suo utilizzo in modo assai esperto, tanto da infliggere un colpo profondo e netto al collo, escludono qualunque profilo di errore nella scelta ovvero nell’uso dei 3 Cfr. Cass. Sez. I, 17/02/2000 n. 4456 : “L'accertamento relativo alla scriminante della legittima difesa reale o putativa e dell'eccesso colposo deve essere effettuato con un giudizio "ex ante" calato all'interno delle specifiche e peculiari circostanze concrete che connotano la fattispecie sottoposta all'esame del giudice: si tratta di una valutazione di carattere relativo, e non assoluto e astratto, rimessa al prudente apprezzamento del giudice di merito, dovendo egli esaminare, di volta in volta, e in concreto, se la particolare situazione sia obiettivamente tale da far sorgere nel soggetto l'erroneo convincimento di trovarsi nelle condizioni di fatto che, se fossero realmente esistenti, escluderebbero l'antigiuridicità della condotta prevista dalla legge come reato. In tale prospettiva, la valutazione deve essere necessariamente estesa a tutte le circostanze che possano avere avuto effettiva influenza sull'erronea supposizione, dovendo tenersi conto, oltre che delle modalità del singolo episodio in sè considerato, anche di tutti gli elementi fattuali che - pur essendo antecedenti all'azione - possano spiegare la condotta tenuta dai protagonisti della vicenda e avere avuto concreta incidenza sull'insorgenza dell'erroneo convincimento di dover difendere sè o altri da un'ingiusta aggressione”. 4 In tal senso anche, Cass. Sez. V, 11/05/2010, n.26172 Fascicolo n. 1/2016 www.ilforomalatestiano.it Pag. 8 di 32 mezzi, non potendo, di conseguenza ritenersi che l’evento nefasto causato da quell’azione sia derivato per un’imperita scelta dell’arma ovvero da una inesperienza e inabilità nell’uso, rilevanti ai sensi dell’art. 55 c.p. Né la descritta situazione è sussumibile nella diversa figura normativa della legittima difesa putativa per la quale sono richiesti i medesimi presupposti di quella reale, atteso che l’erronea supposizione dell’agente circa la situazione di pericolo deve essere fondata su un fatto accertato che abbia in sè l’idoneità a far sorgere tale supposizione: in mancanza di dati concreti, come nel caso in esame, l’esimente putativa non può ricondursi ad un criterio meramente soggettivo identificato dal solo ipotetico timore o dal solo, personalissimo, stato d’animo dell’agente. La condotta tenuta da ME., avulsa da ogni ambito scriminante, anche solo putativo, è dunque riconducibile alla fattispecie di omicidio volontario di cui all’art. 575 c.p. 3.2. - Se, come già sopra illustrato, sotto l’aspetto materiale non è in discussione la ricostruzione dei fatti, non essendo sostenibile una possibile e diversa ipotesi logica in termini di equivalenza o di alternatività5 , tema 5 E’ infatti nel procedimento indiziario che la Suprema Corte richiede, ai fini di un giudizio di responsabilità, una valutazione rigorosa degli elementi indiziari qualificati da precisione, univocità e concordanza e con verifica dell’assoluta incongruenza logica di ogni possibile ipotesi alternativa; in tal senso ex plurimis: Cass., sez. II, 8 febbraio 1991, Ventura, in Cass. pen. 1992, 2160: "Nel procedimento indiziario l'indizio singolo dev'essere sempre reale, certo e univoco per assurgere al rango di elemento probatorio; inoltre, ai fini della prova, occorrono più indizi gravi, univoci e concordanti, valutati nel loro insieme unitario, ai sensi e per gli effetti di cui all'art. 192 del nuovo codice di centrale e decisivo della vicenda diviene allora la ricostruzione dell’elemento soggettivo, che dovrà essere desunto attraverso una lettura complessiva ed unitaria di tutti i dati comportamentali tenuti dall’imputata prima e dopo aver inferto il colpo mortale ad HE. E’ pacifico infatti che la valutazione dell’elemento soggettivo deve fondare su un giudizio ex ante circa l’attitudine causale a conseguire il risultato stabilito, desumibile dalle circostanze di fatto esistenti e note all’agente nel momento in cui pone in essere la condotta.6 In altri termini è dunque da valutare se nel caso concreto, l’imputata attingendo HE. con più colpi inferti con il coltello, e sferrando l’ultimo colpo al rito, sicché il rigoroso e obiettivo accertamento del dato ignoto deve essere lo sbocco necessitato e strettamente conseguenziario, sul piano logicogiuridico, per dare certezza alla attribuibilità del fatto illecito a un comportamento concludente dell'imputato; con esclusione di ogni altra soluzione logica, in termini di equivalenza e di alternatività, sulla base degli elementi indiziari compiutamente esaminati, e con l'indicazione dei criteri, esenti da vizi, di valutazione della prova." E più di recente: Cass. Pen. 20/01- 20/05/04 n.23566 ric. Bruzzese- “L’indizio è un fatto certo dal quale, per inferenza logica basata su regole di esperienza consolidate e affidabili, si perviene alla dimostrazione del fatto incerto da provare, secondo lo schema del cosiddetto sillogismo giudiziario. Al riguardo, è possibile che da un fatto accertato sia logicamente desumibile una sola conseguenza, ma, di norma, il fatto indiziante è significativo di una pluralità di fatti non noti e, in tal caso, può pervenirsi al superamento della relativa ambiguità indicativa dei singoli indizi applicando la regola metodologica fissata nell’art. 192 co.2 c.p.p.” 6 Si condivide sul punto, consolidato orientamento della giurisprudenza, secondo cui la sussistenza dell’elemento soggettivo del reato va necessariamente desunta da una serie di elementi di fatto concretamente apprezzati nel caso specifico e con valutazione ex ante. In tal senso ex plurimis: Cass. Sez. V, 18/03/86, ric. Quatela e in senso conforme, di recente, Cass. Pen. Sez. I, 10/02/00 n.3185. Fascicolo n. 1/2016 www.ilforomalatestiano.it Pag. 9 di 32 collo, si sia rappresentata la probabilità che si verificasse l’evento mortale e lo abbia voluto secondo uno dei diversi livelli decrescenti di dolo, da apprezzarsi attraverso le regole di comune esperienza e le circostanze attraverso cui l’elemento soggettivo si è esteriorizzato, ovvero, pur prevedendolo, non abbia però voluto in alcun modo cagionare l’evento permanendo in un profilo di colpa.7 7 I principi sopra sinteticamente riferiti e che questo giudice ritiene di condividere pienamente, sono ribaditi fra l’altro, ex plurimis, in: Cass. Sez. I, 26/02/98 n.5969 ric. Held, e più di recente, in conformità: Cass. Sez. I, 10 febbraio 2000 n.3185 ove si afferma: “ciò che ha valore determinante per l’accertamento della sussistenza dell’animus necandi è l’idoneità dell’azione la quale va apprezzata in concreto…” e ancora, nella stessa pronuncia, più diffusamente si afferma: “ il giudizio sull’idoneità degli atti deve essere effettuato ex ante e deve stabilire se gli atti siano adeguati in concreto al raggiungimento dello scopo, tenendo conto dell’insieme delle circostanze di tempo e di luogo dell’azione e delle modalità, con cui l’agente ha operato”. Quanto all’elemento soggettivo il Supremo Collegio a Sezioni Unite, muovendo dall’assunto secondo cui il dolo indiretto e il dolo alternativo rappresentano due forme distinte di dolo, ha poi precisato come l’elemento differenziale attenga essenzialmente alla volizione indiretta dell’evento, nel senso che, nel dolo eventuale “ chi agisce non ha il proposito di cagionare l’evento delittuoso, ma si rappresenta la probabilità, od anche la semplice possibilità, che esso si verifichi e ne accetta il rischio“ mentre nel dolo alternativo “il soggetto attivo prevede e vuole alternativamente, con scelta sostanzialmente equipollente, l’uno o l’altro evento e risponde per quello effettivamente realizzato.”(Cass. S.U. 25/03/92 n.3428, ric. Casu e altri). In altra pronuncia meno recente tale principio era stato anticipato nel senso che la Corte già aveva sottolineato l’elemento di distinzione fra le due forme precisando che: “il dolo alternativo, che costituisce –al pari di quello eventuale- una forma di dolo indiretto, è configurabile non quando vi sia indifferenza del soggetto agente di fronte al possibile verificarsi di due o più eventi, ma quando quelli alternativamente previsti siano, sia pure alternativamente, entrambi voluti e la indifferenza riguardi solo la verificazione di uno di essi. Il dolo eventuale, invece, è ravvisabile quando l’agente vuole un determinato evento ma ne prevede, come possibile, pure un altro, comportandosi E’ pacifico che la sussistenza di un effettivo e reale animus necandi, debba essere indirettamente desunta, in assenza di esplicite ammissioni da parte dell’autore del fatto, da elementi esterni, e in particolare da quei dati della condotta quali la tipologia, la sede e la pluralità di lesioni - che per la loro non equivoca potenzialità offensiva sono i più idonei ad esprimere il fine perseguito dall’autore del reato.8 In particolare poi in ambito di delitti omicidiari è imprescindibile, per l’accertamento dell’intensità della volontà dolosa, verificare se l’azione sia stata posta in essere con accettazione del rischio dell’evento, ovvero se l’evento si sia presentato come altamente probabile o certo9 - potendo in tali casi assurgere il dolo diretto alla forma più intensa del dolo intenzionale laddove l’evento sia perseguito come scopo finale - .10 a costo di determinarlo “ (Cass. Sez.I, 21/11/90 n.15267 ric. Pisano). 8 Cfr. Cass.Sez. I, 10 febbraio 2000 n.3185 ove si puntualizza che: “ .. la prova del dolo ha natura essenzialmente indiretta, dovendo essere desunta da elementi esterni e, in particolare da quei dati della condotta che per la loro non equivoca potenzialità semantica sono i più idonei ad esprimere il fine perseguito dall’agente.…”. 9 In tal senso Cass. Sez. I, 5/11/97 n.9949 ric. Trovato, ove la Corte, affermando la sussistenza della volontà omicida, ha riqualificato il fatto come tentato omicidio e non lesioni personali volontarie in considerazione di diversi elementi indizianti di carattere oggettivo quali le caratteristiche del coltello utilizzato per commettere il fatto, la posizione degli antagonisti, la violenza e la profondità del colpo inferto, la zona del corpo attinta, l’adeguata causale dell’azione criminosa. 10 In tal senso, Cass. S.U. 25/01/94 n. 748 ric. Cassata, ove, il Collegio ha ritenuto sussistere il dolo diretto non intenzionale, in un caso relativo ad un tentato omicidio, ove l’agente, per sottrarsi alla cattura dopo una rapina, aveva risposto al colpo di avvertimento, esploso da una guardia giurata, sparando, ad altezza d’uomo e a breve Fascicolo n. 1/2016 www.ilforomalatestiano.it Pag. 10 di 32 3.2.1. - Soccorrono in particolare, quali indici rivelatori dell’elemento psicologico che connota nel caso di specie la condotta dell’imputata, le modalità esecutive della condotta, lo strumento utilizzato, la direzione dei colpi, la loro sequenza e il loro numero, nonché la sede attinta. La fredda e lucida scelta di colpire la vittima quando la stessa era di spalle, potendo in tal modo contare sulla sua non immediata reazione e depotenziandone la prestanza e forza fisica maggiore rispetto a quella dell’imputata (più esile e più piccola dell’aggredito), l’altrettanto fredda opzione per il coltello con una lama particolarmente affilata e lunga fra i tanti oggetti contundenti immediatamente reperibili e tutti disponibili, rappresentano i primi, univoci e concordi indici rivelatori di una intensa volontà dolosa. Il numero di colpi, di cui solo quelli al braccio causati da reazione di difesa distanza, numerosi colpi con una pistola ed attingendola ad una coscia. Più chiaramente anche di recente, Cass. Sez. I, 24/05/07 n. 27620 ove testualmente si legge: ”In tema di delitto omicidiario, deve qualificarsi come dolo diretto e non meramente eventuale, quella particolare manifestazione di volontà dolosa definita dolo alternativo, che sussiste quando il soggetto attivo prevede e vuole con scelta sostanzialmente equipollente, l’uno o l’altro degli eventi (nella specie, morte o grave ferimento della vittima) causalmente ricollegabili alla sua condotta cosciente e volontaria, con la conseguenza che esso ha natura di dolo diretto ed è compatibile con il tentativo. (Fattispecie in cui la S.C. ha ritenuto sussistente un dolo diretto di omicidio, quanto meno nella forma alternativa, in relazione a un tentativo di omicidio posto in essere esplodendo numerosi colpi di arma da fuoco contro un carabiniere postosi all’inseguimento degli autori di una tentata rapina aggravata in danno di un istituto di credito, dopo che egli aveva inutilmente intimato l’alt ed esploso con la pistola di ordinanza un colpo in aria a scopo intimidatorio)”. della vittima, la conseguenzialità degli stessi, inferti in più zone del corpo secondo il movimento di rotazione della vittima, la direzione del colpo mortale diretto al collo, con direzione dall’alto verso il basso e da destra verso sinistra, con una energica attività di pressione tanto da recidere completamente l’aorta e parzialmente anche altro importante vaso sanguigno quale la vena anonima, causando una sorta di truce “sgozzamento”, ne rafforzano la già rivelata matrice dolosa, rendendo inverosimile la allegazione dell’imputata circa una disgraziata sequenza di circostanze che avevano fatto sì che la vittima, ponendo in atto un’azione aggressiva e scagliandosi contro di lei avesse intersecato la lama, rimanendone mortalmente attinto. Il tipo di ferita, apprezzata in sede autoptica dal medico legale che l’ha descritta come una “ferita indicativamente valutabile in 11 cm circa, con direzione dall’alto in basso e con obliquità di pochi gradi dall’avanti indietro e da sinistra a destra” 11, non solo incompatibile con una posizione di immobilità dell’imputata ma anche con una impugnatura del coltello solo a scopo difensivo, stretto nel pugno e con il braccio non teso ma vicino al corpo, appare viceversa rivelatrice di una tenace volontà aggressiva, espressa da ME. con quell’ultimo colpo netto, diretto ad una zona vitale di minima estensione cui non avrebbe mai potuto arrivare in modo improvvido e imprudente, per l’obiettiva inconciliabilità della direzione del colpo - dall’alto al basso - sferrandolo 11 Cfr. relazione scritta Dott. P.P. BA. pag. 8. Fascicolo n. 1/2016 www.ilforomalatestiano.it Pag. 11 di 32 dalla sua posizione, più bassa rispetto a quella della vittima che era di statura più alta di lei. La ferita sulla regione posteriore lombare, evocativa di una posizione della vittima con le spalle rivolte al suo aggressore e le plurime ferite da difesa al braccio, colorano infine l’elemento volitivo di un intenso animus necandi, non solo per la pluralità di colpi in parte parati dalla vittima con il braccio, ma per l’assenza di qualunque contesto di reciproche aggressioni o di colluttazione in atto fra le parti, così da determinare in via autonoma ed esclusiva ME. ad armarsi del coltello e utilizzarlo verso l’avversario. Alla luce di tali e tanti elementi rivelatori della volontà omicidiaria, la negatoria opposta dall’imputata assume carattere di mera allegazione che trova una più profonda ragione nella stessa esternazione fatta da ME. nell’immediatezza, davanti al corpo mortalmente ferito di HE. e a quella pozza di sangue esclamando: “che ho fatto, che ho fatto” così come riportata dal teste oculare CA. Wi. Impressionata dalla sua stessa capacità aggressiva, l’imputata, tentando in una sorta di autotutela, di non assumere e non riconoscere neppure verso se stessa la responsabilità per quel fatto odioso commesso, si forniva una serie di giustificazioni, dando al pregresso litigio valore di azione che aveva scatenato la sua offesa e continuando a esternare, in un post factum ormai ineluttabile, la sua volontà di non voler uccidere, ripetendo, quasi come una cantilena, anche nel corso dei colloqui avuti in carcere con i coniugi OR., “ ..non volevo uccidere Angel.. non volevo prendere il coltello, ..l’ho invitato più volte a non avvicinarsi a me.. ho preso il coltello solo per spaventarlo...” 12 I dati circostanziali dell’azione e le sue stesse modalità hanno però svelato, così come già sopra ripetutamente affermato, la reale volontà dell’imputata, risolutamente determinata ad aggredire l’altrui bene - vita. 3.3. - Ha opposto il difensore la mancanza in capo all’imputata di qualunque volontà omicidiaria, prospettando al più la riconducibilità del fatto ad una causalità materiale ascrivibile allo schema normativo dell’art. 584 c.p., in quanto dai comportamenti realmente lesivi consumati dall’autrice ed effettivamente sorretti da adeguato elemento volitivo, sarebbe, derivato, quale conseguenza non voluta, l’evento morte. Muovendo dalla struttura normativa del delitto preterintenzionale invocato dalla difesa, si apprezza come la fattispecie si caratterizzi sotto il profilo soggettivo per la coesistenza di due dati, l’uno di segno positivo ossia la volontà di offendere - con percosse o lesioni - e l’altro di segno negativo, ossia la mancanza di intenzione di uccidere. Da ciò si evince che il tratto di discrimine tra delitto doloso e delitto preterintenzionale, non riguarda tanto l’elemento oggettivo, ma il coefficiente psicologico, che deve tradursi in una volontà e previsione di un evento meno grave di quello verificatosi in concreto, 12 Cfr. ambientale del 31/3/2013 ore 10,00 presso la sala colloqui della casa circondariale di Fo. Fascicolo n. 1/2016 www.ilforomalatestiano.it Pag. 12 di 32 prescindendo completamente dal grado di prevedibilità dell’evento più grave. In altri termini, il tratto peculiare del delitto di cui all’art. 584 c.p. risiede nel fatto che l’elemento psicologico consiste nell’avere voluto l’evento minore (percosse o lesioni) e non anche l’evento più grave (morte) che, pur non essendo voluto, rappresenta il risultato dello sviluppo causale insito nell’azione lesiva dell’altrui incolumità personale, conformemente all’espressa definizione contenuta nel comma 1 dell’art. 43 c.p. secondo cui il delitto è preterintenzionale, o oltre la intenzione, quando dall’azione od omissione deriva un evento dannoso o pericoloso più grave di quello voluto dall’agente. Secondo più recente e condivisibile orientamento giurisprudenziale, si può dunque ritenere che la struttura dell’omicidio preterintenzionale sia connotata da una condotta dolosa, avente ad oggetto il compimento di atti diretti a percuotere o a ferire, e da un evento più grave non voluto (ossia la morte del soggetto passivo), legato eziologicamente, in progressione causale, all’azione lesiva dell’incolumità personale13, mentre nell’omicidio volontario la volontà dell’agente è costituita dall’animus necandi, ossia dal dolo intenzionale, nelle gradazioni del dolo diretto o eventuale, “il cui accertamento è rimesso alla valutazione rigorosa di elementi oggettivi, desunti dalle concrete modalità della condotta: il tipo e la micidialità dell’arma, la reiterazione e la direzione dei colpi, la 13 Cfr. Cass., Sez. I, 16/6/98, Gavagnin. In alcune pronunce riemerge talora in la più risalente teoria che configura la preterintenzione come dolo misto a colpa (cfr. Cass., Sez. V, 11/12/92, P.M. in proc. Bonalda). distanza tra aggressore e vittima, la parte vitale del corpo presa di mira e quella concretamente attinta”.14 In estrema sintesi può perciò sostenersi che “il criterio distintivo tra l’omicidio volontario e l’omicidio preterintenzionale deve essere individuato nella diversità dell’elemento psicologico che, nel secondo reato, consiste nella volontarietà delle percosse e delle lesioni alle quali consegue la morte dell’aggredito come evento non voluto neppure nella forma eventuale ed indiretta della previsione e dell’accettazione del rischio della morte del soggetto passivo”15. Esaminando la condotta tenuta dall’imputata, alla luce del criterio distintivo sopra delineato, appare certo che l’imputata ME. abbia dimostrato con la condotta tenuta, estrinsecatasi attraverso le concrete modalità esecutive, nonché con lo strumento utilizzato e la sede attinta (già illustrate al precedente punto), e alla stregua delle regole di comune esperienza, la consapevole accettazione che dalla sua condotta potesse derivare la morte di HE. Proprio in ragione della chiara previsione e della consapevole accettazione che attraverso la sua condotta e con l’utilizzo di quell’arma potesse derivare la morte dell’aggredito, ME. ha integrato la più grave condotta di omicidio volontario, non potendo ritenersi che l’evento letale costituisse, al momento del suo 14 In tal senso Cass. Sez. I, 21/6/01, n. 25239. 15 Di recente, così si è espressa Cass. sez. I, 27 luglio 2010, n. 29376. Conformi Cass., Sez.I, 20/11/95, Flore; Cass. Sez. I, 25/11/94, P.M. in proc. Piscopo; Cass., Sez. I, 3/03/94, Mannarino; Cass., Sez. I, 14/12/92, Di Grande ed altri. Fascicolo n. 1/2016 www.ilforomalatestiano.it Pag. 13 di 32 agire, un quid pluris solo causalmente legato alla sua condotta ma completamente avulso da ogni prevedibilità/prevenibilità. 4. - Le indagini avviate sul grave fatto omicidiario si estendevano all’ulteriore episodio relativo alla detenzione della sostanza stupefacente rinvenuta nell’involucro trovato vicino al cancello di ingresso ove si era seduta ME. Procedendo a perquisizione locale presso il domicilio dell’imputata ME., in Fa. via Pi. i carabinieri rinvenivano, all’interno di una scatola, colma di riso, e riposta dentro l’armadio della camera da letto, sei involucri termosaldati risultati contenere complessivamente 5,5 grammi di cocaina (di cui cinque da 1 grammo l’uno e uno da 050 grammi). Nella medesima scatola vi era altro involucro contenente grammi 14 di sostanza da taglio. Nella libreria della sala, era rinvenuta una busta di cellophane intrisa di polvere bianca, verosimilmente cocaina. Il cellophane delle confezioni trovate a casa di ME. risultava essere identico a quello della confezione trovata in Mi. vicino a ME.16. La perquisizione eseguita sempre a Fa., in via Go., ove risultava dimorare saltuariamente la vittima HE., e ove si trovava AR. Al. con i figli Fr. e Ni., entrambi maggiorenni, consentiva di rinvenire, su indicazione della donna, occultato in un calzino fra la biancheria da lavare, un involucro di cellophane contenente 10 grammi di cocaina. In merito alla detenzione, AR. se ne assumeva la esclusiva responsabilità, 16 Cfr. verbale del 19/8/13 di perquisizione locale e di sequestro redatti dai carabinieri di Mi. riferendo, in presenza del difensore, di svolgere funzioni di custode per conto di HE., il quale le pagava 200/300 euro alla settimana. La cocaina rinvenuta, era la parte residua di un maggior quantitativo lasciatile in custodia da HE. che proprio il 18 agosto 2013, era passato a ritirare due dei tre originari involucri, dicendole che si sarebbe recato a Ri. Il suo arresto in flagranza, con consulenza tossicologica sulla sostanza sequestrata, comprovava la detenzione di grammi 8,960 di cocaina con principio attivo al 22,8% e idoneità a ricavare 13,6 dosi medie singole. Nella sostanza erano altresì rinvenute tracce di Levamisole, utilizzata per il taglio dello stupefacente come sofisticante. La finalità di spaccio, attribuibile a HE., era riconfermata da AR. anche in sede di interrogatorio reso in sede di convalida avanti al GIP del Tribunale di Pe., così che non vi è dubbio che costui detenesse lo stupefacente, quantomeno in parte, per la illecita commercializzazione, circostanza a cui la stessa ME. ha fatto riferimento, nel suo interrogatorio, attribuendo all’uomo il ruolo di suo fornitore. ME., ammettendo di essersi resa disponibile il 18 agosto 2013 a custodire presso la sua abitazione la parte di cocaina che HE. aveva deciso di non portare a Mi., ha precisato che costui, in altre occasioni le aveva ceduto dello stupefacente di cui la stessa faceva uso. La consapevole accettazione di assumere la custodia di stupefacente altrui, di cui si ha altresì piena consapevolezza della sua ulteriore cessione a terzi, integra, per pacifico Fascicolo n. 1/2016 www.ilforomalatestiano.it Pag. 14 di 32 orientamento giurisprudenziale, la condotta di partecipazione concorsuale alla fattispecie criminosa dell’art. 73 DPR 309/90, dovendosi escludere una mera connivenza non punibile17. Si condivide in materia, orientamento giurisprudenziale consolidato secondo il quale, il contributo concorsuale assume rilevanza non solo quando abbia efficacia causale, ponendosi come condizione dell'evento lesivo, ma anche quando assuma la forma di contributo agevolatore, e cioè quando il reato, senza la condotta di agevolazione, sarebbe stato ugualmente 17 Così con costante orientamento la Suprema Corte ha tracciato la linea di demarcazione fra apporto concorsuale e condotta connivente: “in tema di reato concorsuale, la distinzione tra connivenza non punibile e concorso nel delitto, va individuata in ciò: mentre la connivenza (che è la scienza che altri sia per commettere o commetta un reato, e come tale non basta a dar vita ad una forma di concorso) postula che l'agente mantenga un comportamento meramente passivo, la condotta di partecipazione, invece, deve manifestarsi in un comportamento che arrechi un contributo alla realizzazione del delitto, sia pure, mediante il rafforzamento del proposito criminoso degli altri compartecipi, o di agevolazione dell'opera degli altri concorrenti, o che l'agente per effetto della sua condotta idonea a facilitarne l'esecuzione, abbia aumentato la possibilità della sua produzione, perché in forza del rapporto associativo diventano sue anche le condotte dei partecipi” Cass. Sez. VI, 03 giugno 1994. Più di recente, Cass. Sez. IV, 11/06/14 n. 24615 “La distinzione tra connivenza non punibile e concorso nel reato va individuata nel fatto che, mentre la prima postula che l'agente mantenga un comportamento meramente passivo, inidoneo ad apportare alcun contributo alla realizzazione del reato, nel concorso di persona punibile è richiesto, invece, un contributo partecipativo - morale o materiale - alla condotta criminosa altrui, caratterizzato, sotto il profilo psicologico, dalla coscienza e volontà di arrecare un contributo concorsuale alla realizzazione dell'evento illecito. Ne consegue che il comportamento passivo, ancorché perfettamente consapevole, ma inidoneo ad apportare alcun contributo causalmente rilevante all'altrui realizzazione del reato, integra mera connivenza non punibile.” commesso, ma con maggiori incertezze di riuscita o difficoltà. In altri termini, in materia di illecita detenzione di sostanze stupefacenti, “la distinzione tra connivenza non punibile e concorso nel reato commesso da altro soggetto, consiste nel fatto che mentre la prima postula che l'agente mantenga un comportamento meramente passivo, privo cioè di qualsivoglia efficacia causale, il secondo richiede, invece, un contributo partecipativo positivo, morale o materiale, all'altrui condotta criminosa, assicurando quindi al concorrente, anche implicitamente, una collaborazione sulla quale questi può contare”18. Nel caso in esame, avere fornito adeguato e sicuro luogo di custodia della partita di cocaina ad HE., il quale, diversamente, avrebbe dovuto provvedere con maggiori difficoltà, alla sua conservazione, integra contributo partecipativo di ME. al delitto di cui all’art. 73 DPR 309/90 (non contestato al correo perché vittima del fatto omicidiario di cui risponde l’imputata). Il modesto quantitativo e le ridotte capacità imprenditoriali e distributive, così come emerse dagli atti, riconducono la condotta all’ipotesi di lieve tenuità del comma 5 dell’art 73 DPR 309/90, che ha subito radicali modifiche a seguito delle novelle introdotte con D.L.146/13 convertito con L.10/14 e ulteriormente modificato con L.79/14 in vigore dal 21/5/14. Va innanzitutto dato atto che la mitigazione della risposta sanzionatoria voluta dal legislatore in materia di fatti di lieve entità non ha attinto solo la 18 Così testualmente Cass. 27/11- 13/12/12, n. 48243. Fascicolo n. 1/2016 www.ilforomalatestiano.it Pag. 15 di 32 parte normativa che riguarda la sanzione criminale, ma ha radicalmente innovato nella materia, creando una nuova e autonoma fattispecie criminosa (con le note ricadute in materia di contestuali applicazioni di aggravanti e di recidiva non più vincolate ai giudizi di bilanciamento di cui all’art. 69 c.p.) la cui previsione sanzionatoria è rimasta inalterata e indistinta per i diversi tipi di sostanza, aderendo cioè allo schema introdotto con L.21/2/06 n.49, nelle more dichiarata incostituzionale con la pronuncia n.32/14 del Giudice delle Leggi19. Muovendo dunque da detti principi, deve valutarsi quale delle disposizioni penali a contenuto sostanziale sia più favorevole e in particolare se tale sia la disciplina del comma 5 dell’art. 73 DPR 309/90 nel testo modificato dalla L.49/06 - in vigore al momento di commissione dei fatti avvenuta il 19 agosto 2013 - ovvero la disposizione del comma 5 come novellato dalle disposizioni normative delle L.10/14 (di conversione del D.L.146/13) e L.79/14 (di conversione del D.L.36/14). Muovendo dal consolidato principio di diritto secondo cui deve essere applicata la disposizione in concreto complessivamente più favorevole (e giammai una combinazione di parti di 19 Né l’intervenuta pronuncia di illegittimità costituzionale degli artt. 4 bis e 4 vicies ter della L. 21/2/06 n.49 ha avuto incidenza sul contenuto del novellato comma 5 così che, mentre per l’ipotesi dell’art. 73 commi 1 e 4 DPR 309/90 è ritornato ad applicarsi il rigoroso distinguo fra tipi di sostanze ricomprese nelle diverse tabelle, per la nuova fattispecie criminosa disciplinata dal nuovo comma 5 non sussiste alcuna distinzione fra tipi di droghe, essendo previsto un unico trattamento sanzionatorio disposizioni diverse) 20, pare indubbio a questo giudice che, nel caso concreto, la nuova disposizione come da ultimo novellata con L.79/1421, che riconduce i fatti penalmente rilevanti a fattispecie autonoma, punita con una pena edittale nel massimo di anni quattro di reclusione ed euro 10.329 di multa (a fronte dei cinque anni di cui al comma 5 dell’art. 73 riformato con L. 10/14 e dei sei anni della circostanza attenuante del comma 5 nella previgente disciplina della L. 49/06) sia concretamente e in assoluto più favorevole avendo un massimo edittale inferiore. Tale nuova norma dovrà essere dunque applicata al caso in esame. 5. - Deve da ultimo essere affrontata la questione relativa al trattamento sanzionatorio. Reputa questo giudice di muovere dalle considerazioni su cui fonda un giudizio prognostico per la concessione delle attenuanti generiche. Come già sopra evidenziato, il contesto di riferimenti labili, improntati a scelte emozionali e di soddisfacimento dei desideri di più immediata e superficiale percezione, accomuna vittima e aggressore, legati da un comune senso del vivere avulso da contesti riflessivi e di ricerca di una solida identità ancorata a scelte che ne affermino la connaturale dignità di persona. La vita percepita nella sua accidentalità quotidiana, avulsa da un significato ultimo, si riduce ad estemporanee 20 Di recente, anche Cass. Sez. IV, 19/9/12 n. 42496. 21 Con tale ultima modifica la sanzione criminale per tutte le ipotesi riconducibili al comma 3 dell’art. 73 - riguardanti indifferentemente sostanze riconducibili alla cd. droghe pesanti o leggere- è della reclusione da sei mesi a quattro anni e della multa da euro 1.032 a euro 10.329. Fascicolo n. 1/2016 www.ilforomalatestiano.it Pag. 16 di 32 esigenze materiali cui può rispondersi attraverso guadagni prodotti dal commercio del proprio corpo o da commerci di sostanze pericolose per la salute, autorelegandosi in contesti disgreganti, umilianti e precari. Così in una radicale crisi di identità, ove ogni azione sradicata da un desiderio di bene possibile sia per sé, che per gli altri, è unicamente indirizzata a dare risposte parziali al desiderio profondo di felicità, la persona e la vita dell’altro si sviliscono, non suscitando più alcun interesse e senso di curiosità fino a degradare a beni sopprimibili laddove divenuti odiosi o scomodi. In un tale scadimento e fragilità dell’io, abituato a relazionarsi e misurarsi solo con se stesso, con le proprie estemporanee urgenze mai rapportate alle ontologiche esigenze dell’umano, l’imputata ME., spinta dal sentimento di rabbia suscitatole dalla gratuita aggressione subita, si muove calpestando l’altrui vita, per poi reagire con un sentimento di sgomento e quasi di incredulità di fronte alla soppressione dell’altrui vita umana, dandosi una versione degli accadimenti come una disgraziata sequenza di circostanze avverse, come a voler giustificare, con l’ineluttabilità di una cattiva sorte, la violenza di quel gesto. Una tale fragilità dell’umano non educato a paragonare le proprie azioni ai criteri cognitivi e valutativi di riferimento che devono fondare l’agire della persona adulta - caratterizzante la persona dell’imputata al momento di commissione dei reati in esame - appare avere subìto, nel tempo trascorso fra il fatto omicidiario per cui è processo e la presente pronuncia, un principio di una positiva riflessione con un tentativo di rivisitare i fatti giudicandoli nella loro obiettiva portata deflagrante e mostrando perciò un sincero pentimento per quanto accaduto (esternato anche in udienza durante il suo esame). Una tale inizio di maturazione, unitamente al comportamento remissivo post factum e all’iniziale percorso di rivisitazione della condotta tenuta (pur a fronte di una totale mancanza di cenno a voler farsi carico, materialmente, dei danni causati con il suo gesto ai figli della vittima) consentono di pervenire a giudizio prognostico positivo per la concessione delle attenuanti generiche. Va esclusa, per l’evidente carenza dei necessari presupposti, la sussistenza dell’attenuante della provocazione, neppure invocata dalla difesa. E’ pacifico infatti che nel caso concreto, per le concrete modalità di accadimento dei fatti (già sopra ampiamente illustrate) non sia ravvisabile un rapporto di “causalità psicologica fra offesa e reazione” ma al più di mera occasionalità 22. 22 Cfr. Cass. Sez. I, 14/11/13 n. 47840 ove la Corte enuclea tre presupposti necessari per la sussistenza della attenuante della provocazione: “ai fini della configurabilità dell’attenuante della provocazione occorrono: a) lo stato d’ira, costituito da un’alterazione emotiva che può anche protrarsi nel tempo e non essere in rapporto di immediatezza con il fatto ingiusto altrui; b) il fatto ingiusto altrui che deve essere connotato dal carattere dell’ingiustizia obiettiva, intesa come effettiva contrarietà a regole giuridiche, morali e sociali, reputate tali nell’ambito di una determinata collettività in un dato momento storico e non con riferimento alle convinzioni dell’imputato e alla sua sensibilità personale; c) un rapporto di causalità psicologica e non di mera occasionalità tra offesa e reazione, indipendentemente dalla proporzionalità fra esse, sempre che sia riscontrabile una qualche adeguatezza tra l’una e Fascicolo n. 1/2016 www.ilforomalatestiano.it Pag. 17 di 32 Non si condivide neppure l’ipotesi inversa, prospettata dalla difesa delle parti civili che ha richiesto il riconoscimento dell’aggravante di cui all’art. 93 c.p. per avere l’imputata agito sotto l’effetto di sostanze stupefacenti. L’aggravante non è infatti stata adeguatamente provata, in quanto è stato acquisito, per sola dichiarazione ammissiva dell’imputata, elemento indiziario in merito ad una assunzione che la stessa aveva fatto nel pomeriggio di cocaina offertale da HE., senza tuttavia avere riscontri, sulla esistenza, al momento del fatto, di effetti droganti ancora presenti e influenti sulla coscienza e volontà dell’imputata. 5.1. - Sempre a fini sanzionatori deve tenersi conto che la condotta di omicidio si è consumata in un autonomo e diverso contesto rispetto a quella di detenzione a fini di spaccio, di sostanza stupefacente. Ne consegue che le sanzioni criminali applicabili alle due fattispecie soggiacciono pertanto alle regole del cumulo materiale ai sensi degli artt. 73, 76 e 78 c.p. Tenuto conto dei criteri di cui all’art. 133 c.p., ed in particolare della condotta omicidiaria in sé obiettivamente grave, anche alla luce della cruenta modalità esecutiva, esplicata attraverso una reiterazione di colpi, fra cui quello mortale inferto al collo con la recisione di vasi sanguigni importanti provocando una sorta di l’altra condotta.” ( fattispecie nella quale la Corte ha escluso l’applicabilità dell’attenuante nel caso di “provocazione lenta” frutto di ipotizzate vessazioni da parte della vittima del delitto di omicidio che ostacolava la relazione extraconiugale della moglie e la cui gelosia non era sfociata in alcun modo in condotte violente). sgozzamento della vittima, deve ritenersi congruo muovere dalla pena prevista nei minimi edittali dall’art. 575 c.p., di anni ventuno di reclusione, diminuita ad anni quindici di reclusione per le attenuanti generiche non concesse nella loro maggiore ampiezza mancando ogni principio di serio ristoro a favore dei prossimi congiunti della vittima. Ai sensi dell’art. 78 c.p. a detta pena deve essere cumulata la pena stimata congrua per il delitto di cui al capo B) - concretamente individuata in mesi sei di reclusione ed euro 1200,00 di multa, muovendo dalla pena base prevista dal comma 5 dell’art. 73 DPR 309/90 nel testo riformato con L.79/14, di mesi nove di reclusione ed euro 1800,00 di multa, diminuita per la concessione delle attenuanti generiche alla pena sopra indicata. Il cumulo materiale delle due sanzioni inflitte, pari ad anni quindici mesi sei di reclusione ed euro 1200,00 di multa va infine ridotta di un terzo per il rito, pervenendosi così alla pena definitiva di anni dieci mesi quattro di reclusione ed euro 800,00 di multa. Segue di diritto la condanna dell’imputata al pagamento delle spese processuali e di quelle di custodia in carcere. Ai sensi degli artt.29 e 32 c.p. va altresì irrogata la pena accessoria dell’interdizione legale per la durata della pena principale, nonché dell’interdizione in perpetuo dai pubblici uffici. Va altresì disposta la confisca e distruzione dello stupefacente, del coltello e degli indumenti in sequestro, in quanto i primi due beni soggetti a confisca obbligatoria e i terzi a confisca Fascicolo n. 1/2016 www.ilforomalatestiano.it Pag. 18 di 32 falcoltativa trattandosi di res pertinenti al reato. I quattro telefoni cellulari in sequestro di cui ai corpi di reato n. 22885 e 22886, ancora sottoposti a sequestro probatorio, vanno dissequestrati e restituiti agli aventi diritto non permanendo più alcuna esigenza probatoria nè emergendo alcuna diretta relazione con i reati in esame. 5.2. - L’affermazione di responsabilità penale dell’imputata ME. importa la condanna della stessa al risarcimento dei danni derivati dal solo delitto di omicidio e subiti dalle costituite parti civili HE. Da., HE. Yu. ed HE. Je., da liquidarsi in separato giudizio, nonché alla rifusione delle spese di costituzione e patrocinio sostenute dalle medesime parti civili con patrocinio svolto da unico difensore e liquidate nella misura indicata in dispositivo, in conformità ai parametri normativi di cui agli art. 13 L. 31/12/12 n 247, art.12 e ss. DM 10/3/14 n.55, e tenuto conto della complessità stessa della difesa anche in ragione delle articolate questioni di diritto affrontate in tema di esimente ed elemento soggettivo del reato. Ciò posto, in accoglimento della istanza formulata dalla difesa delle parti civili, l’imputata ME. va infine condannata al pagamento di una provvisionale immediatamente esecutiva in favore delle stesse pari ad euro 45.000,00 per ciascuna parte civile, non risultando effettuata alcuna concreta e seria proposta di risarcimento e ritenuta comunque raggiunta entro tali limiti la prova del danno - atteso che all’epoca dei fatti la vittima aveva piena capacità lavorativa trattandosi di persona giovane di 46 anni. Si dispone infine ai sensi dell’art.143 c.p.p. come modificato dal D.L.vo 4/03/14 n. 32 che la presente pronuncia, corredata di motivazione, sia tradotta dall’interprete in lingua alloglotta e che copia sia poi notificata all’imputata ME. PER QUESTI MOTIVI Visti gli articoli 438 e segg. 533, 535 c.p.p., 71,73,76,78 e 62 bis c.p. DICHIARA ME. Cl. colpevole dei delitti alla medesima ascritti ai capi A) e B), esattamente qualificato tale ultimo come ipotesi autonoma di cui al comma 5 dell’art. 73 DPR 309/90 come introdotto dalla L. 79/14, ritenuto il cumulo materiale fra i reati, concesse le attenuanti generiche e con la diminuente per il rito, la condanna alla pena di anni dieci, mesi sei di reclusione ed euro 800,00 di multa, oltre al pagamento delle spese processuali e di custodia cautelare in carcere. Visti gli artt. 28, 29 e 32 c.p. dichiara ME. interdetta in perpetuo dai pubblici uffici e in stato di interdizione legale durante l’esecuzione della pena. Ordina la confisca e distruzione dello stupefacente, del coltello e degli indumenti in sequestro; dispone il dissequestro e la restituzione agli aventi diritto dei quattro telefoni cellulari in sequestro di cui ai corpi di reato n. 22885 e 22886. Visti gli artt. 538 e segg. c.p.p. CONDANNA ME. Cl. al risarcimento dei danni morali e materiali a favore delle parti civili HE. Da., HE. Yu. ed HE. Je. in Fascicolo n. 1/2016 www.ilforomalatestiano.it Pag. 19 di 32 relazione al solo reato contestato al capo A) , da liquidarsi in separata sede, nonché alla rifusione delle spese di costituzione e patrocinio in favore delle stesse parti civili, rappresentate e difese da unico difensore che liquida in complessivi euro 7.927,00 (di cui euro 5805,00 per la prima difesa, euro 1.061,00 per la seconda parte ed ulteriori euro 1.061 per la terza parte ) oltre a spese generali nella misura del 15%, IVA e CPA come per legge; Visto l’art. 539 c.p.p., e su espressa richiesta delle parti civili liquida a titolo di provvisionale immediatamente esecutiva la somma di euro 45.000,00 per ciascuna parte civile. Visto l’art.143 c.p.p. come modificato dal D.L.vo 4/03/14 n. 32 dispone che la presente pronuncia, corredata di motivazione, sia tradotta dall’interprete che ha già svolto attività peritale nel corso del processo e ne sia poi notificata copia nella lingua alloglotta all’imputata ME. Visti gli artt. 544 comma 3 c.p.p., e 304 comma 1 lett. C) c.p.p., indica in giorni novanta il termine per il deposito della motivazione e sospende per identico periodo il termine di fase della misura cautelare in corso di esecuzione. Rimini 1 ottobre 2014. (mass. redaz.) Il Giudice Dott. Fiorella Casadei _____________________________ TRIBUNALE DI RIMINI - UFFICIO DEI G.U.P., 3 OTTOBRE 2014 N. 528 La semplice esistenza di una condotta non iure dell’agente non è in sé idonea a integrare la fattispecie di abuso d'ufficio, poiché è necessario che attraverso un tale comportamento si sia raggiunto un risultato contra ius, che potrà tradursi sia in un vantaggio - la cui necessaria natura patrimoniale è di pacifica accettazione - sia un danno ingiusto - la cui natura potrà viceversa essere sia patrimoniale che non patrimoniale. Il rifiuto di ricevere una denuncia che trovi plausibile giustificazione nella specifica tutela delle facoltà difensive del denunciante (invitato a rapportarsi con personale di altro ufficio) non può reputarsi "indebito" e non integra quindi l'elemento oggettivo della fattipecie di cui all'art. 328 c.p. poiché finalizzato a garantire il buon andamento e la trasparenza nell’esercizio della funzione istituzionale. La norma incriminatrice di cui all'art. 328, comma 1, c.p. non sanziona penalmente la generica inerzia o la scarsa sensibilità istituzionale del pubblico ufficiale, ma un rifiuto consapevole di atti da adottarsi senza ritardo per la tutela di beni o interessi pubblici, così che la natura indebita del rifiuto costituisce un elemento strutturale della fattispecie criminosa. Ai sensi dell'art. 328 c.p., gli atti che il pubblico ufficiale o l'incaricato di pubblico servizio deve compiere senza Fascicolo n. 1/2016 www.ilforomalatestiano.it Pag. 20 di 32 ritardo non sono quelli genericamente correlati a ragioni di giustizia o di sicurezza pubblica o di ordine pubblico o di igiene e sanità, ma solo quegli atti che, per dette ragioni, devono essere "immediatamente" posti in essere. (mass. redaz.) TRIBUNALE ORDINARIO DI RIMINI UFFICIO DEI GIUDICI PER L’UDIENZA PRELIMINARE il giudice Dott.ssa Fiorella Casadei Ha pronunciato e pubblicato mediante lettura del dispositivo la seguente S E N T E N Z A Nel processo penale CONTRO 1. DI. DA., nato a Ba. il 30/03/1982, residente a Ce. (FG), Via Tr., con domicilio eletto presso la caserma Sm. della PO.zia di Stato, Via Le. libero–presente difeso di fiducia dall’Avv. Fa. Pa. del Foro di Bologna 2. RO. DO., nato a Co. (BA) il 26/03/1980, residente a Co. (BA) Via Ca., domicilio eletto presso la caserma Sm. della PO.zia di Stato Via Le. libero– presente difeso di fiducia dall’Avv. Fa. Pa. del Foro di Bologna 3. SA.SA., nato a Ga. (LE) il 15/02/1959, residente a Ga. (FC) Via Lo., domicilio eletto presso il difensore di fiducia Avv. Fi. Al. del Foro di Rimini libero– presente difeso di fiducia dagli Avv. Fi. Al. e Al. Al. entrambi del Foro di Rimini I M P U T A T I DI. e RO.: a) Delitto previsto e punito dagli articoli 61 n. 1, 110 e 323 codice penale, per avere, essendo di servizio di PO.zia presso il Posto di PO.zia di Ri., cagionato intenzionalmente un danno ingiusto a Gi. D’I., all’epoca di anni 61, fermandolo e poi trattenendolo per circa cinquanta minuti, dapprima in piedi al sole, e poi, dopo che D’I. aveva fatto presente di avere difficoltà a rimanere in piedi per lungo tempo, al dichiarato ma pretestuoso fine di compilare un verbale di identificazione, incombenza per la quale erano necessari non più di cinque minuti, facendo ciò in violazione dei doveri di correttezza propri dei pubblici ufficiali nonché del disposto dell’articolo 132 c.p.p. che, nel consentire misure di trattenimento e accompagnamento della persona nei cui confronti occorre compiere un atto, impone l’immediato rilascio non appena l’atto sia stato compiuto. Il danno consiste nella privazione della libertà per un tempo superiore a quello necessario e nell’impossibilità per D’I. di compiere le attività programmate in quel lasso temporale (cure termali nel vicino centro termale). Con l’aggravante di aver commesso il fatto per futili motivi, quale misura di ritorsione nei confronti di Gi. D’I. che li aveva rimproverati per avere occupato la pista ciclabile con l’auto di servizio in sosta (circostanza peraltro vera), così costringendo i ciclisti a percorrere, con maggiori rischi, la sede stradale riservata alle autovetture. In Riccione, 12 luglio 2011 Fascicolo n. 1/2016 www.ilforomalatestiano.it Pag. 21 di 32 SA. b)Delitto previsto e punito dall’articolo 61 n. 2 e 328 codice penale, per essersi rifiutato, essendo in servizio presso il posto di PO.zia di Riccione, quale responsabile pro tempore del predetto ufficio, di redigere il verbale di denuncia orale sulle dichiarazioni di Gi. D’I., relative ai fatti di cui al capo che precede, atto che doveva essere compiuto per motivi di giustizia senza ritardo. Ciò faceva dopo aver ascoltato la descrizione dei fatti medesimi da parte di D’I., al fine di commettere il delitto di favoreggiamento sotto contestato. c) Delitto previsto e punito dagli articoli 110 e 378 codice penale, per avere, con la condotta di cui al capo che procede, dapprima invitandolo a recarsi altrove per formalizzare la denuncia e poi, alle rimostranze del D’I., affermando di non aver sentito nulla di quello che egli aveva appena denunciato oralmente, infine omettendo di segnalare (nella comunicazione notizia di reato avente protocollo 29/2.2/2011, dal medesimo trasmessa alla Procura della Repubblica) la circostanza che D’I., oggetto di denuncia da parte di RO.e DI., si era presentato lo stesso giorno fornendo una versione dei fatti completamente diversa, aiutato i colleghi DI. e RO.a eludere le indagini nei loro confronti. In Riccione, 12 luglio 2011 *** Con l’intervento del Pubblico Ministero Dott. St. Ce., dell’Avv. Fa. Pa. del Foro di Bologna, dell’Avv. Fi. Al. e dell’Avv. Al. Al. entrambi del Foro di Rimini Il Pubblico Ministero chiede la condanna degli imputati DI. e RO. alla pena di mesi sei di reclusione r con la concessione delle attenuanti generiche; quanto all’imputato SA. chiede la condanna alla pena di anni uno mesi due di reclusione considerata l’aggravante e ritenuta la continuazione, con pene accessorie come per legge. L’Avv. Pa., per gli imputati DI. e RO., chiede l’assoluzione perché la condotta non costituisce reato. In subordine chiede il minimo edittale della pena con concessione non solo delle generiche ma anche dell’attenuanti di cui all’art. 323 bis c.p. e concessione della conversione della pena ai sensi dell’art. 53 L. 689/81 e doppi benefici di legge. L’Avv. Al. Al., per l’imputato Sa., chiede l’assoluzione da entrambi i fatti in contestazione perché il fatto non costituisce reato. Il codifensore Avv. Fi. Al. si associa. MOTIVI DELLA DECISIONE Con richiesta di rinvio a giudizio depositata dal PM in sede in data 14 giugno 2013 gli imputati DI. DA., RO.DO. e SA.SA., nelle loro rispettive qualifiche di dipendenti della PO.zia di Stato con funzioni esercitate presso il posto di PO.zia estivo di Ri., erano chiamati i primi due in concorso fra loro a rispondere del delitto di abuso d’ufficio e il terzo di rifiuto di atti d’ufficio e di favoreggiamento personale. Nell’ambito dell’udienza preliminare tenutasi in data 6 maggio 2014 (dopo una prima udienza tenutasi in data 10 Fascicolo n. 1/2016 www.ilforomalatestiano.it Pag. 22 di 32 dicembre 2013 ove in via preliminare si disponeva la rinnovazione della notifica alla persona offesa D’I. Gi. non risultata perfezionata) gli imputati, tutti presenti, hanno avanzato richieste di definizione del procedimento con rito abbreviato semplice. Sentito il PM sulla ammissibilità delle istanze, ritenutane la ritualità e tempestività, era emessa ordinanza di ammissione di tutti gli imputati al rito speciale prescelto, con successiva assunzione di spontanee dichiarazioni rese dagli imputati DI. DA. e SA.SA., previ avvisi dei diritti loro spettanti. A successiva udienza straordinaria tenutasi in data 3 ottobre 2014, le parti hanno formulato le rispettive conclusioni come sopra riportate e, all’esito della camera di consiglio è stata pronunciata sentenza mediante lettura in udienza del dispositivo e con indicazione del termine di giorni novanta per il deposito della motivazione, stante il carico di lavoro dell’ufficio GIP/GUP e la complessità delle questioni giuridiche relative alle fattispecie in esame. Sulla base degli elementi acquisiti e utilizzabili in ragione del rito, si reputa insussistente l’elemento materiale dei reati con conseguente pronuncia assolutoria di tutti gli imputati. I fatti di causa prendono origine da quanto accaduto in data 12 luglio 2011 a Ri., in Viale D’A. Quel giorno intorno alle ore 11,00 D’I. Gi. e la coniuge PO. Fr. stavano percorrendo la pista ciclabile esistente in viale D’A., per recarsi allo stabilimento termale. Lungo il percorso adibito ai soli velocipedi i due coniugi incontravano un ostacolo, costituito da un’auto della Polizia di stradale, lasciata in sosta in modo perpendicolare alla carreggiata. In tal modo, la pista ciclabile, divisa dalla corsia di marcia degli altri mezzi a motore solo da una linea tratteggiata dipinta sull’asfalto, senza paletti ovvero cordolo divisorio, risultava così occupata, per circa due metri (ossia la larghezza dell’auto di servizio), dal mezzo delle forze dell’ordine. D’I. e la moglie, dovendo proseguire, erano costretti ad uscire dalla pista e transitare sulla carreggiata ove vi era traffico di auto. Tale situazione indispettiva i coniugi D’I., tanto che la moglie, passando commentava a voce alta: “state occupando la pista ciclabile”, sentendosi rispondere dai due Poliziotti presenti fuori dal mezzo “passa sul marciapiede”. D’I., pubblico ufficiale in pensione e scrupolosamente ligio ad osservare le leggi, intervenendo a difesa della moglie, “sbottava” e rivolgendosi ai Poliziotti, diceva loro “che aveva ragione mia moglie e che la posizione dell’auto costringeva tutti i ciclisti a scartare verso la carreggiata con grave pericolo dato che le auto che circolavano potevano investirli”, aggiungendo poi “voi non sapete fare il vostro lavoro”. I pubblici ufficiali, intenti a servizio ordinario di prevenzione e controllo, invitavano D’I., che continuava a lamentarsi, a esibire i documenti. In particolare il capo pattuglia giustificava la richiesta dicendo trattarsi di “un controllo di Polizia”. Tale contingenza, descritta con sostanziale omogeneità sia da D’I. in Fascicolo n. 1/2016 www.ilforomalatestiano.it Pag. 23 di 32 denuncia presentata in data 12/7/11 presso la stazione carabinieri di Riccione, sia in successive dichiarazioni rese a chiarimenti in data 23 settembre 201123, sia dalla moglie PO. Fr. la quale aggiungeva che dopo aver notato il marito fermarsi ed esibire un documento ai poliziotti, si avvicinava apprendendo dagli stessi che lo denunciavano “perché ci ha detto che non sappiamo fare il nostro lavoro”24, trovava sostanziale esposizione narrativa anche nella relazione di servizio redatta dai due agenti in servizio. Costoro, identificati nell’ass. DA. DI. e ass. DO. RO., aggregati per il periodo estivo presso la questura di Rimini con appoggio al posto di Polizia di Riccione (ma in servizio presso il reparto prevenzione crimine della Questura di Bologna), indicavano nell’annotazione redatta il 12/7/11 ore 13,10 come l’uomo, lamentando l’occupazione della pista ciclabile da parte dell’auto di servizio, avesse dapprima esordito dicendo “dovete spostarvi da qui, qui date fastidio! Andate da un’altra parte!” proseguendo poi, con una certa petulanza e anche dopo aver superato il punto di intralcio, con frasi del tipo: ”voi non capite niente! voi non sapete fare il vostro lavoro. Questa è la corsia delle biciclette e voi non potete stare”, continuando a esternare, con toni sempre più alti, commenti del tipo: ”io ho lavorato trent’anni in Polizia ma 23 Cfr. denuncia D’I. del 12/7/11 ad affol. 5; sommarie informazioni D’I. in verbale Stazione CC del 23/9/11 affol. 23,24 e allegato schizzo redatto dal dichiarante relativo allo stato dei luoghi, affol. 25. 24 Cfr. sommarie informazioni PO. in verbale Stazione CC del 23/9/11 affol. 26, 27 . mai così male. non mi sono mai comportato come voi” 25. Ciò che era seguito alla fase dell’esibizione del documento era descritto da D’I. come un comportamento vessatorio che i pubblici ufficiali avevano posto in atto nei suoi confronti. Lamentava infatti il denunciante come i due pubblici ufficiali lo avessero trattenuto per “circa mezz’ora”, poi dilatando il tempo nell’integrazione della denuncia del 23/9/11 fino a “50 minuti”, solo per redigere un verbale di identificazione, facendolo attendere sotto il sole estivo, nonostante avesse loro rappresentato di non sentirsi bene e di avere premura di andare poiché aveva le cure termali prenotate, sentendosi rispondere in modo supponente e borioso: “chiederà il rimborso al giudice”. Il verbale, cui faceva riferimento D’I., veniva effettivamente redatto dai pubblici ufficiali, come verbale di identificazione di persona sottoposta alle indagini per il delitto di oltraggio a pubblico ufficiale, cui seguiva iscrizione nel registro al n.5193/11 RG NR, definito con decreto di archiviazione per insussistenza dell’elemento materiale.26 La situazione creatasi in viale D’Annunzio e che pareva aver avuto termine con la redazione del verbale di identificazione, vedeva, viceversa, uno sviluppo ulteriore presso gli uffici della Polizia stradale di Ri. ove D’I. insieme alla moglie, si recava intorno alle ore 12,15. 25 cfr. annotazione servizio del 12/7/11 affol. 37 26 Cfr. verbale identificazione ad affol. 15 e richiesta di archiviazione ad affol. 41 Fascicolo n. 1/2016 www.ilforomalatestiano.it Pag. 24 di 32 A quel punto si svolgeva l’ulteriore fase, che lo stesso dichiarante, nell’esposto presentato presso i carabinieri il 12/7/11, alle ore 14,16, riferiva essere avvenuto alla presenza dell’operatore addetto allo sportello, al quale aveva esposto la sua intenzione di presentare denuncia contro i suoi due colleghi e, a seguire, avanti al responsabile dell’ufficio di Polizia che “si è rifiutato di prendere la denuncia invitandoci a recarci presso il comando dei carabinieri costringendomi a fare 5 chilometri per recarmi presso il comando” dei carabinieri.27 La dinamica descritta solo nella parte finale, era invero preceduta da condotta assai importante per la ricostruzione corretta dei fatti e che aveva incipit nell’esclusivo comportamento di D’I.. Costui infatti - secondo quanto descritto dal sovrintendente capo OP. Gi. addetto allo sportello dell’ufficio del posto di Polizia in data 12/7/11 con orario fino alle ore 14,00 - si era presentato intorno alle ore 13,30 presso gli uffici non già per presentare denuncia sui fatti accaduti in via D’A., che riteneva e che aveva percepito come ingiusti, ma per vedere se poteva esistere una possibilità di “chiarimento, ovvero, “accomodamento ”28 con i due operatori, avendo riflettuto senza l’istintività reattiva del momento, sui fatti così come si erano sviluppati. 27 Cfr. denuncia D’I. del 12/7/11 ore 14,16 presso la stazione carabinieri Riccione. 28 Cfr. verbale interrogatorio OP. del 7/12/12in affol. 72-75. Va evidenziato, come meglio si dirà in seguito che la posizione di OP., iscritto per il reato ex art. 328 c.p. il PM ha manifestato volontà di richiedere archiviazione. La risposta dei due pubblici ufficiali, mediata dall’intervento del responsabile dell’ufficio - SA.SA. - , affacciatosi nell’ingresso in quanto aveva colto una prolungata conversazione fra un cittadino e il sovrintendente OP. Gi., era stata netta e rigorosa, avendo gli stessi rifiutato ogni ulteriore contatto con D’I. - qualificatosi come loro ex collega in quanto era stato a sua volta un Poliziotto - nei cui confronti stavano terminando di redigere la relazione di servizio. Solo a quel punto D’I., “per la prima volta, dichiarava di voler denunciare gli agenti poiché a suo dire, lo avevano denunciato per il solo fatto che li aveva rimproverati…” esternando la sua volontà ad OP. e al responsabile SA. Nella circostanza, SA. esercitando le funzioni di responsabile, aveva dato indicazioni al sottoposto OP. di non procedere direttamente a ricevere la denuncia, spiegando dettagliatamente a D’I. che “..per imparzialità, trasparenza e onestà professionale e solo e soltanto per queste ragioni sarebbe stato consigliabile sporgere denuncia presso la vicina compagnia carabinieri di Ri.” offrendo di “telefonare il maggiore dei carabinieri per annunciare l’arrivo di D’I.”. Le ragioni date erano condivise da D’I. il quale dichiarava che “non intendeva essere annunciato ed asseriva che si sarebbe subito recato presso la compagnia dei carabinieri di Riccione..”29 Effettivamente alle ore 14,16 dello stesso 12/7/11 D’I. si presentava alla 29 Cfr. verbale interrogatorio OPROMOLLA del 7/12/12 in affol. 72-75. Fascicolo n. 1/2016 www.ilforomalatestiano.it Pag. 25 di 32 stazione dei carabinieri di Ri. presso cui formalizzava denuncia, lamentando sia l’attesa in strada, sotto il sole per un semplice controllo e tanto lunga - “circa mezzora” - da avergli fatto “perdere le cure termali”, sia il rifiuto da parte del responsabile del posto di PS “di prendere la presente denuncia invitandoci a recarci presso il comando carabinieri”. Le doglianze lamentate dal denunciante D’I. Gi. sono state assunte in ipotesi accusatoria nella contestazione formale della fattispecie criminosa di cui all’art. 323 c.p.a carico di DA. DI. e di DO. RO. avendo gli stessi violato il generale dovere di correttezza e lo specifico disposto normativo dell’art. 132 c.p.p. avendo trattenuto D’I. oltre il tempo necessario per la sua identificazione, e nella contestazione delle fattispecie criminose dell’art. 328 c.p. e dell’art. 378 c.p. a carico di SA. SA. (quale responsabile dell’ufficio di PS di Riccione e anche a carico di OP. Gi., addetto allo sportello, per la cui posizione il PM ha esternato volontà di richiedere archiviazione)30. Tutti gli imputati, hanno fornito la loro versione dei fatti, rendendo interrogatori in data 6/11/12 (quanto a DI. e RO.) e in data 7/12/12 (quanto a SA.). In particolare DI. e RO., in modo convergente con la parte iniziale della narrazione del denunciante, hanno contestualizzato l’episodio relativo alla sua identificazione, dopo che costui aveva ripetutamente criticato con toni accesi e offensivi il loro operato, senza 30 Cfr. provvedimento di iscrizione del PM del 31/1/12 in affol. 43. Cfr. provvedimento di separazione con indicazione di richiesta di archiviazione per posizione OP., in affol. 120,121. che ve ne fosse motivo in quanto il parcheggio era stato scelto dopo una attenta valutazione dello stato dei luoghi e delle esigenze di servizio. La ostinata condotta tenuta da D’I. aveva poi determinato i pubblici ufficiali a redigere verbale di identificazione per il prospettato delitto di oltraggio, il cui tempo di stesura era stato determinato dal tempo necessario alla centrale per il rintraccio del nominativo di un difensore d’ufficio. Ricordavano gli agenti che D’I. era stato anche fatto sedere nell’auto in quanto aveva dichiarato di non sentirsi bene31. SA., a sua volta ha precisato che a seguito della richiesta fattagli da D’I. - presentatosi come “pensionato della Polizia di Stato” - di trovare “una soluzione bonaria al grave problema che si era creato tra lui e gli operatori di Polizia”, aveva interpellato DÌ. e RO. sulla loro disponibilità ad incontrare D’I. La indisponibilità mostrata, comunicata a D’I., aveva fatto sì che costui, all’improvviso esprimesse la volontà di denunciare i due pubblici ufficiali. Ciò che SA. si era limitato a fare, quale responsabile dell’ufficio, era stato quello di “consigliarlo a sporgere la sua denuncia presso un ufficio di Polizia terzo, o meglio presso la vicina compagnia carabinieri di Ri, tant’è che io mi rendevo disponibile a contattare telefonicamente il maggiore.. per annunciare il suo arrivo…D’I. affermava che non era necessario annunciarlo in quanto si sarebbe recato personalmente”.32 31 Cfr. interrogatorio DI. del 6/11/12 affol. 105. 32 Cfr. interrogatorio SA. del 7/12/12 affol. 79. Fascicolo n. 1/2016 www.ilforomalatestiano.it Pag. 26 di 32 In merito alla condotta tenuta dai pubblici ufficiali DI. e RO. così come sopra ricostruita, deve apprezzarsi come la stessa non integri l’elemento materiale del delitto di cui all’art. 323 c.p. Secondo lo schema normativo delineato a seguito delle intervenute modifiche apportate alla fattispecie in esame va innanzitutto evidenziato come la configurabilità della condotta materiale sia unicamente ancorata a un comportamento violativo “di norme di legge o di regolamenti”, ovvero di inosservanza del dovere di astensione in presenza di un interesse proprio o di un prossimo congiunto 33. D’altra parte, l’uso tecnico della locuzione “violazione di norme di legge” cui fa riferimento l’art. 323 c.p., assume significato diverso rispetto alla locuzione “violazione di legge” usata invece all’art. 2 L.6/12/1974 n. 1034 (istitutiva dei giudizi amministrativi), con la conseguenza che in un sistema di rigidi principi di tassatività e di riserva di legge (propri del diritto penale sostanziale) la locuzione usata all’art. 323 c.p. - che secondo il dato testuale fa riferimento al meccanismo generale delle fonti del diritto34 - non 33 E’ noto infatti che nel sistema previgente alla riforma introdotta con L. L.234/97 qualora la condotta si estrinsecasse nell’adozione di provvedimenti amministrativi illegittimi, assumevano rilievo tutti i tradizionali vizi dell’atto, ossia la violazione di legge, l’incompetenza e l’eccesso di potere. Nell’attuale sistema invece rilevano solo la violazione di norme di legge o di regolamento e l’inosservanza del dovere di astensione in presenza di un interesse proprio o di un prossimo congiunto ovvero negli altri casi prescritti (in tal senso cfr. ex plurimis, Cass. Sez. VI, 16/12/2002 n. 1761. 34 Fra dette fonti devono intendersi naturalmente ricomprese anche quelle che disciplinano l’ufficio cui fa parte il pubblico ufficiale, valendo per la P.A il principio di cd. riserva di legge rinforzata, nel senso può essere interpretata in senso estensivo ovvero analogico secondo la diversa accezione di “violazione di legge” intesa come vizio di legittimità proprio del diritto amministrativo (cui fa riferimento appunto l’art. 2 citato. Né vi è motivo di ritenere che il legislatore abbia fatto un uso improprio della locuzione trasfusa all’art. 323 c.p. volendo invece intendere quella di “vizio di legittimità). Né può sottacersi la radicale modifica introdotta dalla riformulazione del fatto tipico laddove l’originario fine di avvantaggiare o danneggiare, rigorosamente circoscritto entro i confini dell’elemento soggettivo, che la PA deve operare non solo secondo le forme, le procedure e i requisiti normativamente richiesti, ma anche nel rispetto del presupposto stesso per il quale il potere è conferito vigendo in materia il vincolo di tipicità e legalità funzionale. Ciò comporta in coerenza con il sistema che il potere esercitato per un fine diverso da quello previsto per legge, si pone fuori dallo schema di legalità e rappresenta nella sua oggettività offesa all’interesse tutelato, potendo così integrare l’elemento materiale del delitto di cui all’art. 323 c.p. In tal senso dunque si pone il costante orientamento giurisprudenziale che ravvisa nel comportamento di sivamento di potere ipotesi penalmente rilevante. In senso conforme Cass. Sez. VI, 10/12/01, BOCCHIOTTI. E più di recente anche Cass. Sez. VI, 18/10/12 n. 43789 ove la Corte ribadisce che:”in tema d’abuso d’ufficio, la violazione di legge cui fa riferimento l’art. 323 c.p. riguarda non solo la condotta del pubblico ufficiale in contrasto con le norme che regolano l’esercizio del potere, ma anche le condotte che siano dirette alla realizzazione di un interesse collidente con quello per il quale il potere è conferito, ponendo in essere un vero e proprio sviamento della funzione”. Conforme anche Cass. Sez. VI. 13/3/14 n. 32237: ” Il delitto di abuso d'ufficio è configurabile non solo quando la condotta si ponga in contrasto con il significato letterale o logicosistematico di una norma di legge o di regolamento, ma anche quando la stessa contraddica lo specifico fine perseguito dalla norma, concretandosi in uno "svolgimento della funzione o del servizio" che oltrepassi ogni possibile scelta discrezionale attribuita al pubblico ufficiale o all'incaricato di pubblico servizio”. Fascicolo n. 1/2016 www.ilforomalatestiano.it Pag. 27 di 32 richiesto in forma di dolo specifico con assoluta indifferenza se il soggetto sia riuscito o meno a realizzare lo scopo, è stato trasferito sul piano oggettivo, trasformando il reato di abuso d’ufficio da reato di pericolo a reato di evento, con la conseguente, necessaria, produzione di un effettivo vantaggio patrimoniale o di un danno ingiusto35. In modo puntuale, si è precisato, come secondo il modificato schema normativo il reato di abuso d’ufficio “debba considerarsi come reato causalmente orientato”, nel senso che deve esistere “un nesso di derivazione causale o concausale fra violazione di legge o di regolamento ed evento”.36 Ciò a significare cioè che la semplice esistenza di una condotta non iure dell’agente non è in sé idonea a integrare la fattispecie, poiché è necessario che attraverso un tale comportamento si sia raggiunto un risultato contra ius, che potrà tradursi sia in un vantaggio - la cui necessaria natura patrimoniale è di pacifica accettazione37 - sia un danno ingiusto - 35 In modo chiaro la Suprema Corte ha precisato che: “La nuova formulazione dell'art. 323 c.p., introdotta con la l. 17 luglio 1997, n. 234, ha meglio definito la condotta tipica del pubblico ufficiale, sostituendo la generica formula "abusa del suo ufficio" con la descrizione di un comportamento non più a forma libera, ma vincolata, consistente nella violazione di norme di legge o di regolamento, oppure nella violazione del dovere di astensione, e ha anche trasformato il delitto da reato di mera azione in reato di azione e di evento, giacché elemento essenziale della fattispecie materiale non è più soltanto la condotta illegittima del pubblico ufficiale integrante l'abuso, ma altresì l'ingiusto vantaggio patrimoniale che quella condotta procura o l'ingiusto danno che essa arreca”(cfr. Cass. Sez.VI, 27/04/1998, n. 6561). 36 In tal senso Cass. Sez. VI, 4/03/99 Jacovacci. 37 Dottrina e giurisprudenza sono concordi nel ritenere che il vantaggio, dopo la riforma del 1997, debba avere natura patrimoniale, pur con condivisibile individuazione, in senso ampio, del suo contenuto, la cui natura potrà viceversa essere sia patrimoniale che non patrimoniale - . Con chiara formula di sintesi la giurisprudenza di legittimità ha così affermato che a seguito della nuova riformulazione del reato di abuso d’ufficio, proprio perché l’ingiustizia del danno o del vantaggio è intesa a definire il risultato effettivo dell’azione, i due “elementi della illegittimità della condotta (concretantesi in una condotta in violazione di legge o di regolamento) e della ingiustizia dell’atto sono distinti e soggetti ad autonoma e distinta valutazione”. In altri termini, si è affermato che “ai fini dell’integrazione del reato di abuso d’ufficio, è necessario che sussista la cd. doppia ingiustizia, nel senso che ingiusta deve essere la condotta in quanto connotata da violazione di legge o di regolamento ed ingiusto deve essere l’evento di vantaggio patrimoniale, in quanto non spettante in base al diritto oggettivo che disciplina la materia”.38 L’ingiustizia collegato cioè al “complesso dei rapporti giuridici a carattere patrimoniale, e dunque non solo limitato alle ipotesi in cui vi sia una accrescimento di beni patrimoniali ma a qualsiasi situazione in cui vi sia un accrescimento della situazione giuridica a faovre id colui nel cui interesse l’atto è stato posto in essere”(cfr. Cass.Sez. VI, 14/06/07 n.37521). 38 Cfr. Cass. Sez. VI, 26/11/02 n. 62 e conforme, Cass. Sez. VI, 27/07/06 n. 35381. In applicazione di detto principio dunque non costituisce abuso d’ufficio la condotta del pubblico ufficiale che seppure abbia utilizzato un mezzo illegittimo, non abbia tuttavia perseguito un risultato di per sé ingiusto. Si è in sostanza affermato che nella struttura del reato è stato introdotto il requisito della doppia ingiustizia, nel senso che deve essere contra legem non solo la condotta ma anche il fine perseguito, così che il reato non esiste quando, pur essendo illegittimo il mezzo impiegato, il fine di danno o di vantaggio non sia di per sé ingiusto. Tale interpretazione, deriverebbe, secondo detta giurisprudenza, sia dal tenore letterale della norma, che Fascicolo n. 1/2016 www.ilforomalatestiano.it Pag. 28 di 32 del vantaggio poi, va valutata con riferimento alla situazione esistente all’epoca della condotta (e non già con un giudizio ex post e sulla base di eventuali novum intervenuti in un momento successivo), e ciò in conformità alla ratio della norma che è indirizzata a garantire la corretta applicazione della legge al momento delle scelte discrezionali del soggetto che esercita pubbliche funzioni. Alla luce dei rammentati interventi normativi che hanno ridisegnato il precetto dell’art. 323 c.p. non è dato scorgere, nel caso concreto, alcuna “doppia ingiustizia”, in quanto la condotta tenuta dai due pubblici ufficiali non è connotata né da illegittimità nè da ingiustizia. Se infatti si vuole assumere che la condotta tenuta dai due imputati al momento dell’identificazione dell’esponente D’I. sia stata violativa dell’art. 132 c.p.p. o più in generale dei doveri di correttezza, le prove acquisite fa riferimento in modo separato all’abusività della condotta e all’ingiustizia del fine, sia dalla ratio della norma che tende a sottrarre alla sanzione penale quelle ipotesi in cui, sia pure attraverso un comportamento materiale formalmente illegittimo, si persegua un fine di per sé legittimo (cfr. Cass. Sez. VI, 27/10/09 n.47978 in tema di omessa astensione di un vice procuratore onorario che aveva in precedenza svolto funzioni di difensore dell’imputato). Di recente e testualmente Cass. Sez. VI, 14/12/12 n. 1733, ove si precisa che l’elemento materiale si sostanzia in una cd.” doppia e autonoma ingiustizia, sia della condotta la quale deve essere connotata da violazione di legge, che dell'evento di vantaggio patrimoniale in quanto non spettante in base al diritto oggettivo, con la conseguente necessità di una duplice distinta valutazione in proposito. (Nella specie, la Corte ha confermato la condanna di un assessore comunale che aveva votato, disattendendo l'obbligo di astenersi, una delibera di giunta concernente l'erogazione, a favore di un'associazione presieduta da un familiare, di un contributo superiore al limite previsto dal regolamento comunale). sono tutte di segno contrario ed anzi evidenziano una correttezza, trasparenza e serietà di operato ineccepibili. Muovendo infatti dai riscontri probatori in atti, va innanzitutto escluso che la condotta tenuta dai pubblici ufficiali DI. e RO. sia stata violativa delle regole di cui all’art. 132 c.p.p. essendosi verificata al di fuori di un contesto impositivo di accompagnamento coatto disposto con provvedimento giudiziario. Né risulta che la stessa sia stata violativa del più generale dovere di correttezza, avendo i due imputati proceduto in conformità al disposto dell’art. 349 c.p.p. all’identificazione di persona indagata per il delitto di oltraggio a pubblico ufficiale (già alla stessa reso noto tanto che la coniuge CO., intervenendo pro reo, aveva invitato i pubblici ufficiali ad una “maggiore elasticità” nell’interpretare il comportamento tenuto nei loro confronti dal marito, e forse frutto di reciproco malinteso). I tempi tecnici di redazione del verbale di identificazione - iniziato alle ore 11,15 così come è riportato sull’atto stesso - e indicati in ipotesi d’accusa come profilo di violazione del dovere di correttezza poiché si erano dilatati ingiustificatamente per “40/50 minuti” secondo l’affermazione fatta dallo stesso D’I., erano in realtà stati contenuti entro i 25 minuti e ampiamente giustificati da difficoltà obiettive, estranee ad ogni profilo di ingiusta e illegittima condotta degli agenti di PS. In sede di stesura infatti, D’I., invitato a nominare un difensore non vi Fascicolo n. 1/2016 www.ilforomalatestiano.it Pag. 29 di 32 provvedeva, così che gli agenti, alle ore 11,27 effettuavano chiamata alla centrale operativa, sia per gli ordinari controlli in banche dati sull’identità del soggetto, sia per avere il nominativo di un legale iscritto nelle liste dei difensori d’ufficio e di turno quel giorno. Il dato temporale, risultante dalla registrazione presso la centrale operativa è stato riversato su CD e trascritto, unitamente a tutta la conversazione avvenuta fra l’operatore e uno dei due imputati (non emergendo in modo chiaro neppure dagli interrogatori chi dei due abbia materialmente effettuato la chiamata). Se dunque seguendo il percorso logico del PM l’atto di identificazione avrebbe richiesto un tempo ragionevole stimato in 5 minuti, fino a quel momento i tempi potevano essere ancora accettabili. Ma certo è che da quel momento e fino alle ore 11,36.40 - ossia per ulteriori 9 minuti - l’attesa di D’I. non è certo ascrivibile ad un voluto, ingiustificato e malevolo comportamento degli imputati, ma ad esclusive tempistiche di comunicazione dei dati dalla centrale. E’ provato dalla trascrizione della registrazione in atti come i pubblici ufficiali, in costante e continuo contatto con la centrale, abbiano fornito i dati di D’I. per i controlli, abbiano poi richiesto il nominativo di un difensore d’ufficio - ore 11,29 - abbiano ulteriormente riconfermato i dati all’operatore che glieli richiedeva - ore 11,31 - e infine alle ore 11,36.40 abbiano ricevuto il nominativo dell’avv. Et. Co. quale difensore d’ufficio, chiudendo subito dopo la comunicazione. Né risulta in atti che i pubblici ufficiali abbiano tenuto verso l’esponente una condotta persecutoria e vessatoria, adottando adeguate misure di ristoro verso l’esponente che dichiarava di sentirsi male, né emergendo una condizione di luoghi tale da richiedere particolari e ulteriori premure –dai rilievi fotografici in atti risulta infatti che la pista ciclabile è in gran parte ombreggiata da alberi ad alto fusto (tanto che a pochi metri vi è anche fermata di autobus di linea senza tettoia di protezione39). Se poi si intende porre in evidenza che gli imputati hanno causato un danno ingiusto a D’I. facendogli perdere/ritardare la effettuazione delle cure termali, ciò appare un mero dicit - non essendovi in atti prova alcuna in tal senso poiché non è stato indicato neppure da D’I. se lo stesso avesse una prenotazione ad orario fisso delle cure e se il tempo impiegato a causa di quel controllo abbia comportato solo uno “slittamento” del turno di fruizione ovvero una perdita della prestazione - . E d’altra parte lo stesso D’I., in sede di denuncia presentata ai carabinieri lo stesso 12/7/11 ore 14,16 ha meglio precisato tale circostanza, puntualizzando invece, a chiusura dell’atto, di essere stato “vittima di omissione o rifiuto di atti d’ufficio”, mostrando così di voler in modo particolare censurare la condotta avvenuta presso l’ufficio di PS. Invero la volontà di presentare denuncia esternata da D’I. solo dopo il diniego del richiesto “tavolo di 39 Cfr. n. 4 fotografie ad affol. 29, 30. Fascicolo n. 1/2016 www.ilforomalatestiano.it Pag. 30 di 32 concertazione” appare essere l’epilogo impulsivo e di reazione “difensiva anticipata” opposto da costui a quella denuncia ormai irretrattabile che i due pubblici ufficiali avevano già stilato e che secondo canoni di irreprensibilità li portava perciò a non accettare contraddittorio con l’indagato su un fatto reato che solo l’autorità giudiziaria era legittimata, da quel momento, a vagliare nella sua fondatezza. Anche per le condotte tenute dall’imputato SA. SA. e diversamente qualificate come rifiuto di atti di ufficio e favoreggiamento personale, se ne rileva l’inesistenza dell’elemento materiale. Il rifiuto di redigere “verbale di denuncia orale ..relative ai fatti di cui al capo che precede, atto che doveva essere compiuto per motivi di giustizia senza ritardo” enunciato come nucleo essenziale nell’assunto accusatorio, è smentito dai dati probatori e in primo luogo dalla stessa descrizione fatta, in sede di prima denuncia, dall’esponente D’I., il quale con assoluta onestà ha precisato che il responsabile lo aveva “invitato a recarsi presso il comando dei carabinieri”. Solo in successiva dichiarazione del 23/9/11 D’I. aggiungeva che il responsabile, dopo che gli era stato fatto notare che “comunque anche oralmente avevo denunciato l’accaduto” gli rispondeva che “lui non aveva sentito nulla e mi invitava a rivolgermi ai carabinieri”. L’inattendibilità del particolare aggiunto è reso palese da quanto viceversa narrato da PO. Fr., coniuge dell’esponente la quale, descrivendo lo stesso momento, ha riferito che il responsabile e l’altro Poliziotto le dicevano che “non potevano raccogliere la denuncia perché riguardava personale alle loro dipendenze e invitavano a recarsi per la denuncia dai carabinieri, indicandoci, a richiesta, la strada”, senza alcun cenno ad un rifiuto, da parte del responsabile, di verbalizzare quanto denunciato oralmente dal coniuge. A meglio chiarire il contenuto effettivo di quel diniego opposto dal responsabile ad assumere la denuncia di D’I., invitandolo a rivolgersi alla stazione dei carabinieri, così vicina che già dopo pochi minuti, ossia alle ore 14,16 veniva redatta la denuncia (non dimenticando che D’I. era entrato presso il posto di Polizia verso le 13,30 e lì si era dipanata tutta la vicenda in esame), è la dettagliata versione resa dal sovr. Capo OP. Gi.. Il dichiarante, assunto ai sensi dell’art. 64 c.p.p. - poiché originariamente coindagato per i medesimi fatti ascritti all’imputato SA. - ha esso stesso puntualizzato che “insieme al sost. Comm. SA. avevano solo prospettato e consigliato a D’I. i motivi di opportunità, trasparenza e imparzialità nella vicenda, ragioni apparentemente condivise dall’uomo e di averlo solo consigliato di denunciare presso un ufficio terzo, ma di non voler omettere, o tantomeno favorire alcuno,…significando che da parte dello stesso non sono state fatte insistenze nella ricezione dell’atto di denuncia, ma solo condivisione nel suggerimento, poi accolto e che la sola e unica e iniziale ragione per la quale Fascicolo n. 1/2016 www.ilforomalatestiano.it Pag. 31 di 32 D’I. era venuto presso l’ufficio.. era quella di conoscere i nomi degli agenti e che a seguito del loro diniego ad incontrarlo, aveva espresso la volontà di sporgere denuncia nei loro confronti”. La modalità di esternazione della condotta tenuta da SA., esattamente percepita nell’immediatezza da D’I. nella sua unica e reale portata di garantire il buon andamento e la trasparenza nell’esercizio della funzione istituzionale e di tutelare il diritto di difesa del denunciante (invitato a rapportarsi con personale di altro ufficio), non solo risponde a quelle prassi di imparzialità e di irreprensibilità connaturali all’immagine di “buona amministrazione”, ma non integra alcun “indebito rifiuto” per la mancanza di una connotazione contra ius di quel diniego di adempimento che trova plausibile giustificazione nella specifica tutela proprio dell’esponente ad esercitare nella sua maggior ampiezza le proprie facoltà difensive40. Alla carenza di una condotta connotata da rifiuto indebito, deve poi aggiungersi la mancanza di una indifferibilità dell’atto. Secondo condivisibile indirizzo giurisprudenziale “ai fini della configurazione del reato di rifiuto di atti di ufficio (art. 328 cod. pen.), l'indifferibilità deve essere accertata in base all'esigenza di garantire il perseguimento dello scopo cui l' atto è preordinato ed agli effetti al medesimo concretamente ricollegabili, con la conseguenza che l'assenza di termini di legge espliciti o la previsione di termini 40 Cfr. in tal senso, Cass. Sez. VI, 9/8/2000 n. 8949. meramente ordinatori non esclude il dovere di compiere l'atto in un ristretto margine temporale quando ciò sia necessario per evitare un sostanziale aumento del rischio per gli interessi tutelati dalla norma incriminatrice” 41. In altri termini ciò a significare che la norma incriminatrice non sanziona penalmente la generica inerzia o la scarsa sensibilità istituzionale del pubblico ufficiale, ma un rifiuto consapevole di atti da adottarsi senza ritardo per la tutela di beni o interessi pubblici, così che la natura indebita del rifiuto costituisce un elemento strutturale della fattispecie criminosa. Con l’ulteriore annotazione che gli atti che il pubblico ufficiale o l'incaricato di pubblico servizio deve compiere senza ritardo non sono quelli genericamente correlati a ragioni di giustizia o di sicurezza pubblica o di ordine pubblico o di igiene e sanità, ma solo quegli atti che, per dette ragioni, devono essere "immediatamente" posti in essere. “L'art. 328 co. 1 c.p., non punisce la generica negligenza del pubblico ufficiale, ma il "rifiuto consapevole" di specifici atti o interventi amministrativi da adottarsi senza ritardo per la tutela di beni e interessi pubblici connessi alle peculiari funzioni degli agenti. Con la conseguenza che il "rifiuto" può emergere, oltre che da una esplicita richiesta, anche da una evidente sopravvenienza di situazioni che richiedano oggettivamente un intervento, sicché - di fronte ad una "urgenza sostanziale" indotta da dati oggettivi portati a conoscenza del 41 Così testualmente Cass. Sez. VI. 20/11/2012 n. 47531. Fascicolo n. 1/2016 www.ilforomalatestiano.it Pag. 32 di 32 pubblico ufficiale - la "inerzia omissiva" dello stesso assume "intrinseca valenza di rifiuto" idonea ad integrare il reato”42. Nulla di ciò ha caratterizzato la situazione entro la quale si è realizzata la condotta tenuta da SA. SA., attesa l’inesistenza di un possibile incremento di rischio per la tutela dell’interesse garantito dalla norma e la contestuale assenza di dati oggettivi che rivelassero una situazione di urgenza sostanziale tale da rendere indifferibile ricevere quella denuncia (non vi erano infatti dati che palesassero dispersioni o modifiche delle tracce o cose pertinenti al reato che si intendeva denunciare né tanto meno che vi fosse necessità di adottare vincoli precautelari ai sensi degli artt. 380, 381 e 384 c.p.p.). La condotta tenuta dall’imputato SA. SA. si presenta infine carente di quella peculiare connotazione elusiva che integra la fattispecie criminosa di favoreggiamento personale ascrittagli al capo C). Per stessa esplicita ammissione dell’esponente D’I. infatti, emerge come l’imputato, ben lungi dall’adottare qualunque comportamento fuorviante ovvero di intralcio o ritardo alle indagini, così da creare un effettivo turbamento alla funzione giudiziaria, ne abbia 42 Così testualmente, Cass. Sez. VI 9/04-9/12/2014, n. 51149. In senso conforme anche Cass. 5/11/2014 n. 45884 ove si ribadisce che: “Il rifiuto di un atto d'ufficio, invero, si verifica non solo a fronte di una richiesta o di un ordine, ma anche quando sussista un'urgenza sostanziale, impositiva del compimento dell'atto, in modo tale che l'inerzia del pubblico ufficiale assuma, per l'appunto, la valenza del consapevole rifiuto dell'atto medesimo (Sez. VI, 07/01- 08/02/2010 n. 4995, Rv. 246081)”. sollecitato viceversa un efficace e trasparente esercizio per il tramite dei carabinieri, senza che da ciò sia derivato alcun maggior impegno investigativo43. La carenza dell’elemento materiale importa dunque pronuncia assolutoria anche per tale fattispecie. PER QUESTI MOTIVI Visti gli articoli 442 e 530 c.p.p. Assolve SA.SA., DI. DA., RO.DO. dai delitti a ciascuno rispettivamente ascritti perché il fatto non sussiste. Visto l’art. 544 comma 3 c.p.p. indica in giorni novanta il termine per il deposito della motivazione. Rimini, così deciso il 3 ottobre 2014. Il Giudice Dott. Fiorella Casadei
 

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Il presente elaborato ha l’intenzione di analizzare brevemente la fattispecie di reato prevista all’art. 609-quater C.p. per soffermarsi in modo particolare sull’attenuante prevista al quarto comma. In questo breve percorso verranno riportati elementi di dottrina, di giurisprudenza di legittimità e di giurisprudenza delle Corti di merito con riferimento anche ad una recente pronuncia del Tribunale di Rimini. ANALISI DELL’ART. 609-QUATER C.P. La vasta materia dei reati sessuali è stata riformata dalla Legge n° 66, “Norme contro la violenza sessuale, emanata in data 15 febbraio 1996, composta da 17 articoli. E’ stato un approdo particolarmente lungo e travagliato poiché i primi interventi di riforma sono cominciati nel 1979, vi è stata una proposta popolare del 1980 sottoscritta da circa 300.000 cittadini, successivamente un progetto di legge è stato avviato nel 1987, ed infine si è giunti nel 1995 ad una nuova proposta di legge avanzata da 67 deputati facenti parte di tutti i gruppi parlamentari.1 Questo intervento legislativo ha cambiato radicalmente i reati contro la libertà sessuale che, precedentemente, trovavano collocazione negli articoli dal 519 al 526 C.p. e nell’art. 530 C.p., spostandone la collocazione all’interno dei delitti contro la libertà personale, sezione II capo III del Codice Penale; le fattispecie di violenza carnale e di atti di libidine sono stati inseriti nella nozione di atti sessuali (peraltro carente di tassatività) e vi è stato un inasprimento di pene con generale aumento del minimo edittale.2 L’art. 2 della Legge di riforma ha introdotto quattro nuove fattispecie incriminatrici tra cui quella prevista 1 Mazza, Sul filo del diritto, Anno 1, N.2 – Giugno 2010. 2 Del Papa, Violenza sessuale su minore, fine ludico, attenuanti di minore gravità, Famiglia e dir., 2001, 5, 510. ATTI SESSUALI CON MINORENNE ED ATTENUANTE DEI CASI DI MINORE GRAVITÀ Giordano Fabbri Varliero Fascicolo n. 1/2016 www.ilforomalatestiano.it Pag. 2 di 6 all’art. 609-quater, rubricato come “atti sessuali con minorenne”, norma prevista a specifica tutela della libertà sessuale del minore e, in particolare, del normale e armonico sviluppo della sua personalità nella sfera sessuale.3 Il primo comma dell’art. 609- quater prevede la stessa pena indicata per la violenza sessuale, reclusione da cinque a dieci anni, per colui che compia atti sessuali con persona che al momento del fatto non ha compiuto ancora quattordici anni, oppure non ne abbia ancora compiuti sedici, qualora l’autore del reato sia ascendente o genitore della vittima, o vi sia comunque legato da una relazione di convivenza o per ragioni di cura, educazione, istruzione, vigilanza o custodia. Il secondo comma prevede la reclusione da tre a sei anni per l’ascendente, il genitore, o il di lui convivente, che, con abuso dei poteri connessi alla loro posizione, abbiano rapporti sessuali con minorenne che ha già compiuto i sedici anni di età. Al terzo comma si prevede una causa di non punibilità per gli atti sessuali commessi fra minorenni consenzienti indicando che, laddove la differenza di età non sia superiore a tre anni, non è punibile colui che abbia commesso atti sessuali con minorenne maggiore degli anni tredici. 3 Lembo, Cianciala, I reati contro le donne e i minori, Giuffrè Editore, 2012. Il quarto comma indica che “Nei casi di minore gravità la pena è diminuita in misura non eccedente i due terzi”. Si tratta di una circostanza attenuante speciale ad effetto speciale, analoga a quella indicata al terzo comma dell’articolo 609-bis C.p. Il quinto comma, infine, stabilisce la medesima pena indicata dal secondo comma dell’art. 609-ter, ossia la reclusione da sette a quattordici anni, nel caso in cui la persona offesa non abbia ancora compiuto gli anni dieci. Si tratta di un reato comune, potendo essere commesso da chiunque, al di fuori del caso previsto dal secondo comma o nel caso in cui la vittima abbia età compresa tra i quattordici e i sedici anni, casi in cui si tratta di reato proprio con specifica indicazione delle categorie di soggetti. La condotta punita si ravvisa nel mero compimento di atti sessuali con minorenne, e l’elemento soggettivo richiesto dalla norma è ravvisabile nel dolo generico. Di particolare interesse è la disciplina dell’errore poiché, come indicato dalla dottrina, mentre nel caso di minore infraquattordicenne il colpevole non può invocare a propria scusa l’ignoranza dell’età della persona offesa, nel caso di minore infrasedicenne il dolo deve abbracciare anche l’età del soggetto passivo, portando pertanto ad escludere l’elemento soggettivo qualora il Fascicolo n. 1/2016 www.ilforomalatestiano.it Pag. 3 di 6 soggetto agente reputi erroneamente che il minore abbia compiuto i sedici anni di età. CIRCOSTANZA ATTENUANTE EX ART. 609-QUATER, COMMA IV E GIURISPRUDENZA DI LEGITTIMITÀ I lavori preparatori della Riforma del 1996 hanno sottolineato l’importanza di non aver più come riferimento principale la qualità dell’atto compiuto, spostando l’attenzione sulla quantità di violenza e sul grado di coartazione esercitati sulla vittima in modo da evidenziare la compressione della libertà sessuale ed il danno subito dalla persona offesa in termini fisici e psichici.4 Non è possibile indicare a priori una categoria generale alla quale ricondurre i casi di minore gravità, l’individuazione di queste situazioni è rimessa alla discrezionalità del Giudice di merito che, di volta in volta, sarà chiamato a valutare gli elementi di fatto al fine di applicare o meno tale circostanza.5 E la minore gravità non è neppure automaticamente ravvisabile in tutti quei casi di lieve compromissione della libertà sessuale della vittima.6 4 Foladore, L’ipotesi di “minore gravità” nella violenza sessuale, Dir. pen. proc., 2001, 1, 71. 5 Ariolli, Gargiulo, Maiorano, Mazzi, Mulliri, I delitti contro la persona, i delitti contro la libertà individuale, Libro II, Artt. 600-623-bis, in Codice Penale, Rassegna di Giurisprudenza e Dottrina, a cura di Lattanzi e Lupo, Giuffré Editore, 2010. 6 Cass. Pen., Sez. III, 3 ottobre 2006, n. 38112. Sicuramente non è possibile identificare l’attenuante con l’intensità del consenso posto dal minore, e non si può nemmeno negarne la sussistenza solo in presenza della minore età; allo stesso modo è ormai pacifico escludere che il discrimine della minore gravità sia costituito dalla penetrazione o dalla qualità del consenso.7 Anche la particolare disponibilità e spigliatezza del minore e la sua apparente maturità psico-fisica non son state ritenute circostanze sufficienti alla concessione dell’attenuante della minore gravità, possono solo rilevare ai fini della concessione delle circostanze attenuanti generiche.8 Lo stesso vale per la verginità o meno della vittima e la frequenza dei suoi rapporti sessuali pregressi, circostanze che non possono da sole incidere positivamente o negativamente sull’attenuante della minore gravità, dovendo la stessa essere valutata dal Giudice secondo i parametri previsti dall’art. 133 C.p.9 Pertanto, non essendovi specifiche situazioni nella quali può dirsi applicabile l’attenuante in esame, la valutazione circa la sua applicabilità è rimessa alla discrezionalità del Giudice il quale si atterrà ai criteri dell’appena citato art. 133 C.p. 7 Pittaro, Inapplicabile l’attenuante della minore gravità in ipotesi di atti sessuali con minorenne consenziente e particolarmente disinibito, Famiglia e dir., 2007, 4, 363. 8 Burzi, Nota in tema di atti sessuali con minorenne, Giur. it., 2008, 1. 9 Pittaro, Atti sessuali con minorenne consenziente e non vergine: tanto rumore per nulla?, Famiglia e Diritto, 2006, 2, 185. Fascicolo n. 1/2016 www.ilforomalatestiano.it Pag. 4 di 6 La giurisprudenza si è più volte espressa nel senso della possibile utilizzabilità dei criteri presenti in entrambi i commi. La dottrina invece è discorde in quanto un primo orientamento ritiene che non possano essere utilizzati come parametri la capacità a delinquere ed eventuali precedenti penali, mentre è possibile tenere in considerazione la condotta contemporanea o susseguente al reato10; un secondo orientamento ritiene utilizzabili sia i criteri presenti al primo comma che quelli presenti al secondo comma in quanto il testo della norma fa riferimento a “casi di minor gravità” e non di “minor gravità del fatto”, lasciando pertanto possibile l’uso tanto dei criteri oggettivi quanto di quelli soggettivi presenti all’art. 133 C.p.11 Tuttavia al momento della valutazione della circostanza attenuante non si può escluderne la sussistenza sulla base della presenza degli elementi costitutivi della fattispecie criminosa, è invece necessario prendere in considerazione ogni caratteristica oggettiva e soggettiva del fatto che possa mostrare la minore lesività con riferimento al bene giuridico tutelato dalla norma.12 10 Foladore, Verginità della vittima ed attenuante di “minore gravità”, Dir. pen. proc., 2006, 7, 888; 11 Goisis, Violenza sessuale e attenuante dei casi di minor gravità: gli incerti confini dell’elemento circostanziale, Giur. it., 2015, 4, 984. 12 Cass. Pen., Sez IV, 12 dicembre 2014, n. 3284. Tra gli elementi da tenere in considerazione non rientra il consenso della vittima in quanto esso presenta un vizio radicale inerente la manifestazione di volontà proprio in ragione del fatto che il soggetto minore di anni quattordici è da considerare in uno stato di intangibilità sessuale e incapace di prestare un valido consenso.13 Una definizione generale della circostanza attenuante prevista al quarto comma dell’art. 609-quater C.p. è stata fornita dalla Corte di legittimità laddove, nel negarne la sussistenza in un caso ove la presenza di rapporti orali avevano provocato alla vittima sensazioni molto dolorose, ha affermato che tale circostanza deve applicarsi a tutti quei casi ove la libertà sessuale personale della vittima sia stata compressa in maniera non grave.14 In conclusione è possibile affermare che l’orientamento prevalente in merito alla concessione dell’attenuante speciale dei casi di minore gravità indica la necessità di una valutazione globale da parte del Giudice che tenga conto tanto dei criteri oggettivi che di quelli soggettivi, in relazione altresì alla ratio della norma, al grado di coartazione esercitato sulla vittima, alle condizioni fisiche e mentali di quest’ultima, alle caratteristiche fisiche e psicologiche in relazione all’età, all’entità della 13 Cass. Pen., Sez. III, 30 settembre 2014, n. 6168. 14 Cass. Pen., Sez. IV, 12 aprile 2013, n. 18662. Fascicolo n. 1/2016 www.ilforomalatestiano.it Pag. 5 di 6 compressione della libertà sessuale e al danno arrecato anche in termini psichici.15 Ne discende che la tipologia di atto sessuale posto in essere non assume rilevanza determinante ma rimane solo come uno degli elementi da valutare.16 PRONUNCE DI MERITO Sempre in tema di elementi da tenere in considerazione ai fini della valutazione dell’applicabilità della circostanza attenuante in esame si è espresso il Tribunale di Napoli, in ossequio all’orientamento dominante, indicando come la valutazione della lieve compromissione della libertà sessuale della vittima non possa prescindere da una valutazione globale del fatto, pertanto non limitandosi alle sole componenti oggettive del reato, ma estendendosi anche a quelle soggettive. Devono inoltre esser tenuti in considerazione anche i mezzi, le modalità esecutive e le circostanze dell’azione. Ed infine devono essere valutati tutti gli elementi che l’art. 133 C.p. prevede per la valutazione da parte del Giudice della gravità del reato e della capacità a delinquere del colpevole.17 Si dovranno pertanto tenere in considerazione anche ai fini dell’art. 609-quater tutte le modalità dell’azione a partire da natura, specie, mezzi, oggetto e tempo; sarà necessario valutare tanto la gravità del danno o del 15 Cass. Pen., 13 novembre 2007, n. 4564. 16 Cass. Pen., 5 febbraio 2009, n. 10085. 17 Uff. Indagini Preliminari Napoli, Sez. XIII, 7 maggio 2013, n. 1055. pericolo cagionato alla persona offesa, quanto l’intensità del dolo; e sarà necessario altresì valutare i precedenti penali e giudiziari, la condotta di vita del reo e le sue condizioni di vita individuale, familiare e sociale, e la condotta contemporanea e susseguente al reato. Di considerevole importanza è stata una pronuncia del Tribunale di Vicenza che nell’anno 2008 ha riconosciuto l’applicabilità dell’attenuante in esame al caso di un minore consenziente ed in una vera e propria relazione d’amore con l’Imputato. La Corte territoriale ha descritto i caratteri di tale relazione sottolineando come la stessa debba essere particolarmente intensa, e debba esprimersi con modalità così gentili, tenere e delicate da ridurre il danno del reato ed arrivare a costituire per il minore un’esperienza umana edificante.18 Nel caso di specie l’ipotesi di minore gravità è stata riconosciuta sul versante soggettivo dell’Imputato, il quale era coinvolto in un vero e proprio sentimento d’amore con la persona offesa. Secondo il Tribunale di Vicenza, il coinvolgimento sentimentale non avrebbe avuto risvolti solamente sulla condotta e sull’intensità del dolo, ma avrebbe propriamente attenuato il danno causato dal reato. Da questa pronuncia appare chiaro come la valutazione 18 Trib. Vicenza, Sent. 08 gennaio 2008. Fascicolo n. 1/2016 www.ilforomalatestiano.it Pag. 6 di 6 dell’intensità del dolo sia stata determinante e abbia rappresentato un parametro per la valutazione della lesione della sfera sessuale della persona offesa.19 Nell’anno 2014 anche il Tribunale di Rimini, Ufficio dei Giudici per l’Udienza Preliminare, ha affrontato un caso analogo. Nei fatti era in essere una relazione d’amore tra un giovane di poco più di vent’anni ed una ragazza al tempo non ancora quattordicenne. Tra i due erano intercorsi rapporti sessuali e la giovane ha altresì attraversato un periodo di gravidanza che, successivamente, è stato interrotto. Al compimento del quattordicesimo anno di età la ragazza si è recata dai Carabinieri ed ha raccontato l’accaduto, a seguito di ciò sono state applicate misure cautelari custodiali a carico del ragazzo. Durante l’udienza preliminare, in sede di discussione di rito abbreviato, la Difesa dell’Imputato ha richiesto l’applicazione dell’attenuante prevista dal quarto comma dell’art. 609-quater indicando in primo luogo che tra i ragazzi fosse in essere un rapporto amoroso, in secondo luogo che vi era totale assenza di costrizione fisica della ragazza ai rapporti sessuali ed infine la presenza di un reale innamoramento 19 Fresco, L’amore come attenuante: una decisione coraggiosa in tema di atti sessuali con minorenne, Dir. pen. proc., 2009, 5, 596 (nota a sentenza). della minore, emerso parzialmente anche in sede di incidente probatorio.20 Il Giudice dell’Udienza Preliminare di Rimini non ha ritenuto applicabile l’attenuante in esame ed ha ampiamente argomentato sul punto. Egli ha preso le mosse da una valutazione globale della vicenda e delle conseguenze sulla minore, derivanti principalmente dalle ripercussioni fisiche e psicologiche dei fatti subiti, dalla gravidanza, e dall’interruzione della stessa. La valutazione ha tenuto conto di tutti i vari aspetti oggettivi e soggettivi, sottolineando il comportamento del reo soprattutto nel periodo iniziale della relazione. La capacità di persuasione e convincimento del ragazzo è stata ritenuta determinante. 20 Trib. Rimini, Ufficio dei Giudici
 

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Il fumus delicti nel sequestro preventivo (*)

Piero Gualtieri

già professore ordinario di Diritto processuale penale nell’Università di Urbino

I precedenti normativi e le tipologie di sequestro preventivo
Nel corso degli anni settanta si è sviluppata e consolidata una elaborazione giurisprudenziale che “fra prassi devianti e prassi promozionali”[1] ha progressivamente superato le tradizionali finalità probatorie del sequestro penale e attribuito all’istituto anche una funzione preventiva, volta ad impedire la reiterazione della condotta illecita (specie se lesiva di interessi collettivi) e fondata sulla previsione

dell’art. 219 c.p.p. 1930 (che riconosceva alla polizia giudiziaria il potere-dovere di impedire che i reati “vengano portati a conseguenze ulteriori”) e sull’assegnazione al sequestro del fine di assicurare la confisca, in riferimento all’art. 622 stesso codice[2]: sicché la misura risulta- va assai vicina all’applicazione provvisoria di pene accessorie[3].

La Corte costituzionale, d’altronde, aveva avallato queste tendenze, osservando, in tema di film, che un semplice sospetto di oscenità consentiva al p.m. di sottoporre l’opera a sequestro, il quale coinvolgeva tutte le copie in proiezione sul territorio nazionale secondo una prassi ormai in atto e pur in assenza di alcuna specifica disposizione di legge: ed ha aggiunto che la misura rappresentava un ulteriore mezzo di prevenzione e che la estensione si giustificava, non in base ad esigenze probatorie processuali, per la cui soddisfazione sarebbe stato sufficiente il sequestro di una o più copie soltanto della pellicola, “bensì per esigenze cautelari, volte ad impedire che con la potenzialità offensiva di numerose copie della pellicola contemporaneamente proiettate in luoghi diversi vengano a perpetrarsi più violazioni del medesimo precetto penale”[4].

Il legislatore del 1988 è intervenuto per dare una regolamentazione organica ad una materia che, sia pure in termini sfumati e non privi di sfasature sistematiche, non disconosceva il fine preventivo della coercizione reale e aveva visto affacciarsi sempre più frequentemente l’adozione di misure volte ad interrompere l’iter criminoso o ad impedire la commissione di nuovi reati.

In proposito nella Relazione al progetto preliminare è stato evidenziato come la potenzialità lesiva di diritti costituzionali che si ricollegano all’uso della cosa sequestrata avesse reso “necessaria una previsione normativa tale da obbligare il giudice ad enunciare le finalità della misura al momento della sua applicazione, in modo da consentire sempre, alla persona che ne è colpita, di provocare un controllo sul merito e sulla legittimità della stessa, anche per quanto attiene alla ragione d’essere della sua persistenza. Si è ritenuto infine di sottolineare che fondamento dell’istituto in questione resta l’esigenza cautelare: precisamente quella di tutela della collettività con riferimento al protrarsi dell’attività criminosa e dei suoi effetti”.

L’intenzione dichiarata era quindi quella di creare un quadro normativo dai contorni precisi, onde limitare il rischio di abusi e ottenere un “equilibrio fra difesa sociale e garantismo”[6], attraverso una riserva di giurisdizione e un principio di tassatività, assegnando al solo giudice il potere di disporre la misura e determinandone i casi.

Ma questi lodevoli obbiettivi sono stati traditi da carenze normative e soprattutto da poco garantiste applicazioni giurisprudenziali e sostanzialmente vanificati con l’introduzione del sequestro finalizzato alla confisca per equivalente.

Bisogna anche precisare preliminarmente che in realtà esiste una molteplicità di sequestri preventivi, ciascuno con proprie peculiari caratteristiche.

Nell’art. 321, comma 1, c.p.p. trova la sua disciplina il sequestro preventivo c.d. impeditivo, ispirato all’esigenza di evitare che la libera disponibilità di una cosa pertinente al reato possa aggravarne o protrarne le conseguenze o agevolare la commissione di altri reati, mentre il comma 2 regola quello finalizzato alla confisca, facoltativa o obbligatoria, delle stesse cose.

E’ stata recentemente introdotta con il d.l. 3.12.2013 una nuova forma di sequestro preventivo relativa agli stabilimenti di interesse nazionale (almeno 200 lavoratori occupati da almeno un anno), ove la misura non ha, singolarmente, la finalità di inibire un’attività, bensì di consentire una facoltà d’uso controllata dei beni aziendali.

Ha altresì avuto una espansione esponenziale il sequestro finalizzato alla confisca per equivalente, nel quale è stato reciso il nesso di pertinenza tra reato e res: e in questa categoria assume una notevolissima importanza il sequestro disciplinato dall’art. 12 sexies d.l. 306/1992, la cui applicazione è stata nel tempo continuamente estesa e che ha la caratteristica di portare all’applicazione della misura in caso di condanna per uno dei numerosi reati previsti dalla norma allorquando l’indagato non giustifichi la provenienza dei beni dei quali egli abbia a qualsiasi titolo la disponibilità, anche per interposta persona, con alcune analogie con il sequestro di prevenzione, specie in materia di esecuzione e amministrazione.

Vi è, infine, il sequestro preventivo introdotto con il d. lg. 8.6.2001 n. 231, che riguarda la responsabilità per gli illeciti amministrativi dipendenti da reato degli enti forniti di personalità giuridica, società e associazioni anche prive di personalità giuridica (artt. 19 e 53), per determinate tipologie di reato (tra i quali mancano incredibilmente quelli tributari).

Va anche segnalata l’esistenza di una serie di profili problematici, di carattere generale o riferito alla singola tipologia di sequestro, in materia di individuazione del giudice competente alla sua applicazione (vi è in particolare un vuoto normativo relativamente al giudice dell’udienza preliminare), di esecuzione della misura e di amministrazione dei beni ad essa assoggettati (specie in relazione ai rapporti con il sequestro di prevenzione), di tutela dei terzi in buona fede, di garanzie difensive anche in tema di gravami (la cui labilità normativa è aggravata da indirizzi giurisprudenziali molto restrittivi) e recentemente si sta sviluppando un dibattito in tema di confisca senza condanna, derivante dalla sentenza 26.3.2015 n. 49 della corte costituzionale (che ha proposto una non condivi bile lettura della giurisprudenza della corte e.d.u.) e ha portato alla rimessione della questione alle sezioni unite (ord. Sez. VI, 26.3.2015).

Nell’impossibilità di trattare questa pluralità di argomenti, soffermeremo la nostra attenzione su uno dei punti più incerti e delicati, rappresentato dal corretto inquadramento del fumus delicti.

La natura del sequestro previsto dall’art. 321 c.p.p.
Dal punto di vista sistematico, il sequestro preventivo è stato collocato fra le misure cautelari reali e reso del tutto indipendente dal sequestro probatorio (disciplinato nell’ambito dei mezzi di ricerca delle prove), ad ulteriore dimostrazione della consapevolezza del legislatore della sua potenzialità afflittiva su diritti fondamentali della persona costituzionalmente garantiti, non dissimile da quella dei provvedimenti di coercizione personale.

Come si è già accennato, l’obbiettivo era dunque di offrire una base unitaria a figure disperse nelle leggi speciali e affioranti in modo frammentario nell’abrogato codice, delineando nell’art. 321, 1° e 2° comma, c.p.p. due specifiche ipotesi applicative autonome fra loro, la prima (c.d. sequestro impeditivo) diretta ad evitare il pericolo che la libera disponibilità di una cosa pertinente al reato possa aggravare o protrarre le conseguenze di esso, ovvero agevolare la commissione di altri reati, la seconda funzionale alla confisca, a sua volta graduata tra le ipotesi in cui tale misura è facoltativa o obbligatoria[9].

Il sequestro preventivo è connotato dai caratteri propri degli istituti cautelari, vale a dire la provvisorietà, intesa come limitazione degli effetti ad un periodo di tempo determinato, e la strumentalità, come preordinazione della misura all’emissione di un successivo provvedimento definitivo[10], ed è subordinato alla sussistenza degli elementi tipici di ogni misura cautelare, il fumus delicti e il periculum in mora.

Va anche precisato che l’art. 321, 1° comma, c.p.p. identifica quale oggetto della misura la “cosa pertinente al reato”, la quale, secondo il legislatore, assume un significato scarsamente delimitativo, per cui si è preferito porre l’accento sui fini della misura, piuttosto che sulla caratterizzazione delle cose materiali destinate ad esserne oggetto.

Tale nozione, peraltro, è più ampia di quella di corpo del reato, definita dall’art. 253 c.p.p., ed è comprensiva non solo delle cose sulle quali o a mezzo delle quali il reato è stato commesso o che ne costituiscono il prezzo, il prodotto o il profitto, ma anche di quelle legate solo indirettamente alla fattispecie criminosa, purché il rapporto con l’illecito penale non sia meramente occasionale.

Al fine di evitare una indiscriminata compressione del diritto di proprietà e di uso del bene, il presupposto del nesso pertinenziale della cosa al reato deve essere oggetto di congrua motivazione da parte del giudice sia con riguardo al profilo della specifica, intrinseca e stabile strumentalità della cosa sottoposta a sequestro all’attività illecita che si ritiene commessa dall’indagato, sia con riferimento alla possibilità che quell’attività venga reiterata o aggravata.

Il giudice deve quindi compiere una valutazione rigorosa e motivata del cennato pericolo, alla luce di una pluralità di elementi oggettivi e soggettivi, tra i quali vanno annoverati la natura della cosa, la sua connessione strumentale con il reato e/o i reati futuri possibili, la destinazione occasionale o stabile alla commissione dell’illecito, la personalità dell’imputato o indagato e le circostanze dell’impiego della res nella commissione del reato stesso.

Il requisito della “pertinenza” deve inoltre essere preso in esame in relazione a tale strumentalità del bene, in quanto la peculiarità della funzione del sequestro preventivo prescinde dalla liceità o meno delle cose oggettivamente considerate, assumendo rilievo, invece, la destinazione sia pure indiretta delle stesse a fungere da mezzo di commissione di altri reati.

Il sequestro preventivo può colpire tanto i beni mobili quanto quelli immobili[16] e gli animali, i quali sono assimilati alle cose anche ai fini processuali, secondo i principi civilistici[17].

La nuova formulazione degli artt. 104 e 104 bis disp. att. e coord. c.p.p. non lascia dubbi in ordine alla possibilità di disporre il sequestro preventivo di un’azienda o di beni produttivi, espressamente disciplinato in tali norme.

3.1. Il fumus delicti

La volontà del legislatore, enunciata nella Relazione al progetto preliminare del nuovo codice, di creare un quadro normativo dai contorni precisi, onde limitare il rischio di abusi e ottenere un equilibrio tra difesa sociale e garantismo, non ha avuto una soddisfacente attuazione, con particolare riguardo al fumus delicti.

In proposito, l’art. 321 è avaro di indicazioni, limitandosi ad un sintetico e molto generico riferimento alla esigenza di evitare che la libera disponibilità di una cosa pertinente al reato possa aggravarne o protrarne le conseguenze o agevolare la commissione di nuovi reati.

Tali carenze nella disciplina dei presupposti applicativi dell’istituto hanno comportato serie conseguenze negative in termini di garanzie.

A differenza di quanto previsto per le misure cautelari personali, non vi è alcun riferimento né ai profili soggettivi di colui che detiene la cosa pericolosa, né tanto meno alla correlata sussistenza di gravi indizi di colpevolezza.

3.2 Le opinioni della dottrina

A questo riguardo, la dottrina ha espresso opinioni variegate.

Alcuni Autori hanno evidenziato lo stretto parallelismo con le misure cautelari personali (specie quelle interdittive) e da questo dedotto la necessità di subordinare il sequestro preventivo all’esistenza di gravi indizi di colpevolezza.

Altri considerano sufficiente la sussistenza di “precisi indizi di reato, il cui collegamento alla commissione del fatto risulti in maniera certa e univoca”, e la “coincidenza fra fattispecie concreta e fattispecie legale ipotizzata”.

Altri ancora sostengono che l’esercizio del potere cautelare deve essere condizionato dalla sussistenza di un quadro indiziario grave, sia in ordine all’avvenuta commissione del reato per cui si procede, sia in ordine alla pertinenza del bene da sottoporre a sequestro al reato stesso, sia in ordine al rischio che la libera disponibilità della cosa può costituire in relazione al quadro criminoso attuale[20].

Ed infine, c’è chi ritiene sufficiente per integrare il fumus una indagine, nei termini di sommarietà e provvisorietà propri delle indagini preliminari, mirante ad accertare la corrispondenza fra fattispecie astratta e fattispecie reale.

3.3 Le valutazioni della corte costituzionale

In materia è presto intervenuta una decisione delle Sezioni Unite, che, chiamate a risolvere altro contrasto, hanno però affermato i principi che in sede di applicazione di una misura cautelare reale, ai fini della doverosa verifica della legittimità del provvedimento “è preclusa ogni valutazione sulla sussistenza degli indizi di colpevolezza e sulla gravità degli stessi” e che il controllo del giudice non può investire la concreta fondatezza dell’accusa, ma deve limitarsi “all’astratta possibilità di sussumere il fatto attribuito ad un soggetto in una determinata ipotesi di reato”.

La decisione ha fortemente condizionato i successivi sviluppi applicativi, che, come vedremo più avanti, si sono ad essa adeguati, spesso attraverso apodittici richiami.

Questo orientamento delle Sezioni Unite penali della Corte di Cassazione ha portato a sollevare una questione di legittimità costituzionale per contrasto degli artt. 321 e 324 c.p.p. con gli artt. 24, 97, 111 e 42 Cost.

A parere del rimettente, sarebbe anzitutto compromesso il diritto di difesa in quanto, dovendosi il tribunale astenere da apprezzamenti relativi alla sussistenza degli indizi ed alla relativa gravità, diverrebbe irrilevante per l’indagato qualsiasi sua difesa sul merito. Le disposizioni denunciate violerebbero, poi, gli artt. 97 e 111 Cost., poiché la decisione del giudice si risolverebbe in una “operazione burocratica di mera ratifica” e lederebbe il principio di buon andamento dell’amministrazione giudiziaria, mentre la mancata delibazione degli indizi di colpevolezza e della loro gravità non consentirebbe una motivazione “concreta”, con la necessaria esplicitazione delle ragioni per le quali si fa luogo o meno alla compressione di un diritto soggettivo, costituzionalmente tutelato, come quello di proprietà, con conseguente contrasto con l’art. 42, 2° comma, Cost., per essere prevista una limitazione di questo diritto, al di fuori degli scopi e della funzione di cui alla riserva di legge, enunciata dall’indicato parametro.

La Corte costituzionale ha però dichiarato non fondata la questione, osservando che, pur essendo stati tracciati marcati parallelismi tra le cautele reali e quelle personali, il codice non si è spinto al punto da aver assimilato in toto le condizioni che devono assistere le due specie di misure. La scelta di non richiamare per le misure cautelari reali i presupposti sanciti dall’art. 273 c.p.p. per le misure cautelari personali (fra i quali la sussistenza di gravi indizi di colpevolezza) non contrasta con l’art. 24 Cost. poiché il diritto di difesa ammette diversità di disciplina in rapporto alla varietà delle sedi e degli istituti processuali in cui lo stesso è esercitato, e i valori che l’ordinamento prende in considerazione sono graduabili fra loro: da un lato, l’inviolabilità della libertà personale, e, dall’altro, la libera disponibilità dei beni, che la legge ben può contemperare in funzione degli interessi collettivi che vengono ad essere coinvolti.

Secondo il giudice delle leggi il sequestro preventivo attiene, infatti, a “cose” che presentano un tasso di “pericolosità” tale da giustificare l’imposizione della cautela, e, pur raccordandosi ontologicamente ad un reato, può prescindere totalmente da qualsiasi profilo di “colpevolezza”, proprio perché la funzione preventiva non si proietta necessariamente sull’autore del fatto criminoso, ma su beni che, postulando un vincolo di pertinenzialità col reato, vengono riguardati dall’ordinamento quali strumenti la cui libera disponibilità può costituire situazione di pericolo, come dimostrano le ipotesi della confisca obbligatoria, del “blocco dei beni” nel caso di sequestro di persona in base alle disposizioni dettate dal d.l. 15-1-1991, n. 8, e, più in generale, del sequestro a carico di terzi: l’istituto, quindi, non può essere “costruito” in modo speculare alle misure cautelari personali.

D’altro canto, ove si introducesse in sede di gravame un potere di controllo sul merito della regiudicanda, si assisterebbe ad una specie di “processo nel processo” che sposterebbe, allargandolo, il tema del decidere da quello suo proprio della verifica del pericolo della libera disponibilità di taluni beni, all’oggetto del procedimento principale.

Tuttavia, potendo essere oggetto della misura “le cose pertinenti al reato” (locuzione volutamente ampia ed indistinta che assorbe quella, più circoscritta, di “corpo di reato” definito dall’art. 253 c.p.p.) è evidente che al giudice sia fatto carico di verificare che esista un reato, quanto meno nella sua astratta configurabilità, e che ricorra l’integralità dei presupposti legittimanti la misura, attraverso un controllo non burocratico, ma pienamente satisfattivo del corrispondente obbligo di motivazione prescritto per tutti i provvedimenti giurisdizionali.

Sicché la difesa ben può volgersi a contestare l’esistenza della fattispecie dedotta, proprio perché questa funge da necessario referente che individua il predetto nesso di pertinenzialità: e non è a dirsi che tale verifica non possa in alcun modo spingersi “all’esame del fatto per il quale si procede”[23].

A nostro avviso la soluzione cui è pervenuta la Corte costituzionale è insoddisfacente, poiché nella decisione è stato fornito un quadro di riferimento interpretativo abbastanza angusto sotto il profilo delle garanzie.

Lascia in particolare perplessi il riferimento alla impossibilità di procedere ad una verifica approfondita della fondatezza dell’imputazione (processo nel processo), a differenza di quanto previsto per le misure cautelari personali: e se è certamente vero che i presupposti delle due tipologie di misure sono diversi e l’indagine richiesta per limitare la libertà personale, allo stato attuale della legislazione, si risolve in una prognosi di colpevolezza tanto penetrante da richiedere anche una previsione della pena, anche le misure cautelari reali attingono diritti costituzionalmente garantiti, ragion per cui la valutazione dei presupposti del sequestro preventivo deve essere penetrante e tale analisi trasferita nella motivazione del provvedimento. Altrimenti, sarebbe inutile aver introdotto la garanzia giurisdizionale.

In proposito va rilevato che lo stesso giudice delle leggi si è infatti ripetutamente espresso nel senso che “la costituzione italiana contiene alcuni principi supremi che non possono essere sovvertiti o modificati nel loro contenuto essenziale neppure da leggi di revisione costituzionale o da altre leggi costituzionali”, quali quelli espressamente indicati nell’art. 139 Cost. ed altri che, pur non essendo ivi menzionati, “appartengono all’essenza dei valori supremi sui quali si fonda la Costituzione italiana” ed hanno “una valenza superiore rispetto alle altre norme o leggi di rango costituzionale”, come quelli disciplinati negli artt. 1, 2, 3 e 4 Cost., rivendicando a sé il potere di esercitare il relativo controllo[24].

Orbene, ferma restando l’opinabilità dell’autoinvestitura per la verifica della legittimità delle leggi di revisione costituzionale[25], è vero che nella costituzione è rinvenibile una graduazione nelle garanzie, con collocazione in posizione di preminenza dei “diritti inviolabili” dell’uomo, secondo l’enunciazione contenuta nell’art. 4.

Vi sono in effetti alcune disposizioni nelle quali, appunto, il diritto tutelato viene definito “inviolabile” (artt. 13, 14 e 15, che riguardano la libertà personale, del domicilio e delle comunicazioni) e pur tuttavia è suscettibile di essere compresso, in misura differenziata in riferimento ai diversi valori protetti, da tassative disposizioni: in altre le garanzie sono meno rigorose, come ad esempio avviene per il diritto di sciopero (art. 40), l’iniziativa economica privata (art.41), l’indipendenza del p.m. (art. 107, 4° comma), la durata ragionevole del processo (art. 111, 1° comma), la cui regolamentazione è rimessa al legislatore ordinario.

Il diritto di difesa è invece definito “inviolabile in ogni stato e grado del procedimento”, senza eccezioni, e la sua posizione di preminenza è rafforzata dalla previsione che ogni processo si svolge nel contraddittorio tra le parti, in condizioni di parità davanti ad un giudice terzo, imparziale e soggetto soltanto alla legge (artt. 111, 2° comma, e 101, 2° comma).

Tanto vero che la stessa Corte costituzionale ha ritenuto che il principio di durata ragionevole del processo non può comportare la vanificazione degli altri valori costituzionali che in esso sono coinvolti, primo fra i quali il diritto di difesa, il quale assume nella disciplina processuale valore preminente, essendo inserito nel quadro dei diritti inviolabili della persona e dovendo, appunto, essere tutelato in ogni stato e grado del procedimento.

Assume altresì rilievo l’art. 6 Conv. EDU in relazione al quale i giudici di Strasburgo hanno da tempo sancito che il fine della convenzione “è proteggere diritti non teorici o illusori, ma concreti ed effettivi”e che tale principio di effettività della difesa deve trovare applicazione relativamente alle varie fasi del procedimento, per cui esso s’impone già in quelle anteriori al giudizio, seppure il relativo accertamento vada operato avendo riguardo alle “particolarità della procedura” e alle “circostanze della causa”.

Non sembra che queste osservazioni e il rammentato granitico indirizzo sulla esistenza nella costituzione di principi supremi non modificabili nel loro contenuto essenziale, possano essere messo in discussione da una recente decisione, ove è stato affermato che tutti i diritti fondamentali tutelati dalla Costituzione si trovano in rapporto di integrazione reciproca e non è possibile pertanto individuare uno di essi che abbia la prevalenza assoluta sugli altri: conseguentemente, la tutela deve essere sempre “sistemica e non frazionata in una serie di norme non coordinate ed in potenziale conflitto tra loro”, poiché, se così non fosse, si verificherebbe l’illimitata espansione di uno dei diritti, che diverrebbe “tiranno” nei confronti delle altre situazioni giuridiche costituzionalmente riconosciute e protette, che costituiscono, nel loro insieme, espressione della dignità della persona.

A nostro avviso, tale assunto non è idoneo a scalfire il rilievo che nella costituzione è rinvenibile una graduazione di tutela dei diritti: anche se non ve ne sono di “tiranni”, il ragionevole bilanciamento tra interessi confliggenti (nella specie tra diritto di difesa ed esercizio della pretesa punitiva dello Stato) non può prescindere dall’ampiezza della protezione riconosciuta.

In questa cornice il più volte affermato orientamento del giudice delle leggi per cui il diritto di difesa può essere variamente articolato in riferimento alle varie fasi e tipologie dei procedimenti, anche recentemente ribadito[30], meriterebbe di essere sottoposto a profonda revisione o almeno meglio modulato in riferimento al rango dei beni protetti, che nel caso delle misure cautelari ha rilievo costituzionale, riguardando la proprietà privata, tutelata pure dal protocollo n. 7 della Conv. EDU.

Deve allora concludersi che le norme autorizzative del sequestro preventivo e le loro applicazioni giurisprudenziali non sono rispettose degli indicati parametri, per cui è necessario un loro adeguamento e, ove il legislatore non provveda, un nuovo scrutinio di costituzionalità.

In ogni caso, e come minimo, il giudice, attraverso interpretazioni costituzionalmente orientate, deve disporre la misura soltanto all’esito di una verifica approfondita sulla sussistenza dei pur scarni e carenti presupposti normativi, e in particolare, come si vedrà, sulla presenza di gravi indizi del reato ipotizzato a carico di colui al quale si vuole impedire l’uso della cosa ritenuta pericolosa, ad esso pertinente.

3.4. Gli orientamenti della corte di legittimità

La ricordata sentenza delle sezioni unite Gifuni ha fortemente condizionato i successivi sviluppi applicativi, che si sono adeguati ai principi in essa enunciati, spesso attraverso apodittici richiami.

È divenuto così prevalente l’indirizzo per cui le misure cautelari personali vanno tenute distinte da quelle reali, poiché l’inviolabilità della libertà personale e la libera disponibilità dei beni sono valori di diversa essenza, suscettibili di una tutela differenziata in funzione degli interessi coinvolti: costituendo presupposto dell’imposizione delle misure cautelari reali il tasso di pericolosità della cosa, che pur raccordandosi ad un fatto criminoso, può prescindere totalmente da qualsiasi profilo di colpevolezza, con la conseguenza che non sono consentite al giudice valutazioni in ordine alla sussistenza degli indizi di colpevolezza e alla gravità degli stessi previsti dagli artt. 273 e 274 c.p.p.[31], in quanto, appunto, la giustificazione del sequestro preventivo deriva dalla pericolosità sociale della cosa e non dalla colpevolezza di colui che ne abbia la disponibilità, per cui la sua adozione prescinde dalla individuazione dell’autore del reato ipotizzato e dall’indagine sulla sua colpevolezza.

È stato anche ritenuto che la valutazione della antigiuridicità della condotta non potrà mai sconfinare nel sindacato della concreta fondatezza dell’accusa, ma dovrà limitarsi all’astratta possibilità, non manifestamente arbitraria, di sussumere il fatto attribuito ad un soggetto in una determinata ipotesi di reato, da ricercare attraverso la verifica, provvisoria e incidentale, delle risultanze in atti, nei limiti della, dell’astratta rilevanza penale del fatto accertato”.

E si è giunti a considerare sufficiente all’integrazione di tale presupposto, la semplice configurabilità nei comportamenti dell’indagato delle ipotesi criminose contestate (a fronte dei dati segnalati dal p.m., a prescindere da ogni giudizio sulla loro fondatezza, nonché in mancanza di elementi segnalati dalla difesa atti ad inficiare questi ultimi): e si è ritenuto che, ove sia intervenuto il rinvio a giudizio, l’esistenza del fumus non può essere sindacata.

Questi indirizzi hanno portato a sottolineare come in talune applicazioni giurisprudenziali, il sequestro preventivo sembrasse diventato una fattispecie cautelare a fumus presunto, ove il pubblico ministero si limita ad allegare la commissione di un reato e il destinatario della misura è chiamato a fornire la probatio diabolica della insussistenza dell’illecito penale[36].

Non sono peraltro mancate voci dissonanti, e tra esse assume rilievo una decisione delle Sezioni Unite, ove è stata evidenziata la necessità di assicurare una maggiore tutela delle posizioni individuali, contemperandole con le esigenze di protezione degli interessi collettivi, onde evitare che gli aspetti di garanzia voluti dal legislatore del 1988 e solennemente affermati in teoria, vengano poi vanificati con un’interpretazione erroneamente riduttiva, ed ha rilevato come l’inesatta lettura della decisione Gifuni “ha condotto spesso ad un progressivo impoverimento della funzione di terzietà della giurisdizione. Si è, così, appiattito il ruolo di garanzia, ristretto negli angusti steccati della semplice constatazione dell’astratta asserzione di un’ipotesi di reato, senza la verifica del collegamento con la realtà processuale”, mentre, in realtà, alla giurisdizione compete il potere-dovere d’espletare il controllo di legalità, sia pure nell’ambito delle indicazioni di fatto offerte dal p.m., ragion per cui “l’accertamento della sussistenza del fumus commissi delicti va compiuto sotto il profilo della congruità degli elementi rappresentati, che non possono essere censurati sul piano fattuale, per apprezzarne la coincidenza con le reali risultanze processuali, ma che vanno valutati così come esposti, al fine di verificare se essi consentono di sussumere l’ipotesi formulata in quella tipica”.

I principi di diritto appena ricordati, migliorativi rispetto alla opinione prevalente seppure non completamente soddisfacenti, sono stati successivamente ribaditi, ma solo recentemente si sta assistendo al consolidamento di indirizzi per cui ai fini dell’emissione del sequestro preventivo il giudice deve valutare la sussistenza del fumus delicti in concreto, indicando nella motivazione in modo puntuale e coerente gli elementi in base ai quali desumere l’integrazione del reato configurato, tenendo conto sia degli elementi forniti dall’accusa, sia delle argomentazioni difensive, in quanto la serietà degli indizi costituisce presupposto per l’applicazione delle misure.

3.5. Le prospettive di completa assimilazione dei presupposti tra misure cautelari personali e reali nell’individuazione del fumus

L’appena rammentato approdo rappresenta certamente un notevole passo in avanti rispetto alle precedenti riduttive opzioni interpretative, che per lunghi anni hanno comportato un inaccettabile impoverimento della funzione di terzietà della giurisdizione, ristrettasi negli angusti steccati della semplice constatazione dell’astratta asserzione di una ipotesi di reato, dalla quale è derivato quasi un automatismo tra richiesta e concessione della misura.

C’è da domandarsi se sia possibile una ulteriore evoluzione fino all’equiparazione dei presupposti applicativi con quelli previsti per le misure cautelari personali.

Una siffatta soluzione sarebbe auspicabile poiché le misure cautelari reali vanno ad incidere su interessi costituzionalmente protetti e richiederebbero, pertanto, interpretazioni più rispettose di tali canoni: e d’altro canto, il sequestro preventivo può presentare un contenuto afflittivo addirittura maggiore rispetto ad alcune misure cautelari personali (ad esempio i divieti e gli obblighi di dimora e le misure interdittive).

Tra le due specie di misure esistono inoltre stretti parallelismi, sia per la collocazione sistematica, sia per i rimedi approntati (appello, riesame, ricorso per cassazione), sia, ancora, per la dichiarata intenzione di costruire nei commi 3° bis e 3° ter una figura precautelare modellata sull’art. 384.

Si ritiene, tuttavia, che l’auspicato risultato possa essere conseguito soltanto attraverso un intervento del legislatore.

L’attuale assetto normativo è, come si è visto, lacunoso e manca in particolare la specifica individuazione del fumus delicti, che lascia margini di discrezionalità troppo ampi al p.m. e al giudice

Per altro verso va pure rilevato che nella costituzione risulta accordata per i beni in discussione una protezione di diverso livello.

La libertà personale, invero, viene definita inviolabile e la sua limitazione è ammessa soltanto per atto motivato dell’autorità giudiziaria e nei soli casi e modi previsti dalla legge, mentre iniziativa privata e proprietà godono di una minore garanzia, poiché entrambe possono essere sottoposte a restrizioni dalla legge in funzione della loro utilità e funzione sociale, anche se la loro tutela è oggi rafforzata da rigorosi indirizzi della Corte europea dei diritti umani, che ha assimilato la confisca ad una sanzione penale, inapplicabile in mancanza di una sentenza di condanna.

Si aggiunga, ad ulteriore conferma di questa graduazione, che le misure cautelari personali, coercitive o interdittive, sono consentite unicamente se si proceda per delitti per i quali la legge preveda la pena dell’ergastolo o della reclusione superiore nel massimo a tre anni (artt. 280, 1° comma, e 287, 1° comma, c.p.p.) ed anche l’art. 384 c.p.p. stabilisce analoghe condizioni, seppure meno rigorose: viceversa, nessuna restrizione in riferimento al tipo di reato è stabilita per le misure cautelari reali.

Conseguentemente, la differente regolamentazione non sembra violare il principio di ragionevolezza.

Sembra però possibile pervenire ad una interpretazione costituzionalmente orientata, che tenga conto della necessità di un ragionevole bilanciamento tra esigenze di repressione e tutela del diritto di difesa e della proprietà.

E, in effetti, i principi recentemente elaborati dalla giurisprudenza e sopra rammentati, mostrano la tendenza ad omologare le misure cautelari reali a quelle personali, attraverso l’accertamento dell’esistenza di gravi indizi di responsabilità e l’applicazione alle misure cautelari reali dei principi di proporzionalità, adeguatezza e gradualità, imponendo al giudice di motivare adeguatamente sull’impossibilità di conseguire il medesimo risultato con altre misure meno invasive.

Il sequestro preventivo dovrebbe pertanto essere disposto soltanto in caso di gravi indizi di reità a carico di colui che dispone effettivamente della cosa ritenuta pericolosa, tali da consentire una prognosi in ordine alla possibilità di pervenire ad una sentenza di condanna, e quando esista un vincolo chiaro ed univoco tra la stessa cosa e il reato per cui si procede.

Una siffatta soluzione integrerebbe i profili soggettivi di valutazione e lascerebbe intatta la preminenza del nesso di pertinenza con il reato del bene, dalla cui libera disponibilità deriva il pericolo di aggravare o protrarre le conseguenze del reato o agevolare la commissione di altri reati.

In questo quadro, l’analisi deve essere estesa anche alla valutazione dell’elemento soggettivo del reato, atteso che la sua mancanza impedisce la stessa astratta configurabilità dell’illecito penale.

I presupposti del sequestro finalizzato alla confisca per equivalente
La previsione della “confisca per equivalente” è rivolta a superare gli ostacoli e le difficoltà per la individuazione dei beni in cui si “incorpora” il profitto iniziale nonché ad ovviare ai limiti che incontra la confisca dei beni di scambio o di quelli che ne costituiscono il reimpiego: ferma restando la necessità della consumazione di un reato, essa può quindi riguardare (a differenza dell’ordinaria confisca prevista dall’art. 240 c.p., che ha ad oggetto soltanto cose direttamente riferibili al reato) beni che non hanno alcun rapporto con la pericolosità individuale del reo e neppure alcun nesso di pertinenza con il singolo reato[45], ben potendo questi essere diversi dal provento, profitto o prezzo dell’illecito.

La misura appare altresì connotata dal requisito della obbligatorietà.

Questi due elementi (obbligatorietà e elisione del rapporto di pertinenza tra il bene e la cosa) rendono molto labili i presupposti per l’adozione del sequestro preventivo ad essa finalizzato e lasciano conseguentemente ampi spazi discrezionali nella motivazione del provvedimento applicativo.

In effetti, i suoi presupposti, e dunque di ammissibilità della misura cautelare, sono stati individuati dalla giurisprudenza nella ravvisabilità di uno dei reati per i quali essa è consentita e nella circostanza che nella sfera giuridico patrimoniale del responsabile non siano stati rinvenuti, per qualsivoglia ragione ed anche in caso di impossibilità transitoria e reversibile di loro reperimento, i beni costituenti il prezzo o il profitto certo del reato.

Con questi indirizzi si realizzava così una sorta di automatismo nell’adozione della cautela, facendo prevalere esigenze di difesa sociale sui diritti costituzionali di tutela della proprietà e di difesa individuale.

I più recenti sviluppi interpretativi mostrano tuttavia la tendenza a pervenire ad un più ragionevole bilanciamento tra tali contrapposte esigenze e ad omologare le misure cautelari reali a quelle personali, attraverso l’accertamento dell’esistenza di gravi indizi di responsabilità a carico del prevenuto, valutando anche l’elemento soggettivo.

E’ stato pure affermato che il giudice deve applicare i principi di proporzionalità, adeguatezza e gradualità motivando adeguatamente sull’impossibilità di conseguire il medesimo risultato con altre misure meno invasive[52], e procedere ad una valutazione di equivalenza tra il valore dei beni e l’entità del profitto, pur se questa nella fase delle indagini non può fondarsi su un compendio probatorio stabile[53].

Ma contradditoriamente si è anche ritenuto che il giudice è unicamente tenuto a indicare l’importo complessivo da sequestrare, mentre la individuazione specifica dei beni da apprendere e la verifica della corrispondenza del loro valore al quantum precisato nel provvedimento ablativo è riservata alla fase esecutiva, riservata al p.m.[54].

Nel caso in esame assume inoltre rilievo la circostanza che la confisca per equivalente può essere disposta unicamente in caso di condanna o di applicazione della pena su richiesta delle parti per alcuno dei reati tassativamente elencati.

Da ciò si deduce che il sequestro preventivo ad essa finalizzato può essere applicato solo se esistano gravi indizi di reità a carico della persona sottoposta alle indagini, tali da consentire una prognosi in ordine alla possibilità, appunto, di pervenire ad una sentenza di condanna.

Va ancora rimarcato come tale misura dovrebbe consentire soltanto eccezionalmente lo spostamento della cautela dal bene collegato da nesso pertinenziale con il reato ad altro bene nella disponibilità dell’indagato, indipendentemente dalla sua provenienza legittima: la confisca per equivalente, e il sequestro preventivo che la garantisce e le è funzionale, possono trovare applicazione unicamente in via residuale, allorquando non sia stato possibile aggredire il prezzo del reato[55].

La giurisprudenza ha chiarito che la misura cautelare funzionale alla confisca per equivalente può ricadere su beni comunque nella disponibilità dell’indagato, senza che abbiano effetto presunzioni o vincoli posti in materia contrattualistica dal codice civile, volti a regolare i rapporti interni tra creditori e debitori solidali ovvero tra banca e depositante, considerato che su queste norme prevalgono le disposizioni penali in materia di sequestro preventivo, preordinato ad evitare che, nelle more dell’adozione del definitivo provvedimento ablatorio, tali beni possano andare dispersi[56]: in questa prospettiva sono stati ritenuti sottoponibili alla misura i beni dell’indagato dei quali costui abbia l’usufrutto, ma siano sempre rimasti nella sua disponibilità[57], o, ancora, di conti correnti cointestati o intestati a terzi, ma sui quali l’indagato abbia la delega ad operare[58], mentre  gli stipendi e gli assegni retributivi dei dipendenti dello Stato e degli enti pubblici sono assoggettabili a sequestro preventivo finalizzato alla confisca per equivalente solo nella misura di un quinto, dovendo trovare applicazione gli artt. 1 e 2, d.p.r. 5-1-1950, n. 180.

È stato, peraltro, escluso che il sequestro preventivo sia applicabile alle cose appartenenti a terzi estranei in buona fede, come, ad esempio, la persona offesa o danneggiata, cui va pertanto restituito il bene o il danaro profitto del reato e oggetto di sequestro e che quello disposto su beni immobili possa venire esteso ai canoni di locazione, ove si ecceda il valore equivalente del prezzo-profitto del reato.

Si è inoltre deciso che il sequestro dei beni posseduti per interposta persona fa gravare sull’accusa l’onere di provare l’intestazione fittizia, per cui, ove tale onere non venga soddisfatto, la misura cautelare non è legittima.

Sequestro per equivalente di beni ai sensi dell’art. 12 sexies, d.l. 8-6-1992, n. 306
5.1. Le previsioni normative

L’art. 12 sexies è stato introdotto dall’art. 2, 1° comma, d.l. 20-6-1994, n. 399, conv. dalla l. 8-8-1994, n. 501, dopo che la Corte costituzionale aveva dichiarato illegittimo l’art. 12 quinquies, 2° comma, per contrasto con l’art. 27, 2° comma, Cost. perché fondava sulla qualità di indagato o di imputato il presupposto che rendeva punibile un dato fatto ‒ la sproporzione non giustificata fra beni posseduti e reddito ‒ che altrimenti non sarebbe perseguito, per cui l’indiziato o l’imputato era, solo in base a questa sua qualificazione, assoggettato a pena per una condotta che, ove posta in essere da qualunque altro soggetto, sarebbe stata penalmente irrilevante.

Esso, più volte sottoposto a interventi correttivi e integrativi[64], stabilisce ai commi 1° e 2° che è sempre disposta la confisca del denaro, dei beni o delle altre utilità di cui il condannato non può giustificare la provenienza e di cui, anche per interposta persona fisica o giuridica, risulta essere titolare o avere la disponibilità a qualsiasi titolo in valore sproporzionato al proprio reddito, dichiarato ai fini delle imposte sul reddito, o alla propria attività economica, in caso di condanna o di applicazione della pena su richiesta ai sensi dell’art. 444 c.p.p., per i delitti previsti: (I) dagli artt. 314, 316, 316 bis, 316 ter, 317, 318, 319, 319 ter, 319 quater, 320, 322, 322 bis, 325, 416 realizzato allo scopo di commettere delitti previsti dagli artt. 473, 474, 517 ter e 517 quater, 416, 6° comma, 416 bis, 600, 600 bis, 1° comma, 600 ter, 1° e 2° comma, 600 quater.1, relativamente alla condotta di produzione o commercio di materiale pornografico, 600-quinquies, 601, 602, 629, 630, 644, 644 bis, 648, esclusa la fattispecie di cui al 2° comma, 648 bis, 648 ter del codice penale; (II) dall’art. 12 quinquies, 1° comma, dello stesso d.l. 306/1992; (III) dagli artt. 73, esclusa la fattispecie di cui al 5° comma, e 74, d.p.r. 9-10-1990, n. 309; (IV) in materia di contrabbando nei casi di cui all’art. 295, 2° comma, d.p.r. 23-1-1973, n. 43; (V) commessi per finalità di terrorismo o di eversione dell’ordine costituzionale o avvalendosi delle condizioni previste dall’art. 416 bis c.p. ovvero al fine di agevolare l’attività delle associazioni previste dallo stesso articolo.

Come si vede, dalla lista dei reati contro la pubblica amministrazione è escluso, senza una ragionevole giustificazione, l’abuso di ufficio, in relazione al quale il sequestro preventivo è obbligatorio ai sensi dell’art. 321, 2° comma bis, c.p.p., nei limiti in cui è consentita la confisca, che resta quindi riferibile soltanto alle cose che sono il profitto o il prodotto del reato e che siano con esso in rapporto di pertinenza.

Assume particolare rilievo il 2° comma ter, il quale dispone che nel caso previsto dal 2° comma, quando non è possibile procedere alla confisca del denaro, dei beni e delle altre utilità di cui al 1° comma, il giudice ordina la confisca di altre somme di denaro, di beni e altre utilità per un valore equivalente, delle quali il reo ha la disponibilità, anche per interposta persona.

Va altresì rilevato che, rispetto al testo precedente inserito con il d.l. 92/2008, è stato aggiunto il rinvio al 1° comma ed eliminato il riferimento “al prodotto, profitto o prezzo del reato”, con la conseguenza che oggi la confisca può essere estesa agli altri beni compresi nel patrimonio del condannato per un importo equivalente a quelli di valore sproporzionato, laddove non sia stato possibile applicarla a questi ultimi.

In dottrina è stato osservato che tale sanzione è destinata all’inefficacia, potendo essere inflitta soltanto se vi sia la radicale assenza delle disponibilità patrimoniali sospette[66]: è stato anche rilevato che l’ultima modifica è servita a rimediare ad un errore del legislatore, il quale non aveva considerato nella formulazione del 2008 che in tale ipotesi di confisca non vi è vincolo pertinenziale tra bene confiscato e reato presupposto, in quanto il bene oggetto della misura non costituisce il prodotto, il profitto o il prezzo del reato per cui è intervenuta condanna, ma è una res di valore sproporzionato rispetto all’attività economica o al reddito del soggetto della quale non è stata giustificata la legittima provenienza.

Alla luce del dato normativo appena indicato, sembrerebbe comunque che la confisca dei beni di valore sproporzionato al reddito consegua alla condanna o alla applicazione della pena a norma dell’art. 444 c.p.p. per taluno dei delitti previsti nel comma 1, mentre la confisca per equivalente dovrebbe riguardare soltanto i reati menzionati nel 2° comma (delitto commesso avvalendosi delle condizioni previste dall’art. 416 bis c.p. ovvero al fine di agevolare l’attività delle associazioni di cui allo stesso articolo, e 295, 2° comma, d.p.r. 23-1-1973, n. 43, in materia di contrabbando).

Appare inoltre opportuno rammentare che la Direttiva 2014/42/UE del 3-4-2014 indica all’art. 5 come presupposto della confisca il fatto che il valore deibeni sia sproporzionato rispetto al reddito legittimo della persona condannata (cfr. anche il punto 21 dei Considerando).

5.2. I presupposti del sequestro preventivo ex art. 12 sexies

a) Fumus, periculum in mora e pertinenza al reato
Relativamente ai presupposti per disporre il sequestro preventivo finalizzato alla confisca ex art. 12 sexies, la Suprema Corte segue in prevalenza itinerari che non tengono conto della evoluzione degli orientamenti ormai consolidati verso una omologazione delle misure cautelari reali a quelle personali, prima rammentati, che nel caso di specie dovrebbe essere ancor più stretta, poiché, come in precedenza rilevato, l’applicazione della misura richiede una pregnante prognosi di poter pervenire alla pronuncia di una sentenza di condanna e non può dunque prescindere dalla sussistenza di gravi indizi di colpevolezza a carico della persona sottoposta alle indagini, tanto più necessari per il venir meno del nesso di pertinenza tra la cosa colpita dalla misura e il reato e dalla presunzione di illecita accumulazione del patrimonio.

Secondo l’indirizzo largamente prevalente e confermato recentemente, le condizioni necessarie e sufficienti per disporre il sequestro preventivo in questa ipotesi consistono, quanto al fumus commissi delicti, nel fatto attribuito all’indagato di una delle ipotesi criminose previste dalla norma, senza che rilevino né la sussistenza degli indizi di colpevolezza, né la loro gravità e, quanto al periculum in mora, coincidendo quest’ultimo con la confiscabilità del bene, nella presenza di seri indizi di esistenza delle medesime condizioni che legittimano la confisca, sia per ciò che riguarda la sproporzione del valore dei beni rispetto al reddito o alle attività economiche del soggetto, sia per ciò che attiene alla mancata giustificazione della lecita provenienza dei beni stessi.

È quindi ormai divenuta minoritaria la più condivisibile, ancorché non del tutto soddisfacente tendenza, per cui, ai fini dell’adozione della misura ai sensi dell’art. 12 sexies, per la sussistenza del fumus commissi delicti è necessaria non solo una verifica puntuale e coerente delle risultanze processuali in base alle quali vengono in concreto ritenuti esistenti il reato configurato e la conseguente possibilità di ricondurre alla figura astratta la fattispecie concreta, ma anche la plausibilità di un giudizio prognostico alla luce del quale appaia probabile la condanna dell’imputato per uno dei delitti elencati nel citato articolo, cui consegue in ogni caso la confisca dei beni nella sua disponibilità, allorché sia provata l’esistenza di una sproporzione tra il reddito dichiarato o i proventi dell’attività economica e il valore economico di detti beni e non risulti una giustificazione credibile circa la loro provenienza.

Nelle ipotesi disciplinate dall’art. 12 sexies il requisito della pertinenza tra cosa e reato è irrilevante[70] ed assume invece rilievo quello, di significato peculiare e più ampio, tra il bene e l’attività delittuosa facente capo al soggetto, connotato dalla mancanza di giustificazione circa la legittima provenienza del patrimonio nel possesso del soggetto nei cui confronti sia stata pronunciata condanna, sicché la norma in esame costituisce una deroga, in ragione della specialità, a quella dettata dall’ art. 240 c.p..

Il sequestro preventivo è obbligatorio, in ragione della diretta strumentalità con la confisca, di cui deve assicurare l’effettività.

Spetta al giudice di accertare l’esistenza del fatto costituente reato, trattandosi di indagine che, pur non subordinata alla sola sommaria valutazione ex art. 129 c.p.p., non investe questioni relative all’azione penale, bensì soltanto l’applicazione di una misura di sicurezza, sottratta all’effetto preclusivo della causa estintiva.

b) Oggetto del sequestro e sproporzione tra il valore dei beni posseduti e il reddito e l’attività economica
Il parametro fondamentale per stabilire la legittimità del sequestro preventivo ai sensi dell’art. 12-sexies e della confisca cui è finalizzato, è costituito dalla circostanza che l’indagato non giustifichi la provenienza del danaro, dei beni e delle altre cose di cui abbia la disponibilità a qualsiasi titolo, in valore sproporzionato al proprio reddito dichiarato ai fini della relativa imposta o alla propria attività economica (oltre, ovviamente, alla prognosi della condanna per uno dei reati spia elencati nella norma).

L’ablazione è peraltro impedita quando il patrimonio sia giustificato, o dal valore dei redditi formalmente dichiarati, o dall’attività economica svolta: non è, dunque, sufficiente che ricorra uno solo di detti parametri di sproporzione, sicché non sono assoggettabili a sequestro preventivo e a successiva confisca beni di valore sproporzionato rispetto ai redditi dichiarati, pur se proporzionati all’attività imprenditoriale dell’interessato.

La presunzione di illegittima provenienza delle risorse patrimoniali oggetto di ablazione, deve altresì escludersi in presenza di fonti lecite e proporzionate di produzione, sia che esse siano costituite dal reddito dichiarato ai fini fiscali sia che provengano dall’attività economica svolta benché non evidenziata, in tutto o in parte, nella dichiarazione dei redditi: diversamente opinando, si finirebbe per penalizzare il soggetto sul piano patrimoniale, non per la provenienza illecita delle risorse accumulate, ma per l’evasione fiscale posta in essere, che esula dalla ratio e dal piano operativo dello stesso art. 12 sexies e si colloca in un momento successivo.

Ai fini dell’applicazione della misura cautelare, in conformità ai principi che regolano il processo penale, la prova circa la sproporzione, rispetto alla capacità reddituale lecita del soggetto, del valore economico dei beni da confiscare grava sull’accusa, ma una volta fornita tale prova, sussiste una presunzione relativa di illecita accumulazione patrimoniale, superabile solo attraverso specifiche e verificate allegazioni dell’interessato.

La presunzione relativa di illecita accumulazione patrimoniale non opera se i beni siano formalmente intestati a terzi, in quanto, in relazione ad essi, siccome soggetti estranei al rapporto processuale penale, trova applicazione la regola generale che pone l’onere probatorio a carico dell’accusa.

Tale presunzione vale anche in riferimento ai beni del coniuge dell’indagato, qualora sussista la indicata sproporzione, che è dimostrativa della natura simulata della intestazione, salvo che i beni siano stati acquistati anteriormente al matrimonio[80].

Ai fini della operatività del sequestro preventivo previsto dall’art. 12 sexies e della successiva confisca nei confronti del terzo estraneo alla commissione del reato, grava sull’accusa l’onere di provare l’esistenza di circostanze che avallino in modo concreto la divergenza tra intestazione formale e disponibilità effettiva del bene non essendo sufficiente la sola presunzione fondata sulla sproporzione tra valore dei beni e reddito percepito.

L’acquisto del bene a titolo gratuito, (nella specie per donazione), rende impossibile la valutazione di sproporzione fra il valore del bene medesimo ed i redditi e le attività economiche dell’acquirente ai fini dell’eventuale confisca del bene a norma dell’art. 12 sexies, poiché la presunzione di fittizietà degli atti di trasferimento compiuti – a titolo oneroso o gratuito – dal prevenuto in favore di determinate categorie di persone, prevista in tema di misure di prevenzione patrimoniale dall’art. 26, d.lg. 159/2011, non si applica al sequestro penale finalizzato alla confisca prevista dall’art. 12 sexies, d.l. 306/1992, pur dovendosi ritenere indizi gravi, precisi e concordanti dell’interposizione fittizia di beni dell’indagato ad un terzo, la natura giuridica e le modalità dell’atto dispositivo – nella specie, donazione -, il rapporto di stretta parentela tra le parti dell’atto dispositivo – nella specie, padre e figlio -, la vicinanza temporale tra l’atto di disposizione e la commissione da parte del dante causa di un reato per il quale è prevista la confisca dei beni, la destinazione del bene, le qualità personali dell’avente causa – nella specie, la giovane età –, l’oggetto dell’atto dispositivo – nella specie, una ingente somma di denaro.

Sussiste, altresì, a carico del titolare apparente dei beni una presunzione di illecita accumulazione del patrimonio, in forza della quale è sufficiente dimostrare che costui non svolge un’attività tale da giustificarne la proprietà, per invertire l’onere della prova ed imporre alla parte di dimostrare da quale reddito legittimo proviene l’acquisto e la veritiera appartenenza degli stessi beni.

È assoggettabile a confisca il bene legittimamente acquistato e migliorato con danaro di provenienza non giustificata, ma solo limitatamente alla quota corrispondente a tale incremento di valore.

Il sequestro preventivo deve ritenersi legittimo solo qualora si accerti che il valore dei beni è sproporzionato e i termini di raffronto dello squilibrio, oggetto di rigoroso accertamento nella stima dei valori economici in gioco, devono essere fissati nel reddito dichiarato o nelle attività economiche non al momento della misura rispetto a tutti i beni presenti, ma in quello dei singoli acquisti rispetto al valore dei beni di volta in volta acquisiti , dovendosi ritenere ininfluenti favorevoli vicende economiche successive.

La presunzione di illegittima acquisizione da parte dell’imputato deve essere pertanto circoscritta in un ambito di ragionevolezza temporale, escludendo i beni acquistati in un periodo di tempo eccessivamente antecedente alla commissione del reato.

Il sequestro e la confisca ex art. 12 sexies possono tuttavia avere ad oggetto beni acquisiti in epoca anteriore o successiva al reato per cui è intervenuta condanna indipendentemente dall’effettivo valore del profitto o provento di quest’ultimo.

Per vincere la suddetta presunzione relativa di illecita accumulazione del patrimonio, la persona sottoposta alle indagini può esporre fatti e circostanze rilevanti a propria giustificazione e, secondo una condivisibile decisione, limitare le sue allegazioni al periodo preso in considerazione dal p.m., senza dover assolvere alla probatio diabolica di dimostrare la legittimità dell’intero suo patrimonio: nel momento in cui il requisito del fumus subisce una tendenziale dequotazione, richiedere un maggiore sforzo di specificazione sul piano della sproporzione, soprattutto nei casi in cui si tratti di sequestri di beni acquistati prima della commissione del reato, determinerebbe l’effetto di un sostanziale incremento dell’onere probatorio, che funziona da fattore riequilibratore rispetto allo stesso principio di proporzione, che impone un rapporto ragionevole ed adeguato tra mezzo e scopo e che trova applicazione anche nella materia della speciale confisca.

La “giustificazione” credibile deve consistere nella prova della positiva liceità della loro provenienza e non in quella negativa della loro non derivazione dal reato per cui è stata inflitta la condanna.

Ed il giudice ha l’obbligo di prendere in considerazione tutta la documentazione prodotta, in merito dalla difesa, fornendo adeguata motivazione in ordine alle giustificazioni fornite dagli interessati sulla lecita provenienza dei beni.

È stato altresì precisato che allorquando l’interessato fornisca attraverso una consulenza tecnica la prova della legittima provenienza dei beni, il giudice non può limitarsi ad affermare in modo del tutto generico che questi sarebbe sfornito di redditi adeguati e che la ricostruzione operata dal consulente sarebbe limitata e formale, quindi inadatta a vincere la presunzione di illecita provenienza del bene, ma deve invece dimostrare l’eventuale inattendibilità dell’assunto difensivo.

Secondo il dettato normativo, la confisca obbligatoria si applica anche in caso di applicazione della pena su consenso delle parti, poiché attesa la sua natura eminentemente sanzionatoria, essa si colloca completamente al di fuori della disponibilità delle parti e non lascia spazio a discrezionalità del giudice.

È stato anche deciso che la confisca può riguardare anche cespiti acquisiti in epoca anteriore alla entrata in vigore delle disposizioni, che l’hanno istituita, in quanto il principio di irretroattività opera solo con riguardo alle confische aventi natura sanzionatoria e non anche in relazione alle misure di sicurezza, tra le quali va compresa la confisca in questione.: ma per le ragioni già esposte questo indirizzo non può essere condiviso.

Viceversa, la confisca di un bene condotto in locazione finanziaria da un autore del delitto di cui all’art. 12 sexies, d.l. 306/1992 non può trovare applicazione in danno della società locatrice, terza proprietaria (fino al pagamento dell’ultimo canone) in buona fede.

5.3. Profili di costituzionalità

Il continuo ampliamento delle ipotesi di confisca per equivalente, e quindi del prodromico sequestro preventivo, spesso dichiarato obbligatorio, impone una riflessione sui profili di costituzionalità dell’istituto.

Va infatti constatato con preoccupazione che i già troppo labili confini normativi dell’originario sequestro preventivo c.d. impeditivo o finalizzato alla confisca sono stati resi ancor più evanescenti dalla serie di disposizioni introdotte nell’ordinamento in materia di confisca per equivalente, che, grazie anche alla lettura che ne ha dato la giurisprudenza, hanno provocando inaccettabili semplificazioni, al limite dell’automatismo, nella spoliazione di beni, contaminando il processo penale con finalità e istituti propri delle misure di prevenzione.

Questa deriva sembra arginabile solo parzialmente dalla giurisprudenza della Corte EDU, non sembrando attestate su posizioni garantiste la Corte di legittimità e la Corte costituzionale (salvo ovviamente qualche lodevole eccezione).

Men che meno si può confidare su un intervento del legislatore che ponga ordine a questa complessa materia, ristabilendo l’equilibrio tra difesa sociale e garantismo (com’era nelle originarie intenzioni e più non è): ed anzi le più recenti scelte attuate con la l. 94/2009, la l. 50/2010, di conversione del d.l. 4/2010 e d.lg. 159/2011 (c.d. codice antimafia, che ha stabilito la prevalenza del sequestro di prevenzione su quello penale), vanno nella opposta direzione, sospingendo, non è dato comprendere quanto consapevolmente, il sequestro preventivo finalizzato alla confisca per equivalente verso l’area delle misure di prevenzione, alla quale dovrebbe invece restare estraneo, attraverso una normativa contraddittoria e confusa.

Per altro verso, va rilevato come la declaratoria di rispondenza alla costituzione del sequestro preventivo previsto dall’art. 321 c.p.p., secondo il giudice delle leggi, si sia fondata principalmente sul tasso di pericolosità della cosa e sul vincolo di pertinenzialità tra il bene e il reato, che consente un efficace espletamento del diritto di difesa, attraverso la contestazione di tale nesso in riferimento alla fattispecie dedotta e verificata dal giudice.

In riferimento alla questione di legittimità costituzionale dell’art. 12 sexies d.l. 8-6-1992, n. 306, il tribunale di Santa Maria Capua Vetere aveva denunciato, non senza fondamento, la elusione nell’art. 12 sexies in esame dei principi affermati nella sentenza 48/1994, giacché la possibilità di adottare il provvedimento di sequestro preventivo nel corso del procedimento concernente l’accertamento del reato “presupposto” vanifica la previsione introdotta dal legislatore nel 1° e 2° comma della norma impugnata, ove la qualità di indagato è stata sostituita con quella di condannato, dal momento che, per un verso, sarebbe impedito al giudice del riesame di verificare la gravità degli indizi che sostengono il merito dell’accusa e, sotto altro profilo, risulterebbe svilito il requisito della “immediata correlazione” tra beni e reato che costituisce l’ordinaria condizione di legittimità del sequestro.

La Corte costituzionale ha ritenuto la questione manifestamente infondata, sostenendo che nella specie il sequestro preventivo è destinato esclusivamente ad assicurare l’esecuzione del provvedimento di confisca che deve essere adottato nel caso di condanna a norma del 1° e 2° comma della disposizione censurata, e poiché la confisca ivi disciplinata ha struttura e presupposti diversi dall’istituto generale previsto dall’art. 240 c.p., sarebbe evidente che anche i requisiti di sequestrabilità debbano essere necessariamente calibrati sulla falsariga di quelli previsti per l’adozione del provvedimento ablatorio definitivo, con ovvie conseguenze, quindi, sulla qualificazione stessa del vincolo pertinenziale che di regola deve sussistere tra reato e cose oggetto della misura cautelare reale.

In questa ipotesi, il legislatore avrebbe non irragionevolmente ritenuto di presumere l’esistenza di un nesso pertinenziale tra alcune categorie di reati e i beni di cui il condannato non possa giustificare la provenienza e che risultino di valore sproporzionato rispetto al reddito o alla attività economica del condannato stesso, per cui il parametro di legittimità del sequestro preventivo è costituito dall’identica relazione tra il delitto per il quale si procede e la giustificazione della provenienza dei beni, proprio perché misura è destinata ontologicamente ad impedire la sottrazione o dispersione di questi stessi beni che possono formare oggetto di confisca in ipotesi di condanna.

Sequestro e confisca, in altri termini, rappresentano nel caso di specie, come in tutte le ipotesi riconducibili all’art. 321, 2° comma, istituti fra loro specularmente correlati sul piano dei presupposti, al punto che soltanto deducendo l’illegittimità costituzionale del secondo potrebbe venire in discorso l’illegittimità del primo.

Non sarebbero nemmeno violati il principio di uguaglianza e il diritto di difesa, sia per le considerazioni poste a fondamento della sentenza 48/1994, sia perché la persona cui i beni sono stati sequestrati può in ogni tempo contestare il provvedimento cautelare e provare l’inesistenza dei suoi presupposti attraverso il riesame o domandando la revoca della misura, con l’ulteriore possibilità di proporre appello avverso la decisione del giudice.

Il parametro per affermare la costituzionalità della misura viene quindi individuato nel nesso di pertinenza tra il bene sottoposto a sequestro e il reato.

Tale nesso è però completamente venuto meno nel sequestro finalizzato alla confisca per equivalente, sul quale la sentenza 18/1996 è silente: e anche la successiva decisione 97/2009 si è limitata ad affermare che l’assenza del rapporto di pertinenzialità attribuisce alla confisca per equivalente una connotazione prevalentemente afflittiva ed eminentemente sanzionatoria, che esclude una sua applicazione retroattiva.

In materia, si è recentemente posto in evidenza che l’inaccettabile tendenza a far prevalere le esigenze di difesa sociale sulle garanzie individuali trova una decisa applicazione nelle ipotesi particolari di confisca previste dall’art. 12 sexies, d.l. 8-6-1992, n. 306, ove è venuto meno di ogni nesso di pertinenzialità con il reato presupposto, per cui la sanzione espropriativa consegue al mero sospetto che i beni non giustificati siano frutto dell’illecita attività accertata, senza alcuna dimostrazione che da essa sia derivato un qualsiasi vantaggio economico e in particolare quello costituito dai beni sottoposti alla misura, la quale si caratterizza per l’ampiezza del suo contenuto (esteso a ricomprendervi tutti i beni di valore sproporzionato rispetto al reddito dichiarato), ma anche per l’inversione dell’onere della prova sulla loro legittima provenienza, difficilissima da fornire, con pesante sacrificio del diritto di difesa: e va considerato come la confisca possa derivare anche da una sentenza di patteggiamento e quindi non di piena cognizione.

Secondo indirizzi consolidati, invero, questo tipo di misura cautelare (in ragione della diversità di presupposti con la ordinaria confisca prevista dall’art. 240 c.p., che ha ad oggetto soltanto cose direttamente riferibili al reato) può riguardare beni che non hanno alcun rapporto con la pericolosità individuale del reo e neppure alcun nesso di pertinenza con il singolo reato: attese anche le numerose ipotesi di obbligatorietà del sequestro e la inderogabilità della confisca, i presupposti della misura sono stati individuati nella ravvisabilità di uno dei reati per i quali essa è consentita e nella circostanza che nella sfera giuridico patrimoniale del responsabile non siano stati rinvenuti, per qualsivoglia ragione ed anche in caso di impossibilità transitoria e reversibile di loro reperimento, i beni costituenti il prezzo o il profitto certo del reato.

Sicché il fumus commissi delicti si riduce alla configurabilità di uno dei reati previsti dalle varie disposizioni e viene ulteriormente svuotato dalla presunzione di illecito accumulo del patrimonio, mentre il periculum in mora si limita alla confiscabilità del bene, con la conseguenza che è diventata particolarmente agevole l’ablazione del patrimonio del condannato, vanificando quasi del tutto il diritto di difesa e riducendo il diritto alla prova e al contraddittorio sull’adozione della sanzione ad un mero simulacro di tutela.

Il descritto quadro giuridico induce pertanto a nutrire seri dubbi di costituzionalità del sequestro per equivalente in relazione all’osservanza della presunzione di non colpevolezza, che conserva la sua valenza di regola di trattamento e di giudizio pure nei procedimenti cautelari nonché all’esercizio del diritto di difesa e alla tutela della proprietà privata.

Non sembra sufficiente a rendere l’istituto compatibile con questi principi la tesi, convalidata dalla più recente giurisprudenza, di sopperire alla mancanza del nesso pertinenziale attraverso l’individuazione di un più forte legame soggettivo con il reo, estendendo l’accertamento del fumus commissi delicti agli indizi di colpevolezza a carico dell’indagato.

Sarebbe dunque necessaria una riconsiderazione della sua rispondenza ai principi costituzionali.

Le conclusioni
Le conclusioni sono sconfortanti.

Per lunghi anni gli orientamenti giurisprudenziali sono stati caratterizzati da una quasi totale rinuncia ad una penetrante valutazione dei presupposti di applicabilità della misura, rimessa alle scelte del p.m., e vanificando così nella sostanza la giurisdizionalizzazione della procedura, con sconcertanti automatismi applicativi in una materia che involge interessi protetti dalla costituzione e dalla c.e.d.u.

Solo recentemente i giudici di legittimità stanno scoprendo che al centro di ogni processo penale e dei suoi particolari istituti, quali le misure cautelari reali, vi sempre una vicenda umana e che pertanto non è possibile prescindere da una approfondita disamina della (eventuale) condotta illecita del soggetto indagato, che è preliminare all’accertamento della pericolosità della cosa di cui si vuole impedire l’utilizzazione.

E questa esigenza dovrebbe ancor più valere in materia di sequestro finalizzato alla confisca per equivalente, specie nella forma di cui all’art. 12 sexies, ove è stato reciso qualunque nesso di pertinenza tra il reato e la cosa sottoposta alla misura ablativa ed è quindi del tutto evaporato il presupposto principale posto a fondamento delle decisioni del giudice delle leggi di rispondenza alla costituzione dell’istituto.

Non resta da augurarsi che la giurisprudenza rafforzi e completi il rammentato percorso di omologazione tra i presupposti delle misure cautelari personali e reali, attraverso le interpretazioni rispettose dei principi fissati dalla costituzione e dalla c.e.d.u., poiché un intervento adeguatore del legislatore appare improbabile alla luce degli ultimi indirizzi normativi di avvicinamento al sequestro di prevenzione di quello finalizzato alla confisca per equivalente, così come non sembra possibile riporre fiducia in un nuovo esame dei delineati profili da parte della corte costituzionale.

Piero Gualtieri

già professore ordinario di Diritto processuale penale nell’Università di Urbino

(*) Il presente contributo è stato oggetto di positiva valutazione da parte del Comitato Scientifico.

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