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1. PREMESSA: L'INCOSTITUZIONALITÀ DEL TRATTAMENTO SANZIONATORIO POST IUDICATUM Sappiamo come l'art. 2 Cost. voglia i diritti inviolabili dell'uomo riconosciuti e garantiti “sempre”, ma è dato notorio che il giudicato stabilisca un punto. Perciò, conviene interrogarsi: che ne è dei rapporti tra giudicato ed illegalità della pena? Un tempo qualcuno rispondeva: la pena in executivis non si tocca; la cessazione degli effetti penali delle sentenze irrevocabili di condanna implica necessariamente un'abolitio criminis o una dichiarazione d'illegittimità costituzionale della norma incriminatrice1 . Ammonimento severo, ma proviamo a fare i conti con il nostro ordinamento, con le fonti pattizie e con le corti internazionali. (*) Il presente contributo è stato oggetto di positiva valutazione da parte del Comitato Scientifico. 1 In tal senso, Cass., sez. I, 19 gennaio 2012, n. 27640, secondo cui «l'ultimo comma della L. 11 marzo 1953, n. 87, art. 30, che dispone la cessazione dell'esecuzione e di tutti gli effetti penali delle sentenze irrevocabili di condanna pronunciate in base a norma dichiarate incostituzionali, si riferisce alle sole norme incriminatrici dichiarate incostituzionali». Innanzitutto, solo l'irretroattività sfavorevole ex art. 25 comma 2 Cost. è principio assolutamente inderogabile, non suscettibile di bilanciamento con altri valori costituzionali, perché <> 2 . Invece, spetta alla legge ordinaria la risoluzione del problema circa la retroattività o meno della legge favorevole. L'argomento implica qualche riferimento alla disciplina: l'art. 2 c.p. consacra il principio della retroattività della lex mitior, imponendo la rimozione della sentenza o del decreto penale di condanna irrevocabili, nel caso in cui il fatto commesso cessi di costituire reato per un intervento legislativo successivo al fatto stesso o perché il reato è previsto da un decreto legge non convertito; l’art. 30 della 2 C. Cost., 23 novembre 2006, n. 394. STUPEFACENTI E CONDANNE IRREVOCABILI: LA RIDETERMINAZIONE DELLA PENA INCOSTITUZIONALE (*) Veronica Magnani Fascicolo n. 1/2016 www.ilforomalatestiano.it Pag. 2 di 17 legge n. 87 del 1953 si occupa della dichiarazione di illegittimità costituzionale della norma violata, statuendo che, se la sentenza di condanna è divenuta irrevocabile, ne cessano l'esecuzione e tutti gli effetti penali; nelle ipotesi di abrogazione o di dichiarazione d'illegittimità della norma incriminatrice, l'art. 673 c.p.p. attribuisce al giudice dell'esecuzione il potere d'incidere sulla sentenza o sul decreto, revocandoli. I fondamenti costituzionali di questa disciplina sono facili da identificare: il favor libertatis dell'art. 13 Cost., il finalismo rieducativo della pena e, soprattutto, il principio di uguaglianzaragionevolezza dell'art. 3 Cost. Non sarebbe discriminatorio punire differentemente soggetti responsabili della medesima violazione solo in ragione della diversa data di realizzazione dell'illecito o, ancora, far subire a qualcuno una condanna e i suoi effetti per un fatto che altri potrebbe impunemente commettere in un diverso momento storico? Certo, va evitato3 . Sennonché, osservava la Corte Costituzionale, il principio di retroattività della norma più favorevole, che non ha alcun collegamento con la libertà di autodeterminazione individuale e che si inquadra nell'alveo dell'art. 3 Cost., deve ritenersi suscettibile di «deroghe legittime sul piano costituzionale, ove sorrette da giustificazioni oggettivamente ragionevoli»4 . 3 Così, ex multis, Mantovani, Diritto Penale, Parte Generale, III Ed., 1996, p. 118 ss; FiandacaMusco, Diritto penale. Parte generale, VI ed., 2009, p. 76. 4 C. Cost., 23 novembre 2006, n. 394. Tra queste deroghe, era stata già messa in conto l'esigenza di salvaguardare la certezza dei rapporti ormai esauriti, perserguita statuendo l'intangibilità delle sentenze divenute irrevocabili5 ; ergo, post iudicatum, rileva la successione di leggi penali abolitiva, ma non quella modificativa della disciplina previgente. Sennonché, il limite della definitività della sentenza, con riferimento alla retroattività delle leggi sopravvenute favorevoli al reo, diverse dall'abolitio criminis, viene già meno con il terzo comma dell'art. 2 c.p., inserito dall'art. 14 della l. n. 85 del 2006: nell'ipotesi in cui la legge posteriore sostituisca la pena detentiva con la sola pena pecuniaria, il giudice deve immediatamente convertire la pena disposta nella sentenza irrevocabile6 . E questo è solo l'inizio, perché sulla questione si deve considerare anche la fondamentale incidenza delle fonti pattizie e della giurisprudenza delle corti internazionali. Il principio di retroattività della lex mitior è, infatti, sancito sia a livello 5 C. Cost., 20 maggio 1980, n. 74. 6 La possibilità d'intervenire sul trattamento sanzionatorio era stata già confermata da Cass., sez. unite, 20 dicembre 2005, n. 4687, che, nel riconoscere al GE, nell'ipotesi di revoca di precedenti condanna per intervenuta abolitio criminis ex art. 673 c.p.p., il potere di concedere, nell’ambito dei “provvedimenti conseguenti” alla suddetta pronuncia, il beneficio della sospensione condizionale della pena per altra condanna, ha passato in rassegna diversi istituti che dimostrano come nel codice di rito vigente il principio della immutabilità della cosa giudicata abbia perduto valore assoluto. Ad avviso della Corte: «È sufficiente ricordare, al riguardo, la disciplina del concorso formale e del reato continuato in sede esecutiva (art. 671 c.p.p.), anche nel caso di sentenze di applicazione della pena su richiesta delle parti (art. 188 disp. att. c.p.p.), la revoca di sentenze per abolizione di reati (art. 673 c.p.p.), il ricorso straordinario per errore di fatto (art. 625-bis c.p.p.)». Fascicolo n. 1/2016 www.ilforomalatestiano.it Pag. 3 di 17 internazionale sia a livello comunitario (dall’art. 15 del Patto internazionale sui diritti civili e politici e dall’art. 49 comma 1 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea); di conseguenza, l'applicazione retroattiva è la regola e tale regola è derogabile solo in presenza di interessi di analogo rilievo (quali – a titolo esemplificativo – quelli dell'efficienza del processo, della salvaguardia dei diritti dei soggetti che, in vario modo, sono destinatari della funzione giurisdizionale, e quelli che coinvolgono interessi o esigenze dell'intera collettività nazionale connessi a valori costituzionali di primario rilievo). Pertanto, «lo scrutinio di costituzionalità ex art. 3 Cost., sulla scelta di derogare alla retroattività di una norma penale più favorevole al reo deve superare un vaglio positivo di ragionevolezza, non essendo a tal fine sufficiente che la norma derogatoria non sia manifestamente irragionevole»7 . L'attenzione, in seguito, si focalizza sulle norme della Convenzione per la Salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), rilevanti nel nostro ordinamento quali parametri interposti ex art. 117 comma 1 Cost8 . 7 C. Cost., 23 novembre 2006, n. 393. 8 Con le sentenze gemelle n. 348 e 349 del 2007 la Corte Costituzionale ha affermato che le norme Cedu sono dotate di copertura costituzionale in forza dell'art. 117/1 Cost., nella parte in cui impone il rispetto, da parte della legislazione interna, dei vincoli derivanti dagli obblighi internazionali; pertanto, in caso di potenziale incompatibilità tra norma nazionale e norma convenzionale, il giudice, ove fallisca il tentativo di un’interpretazione conforme alla norma convenzionale interposta, non può autonomamente disapplicare la legge interna, ma deve sollevare questione di legittimità costituzionale della Succede, infatti, che il Sig. Scoppola, condannato dalla Corte di Assise d'Appello alla pena dell'ergastolo per aver commesso un omicidio aggravato e altri reati, ricorre alla Corte Europea, lamentando di essere rimasto vittima di una penalizzante successione normativa: il giorno stesso in cui, all'esito del rito abbreviato, è stato condannato dal GUP, con la riduzione di pena prevista dall'art. 442 comma 2 c.p.p. (così come modificato dalla l. n. 479 del 1999), a 30 anni di reclusione, è entrato in vigore il d.l. n. 341 del 2000 (convertito in l. n. 4 del 2001), che, con una disposizione, definita d'interpretazione autentica (art. 7 del d.l. citato), ha precisato come, nell'ipotesi di pena dell'ergastolo con isolamento diurno (prevista qualora concorra un delitto punibile con l'ergastolo e altri gravi delitti), lo sconto per il rito comportasse la sostituzione non con la reclusione ad anni 30, bensì con l'ergastolo senza isolamento. Così, la Corte d'Assise d'Appello, applicando la legge d'interpretazione autentica (in luogo della lex mitior intermedia, vigente al tempo in cui l'uomo aveva fatto richiesta di accesso al rito abbreviato), ha riformato la sentenza, condannando l'imputato all'ergastolo, e, successivamente, la Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso di Scoppola. Come noto, a questo punto si colloca l'intervento della Corte di Strasburgo, a cui il condannato si è rivolto: l'art. 442 comma 2 c.p.p. oggetto dell’interpretazione autentica e l'art. 7 disposizione interna per violazione del citato art. 117 comma 1 Cost. Fascicolo n. 1/2016 www.ilforomalatestiano.it Pag. 4 di 17 del d.l. n. 341/2000, disciplinando il trattamento sanzionatorio conseguente alla scelta del rito abbreviato, costituiscono norme di diritto penale sostanziale. Da ciò deriva sia l'intervenuta violazione dell’art. 7 della Convenzione, in quanto espressione non solo del principio di non retroattività della legge penale più severa, ma anche, implicitamente, di quello di retroattività della legge penale più favorevole al condannato, sia l'intervenuta violazione dell’art. 6, relativo al diritto ad un processo equo, perché l'imputato, scegliendo il rito speciale, ha fatto legittimo affidamento sulla riduzione di pena prevista al momento della sua richiesta9 . A fronte della conseguente necessità di reintegrare Scoppola nel diritto fondamentale violato, la Corte di Cassazione, adita dalla difesa con un ricorso straordinario ex art. 625 bis c.p.p., pur riconoscendo che «affidare al giudice dell'esecuzione il compito di sostituire la pena inflitta … è pienamente conforme alla normativa vigente», preferisce, evocando il principio della ragionevole durata del procedimento, procedere direttamente a ripristinare gli originari trent'anni di reclusione10. Residua il problema dei “fratelli minori di Scoppola”11, ossia dei condannati al carcere a vita, ammessi al rito abbreviato, che, pur non avendo presentato ricorso individuale alla 9 Corte Edu, caso Scoppola, ric. n. 10249/03, sentenza del 17 luglio 2009. 10 Cass., sez. V, 11 febbraio 2010, n. 16507, Scoppola. 11 Romeo, Giudicato penale e resistenza alla lex mitior sopravvenuta: note sparse a margine di Corte Costituzionale n. 210 del 2013, in www.penalecontemporaneo.it. Corte di Strasburgo, hanno optato per il procedimento speciale nell'arco di tempo compreso tra il 2 gennaio 2000, giorno di entrata in vigore della l. n. 479/99 (che ha consentito l'accesso a tale rito anche per i reati puniti con l'ergastolo), e il 24 novembre 2000, giorno di entrata in vigore del d.l. n. 341 del 2000 (convertito in l. n. 4 del 2001) e della sua disposizione autentica. Per gli altri, invece, partita chiusa; la situazione deve essere identica a quella del Sig. Scoppola: al momento della richiesta del rito alternativo ci deve essere stato un legittimo affidamento nell'applicazione della pena detentiva temporanea. Altrimenti, il processo è equo; quell'ergastolano non ha acquisito alcun diritto a vedersi applicata la più favorevole versione dell'art. 442 comma 2 c.p.p. Sulla questione “fratelli minori di Scoppola” si pronuncia la Corte Costituzionale, dichiarando l'illegittimità costituzionale della norma di cui all'art. 7 d.l. 341/2000 (in riferimento all’art. 117 comma 1 Cost., per violazione dell’art. 7 Cedu) e indicando la possibilità di provvedere in sede esecutiva alla rideterminazione delle pene, applicando la lex mitior intermedia12. Non si prendano, però, iniziative autonome: la Consulta ribadisce la tesi della necessità di un proprio intervento ove occorra dare esecuzione ad una sentenza della Corte EDU, che abbia accertato l’illegittimità di una norma nazionale (tesi già sostenuta nelle sentenze gemelle n. 348 e 349 del 2007). In particolare, il giudice 12 C. Cost., 18 luglio 2013, n. 210. Fascicolo n. 1/2016 www.ilforomalatestiano.it Pag. 5 di 17 dell'esecuzione non può intervenire in via diretta sul titolo esecutivo, autonomamente disapplicando la norma interna sulla base della sentenza della Corte europea, ma deve sollevare questione di legittimità costituzionale della disposizione interna per violazione dell'art. 117 comma 1 Cost., integrato dalla norma convenzionale interposta, così come interpretata dalla Corte di Strasburgo in un caso normativamente identico. Il Giudice delle Leggi, poi, chiarisce: l’ordinamento «conosce ipotesi di flessione dell'intangibilità del giudicato, che la legge prevede nei casi in cui sul valore costituzionale ad esso intrinseco si debbano ritenere prevalenti opposti valori, ugualmente di dignità costituzionale, ai quali il legislatore intende assicurare un primato. Tra questi, non vi è dubbio che possa essere annoverata la tutela della libertà personale, laddove essa venga ristretta sulla base di una norma incriminatrice successivamente abrogata oppure modificata in favore del reo». Evidentemente, allora, lo scenario muta e non solo per i pochi fratelli di Scoppola13. 13 Cass., sez. unite, 24 ottobre 2013, n. 18821, ric. Ercolano, chiudendo la saga dei fratelli minori di Franco Scoppola, ha precisato: «L'istanza di legalità della pena, per il vero, è un tema che, in fase esecutiva, deve ritenersi costantemente sub iudice e non ostacolata dal dato formale della c.d. "situazione esaurita", che tale sostanzialmente non è, non potendosi tollerare che uno Stato democratico di diritto assista inerte all'esecuzione di pene non conformi alla CEDU e, quindi, alla Carta fondamentale. Non va sottaciuto, infatti, che la restrizione della libertà personale del condannato deve essere legittimata, durante l'intero arco della sua durata, da una legge conforme alla Costituzione (artt. 13, comma secondo, 25, comma secondo) e deve assolvere la funzione rieducativa imposta dall'art. 27, Sono dei passe-partout i principi a cui perviene la Corte Costituzionale con la sentenza citata, adoperabili anche alla fattispecie di chi è stato condannato in virtù del d.p.r. 309/1990, come modificato dal d.l. 272/2005. Sul terreno pratico, infatti, nulla cambia: anche nel caso al nostro esame ci troviamo di fronte a una pronuncia d'incostituzionalità (la sentenza n. 32/2014), da cui potrebbe derivare per le condotte di detenzione illecita di droghe c.d. leggere una mitigazione della sanzione inflitta, e a un giudicato che pretenderebbe la definitività di una pena illegittima. 1.1 LA NUOVA LETTURA DELL'ART. 30 COMMA 4 L. N. 87 DEL 1953 Qual è la previsione che autorizza la rideterminazione post iudicatum della sanzione incostituzionale? All'interrogativo di recente si è risposto facendo leva sull'art. 136 Cost. e sull'art 30 comma 1 l. n. 87 del 1953 (ossia, sulla cessazione di efficacia e sull'inapplicabilità della norma dichiarata incostituzionale dal giorno successivo alla pubblicazione della decisione), nonché, sull'art. 30 comma 4 della legge citata. In particolare, quest'ultima disposizione, in deroga alla disciplina che regolamenta il fenomeno della successione di leggi “legittime” nel tempo (art. 2 comma 4 c.p.), ossia della successione di norme sino a quel momento valide ed efficaci, per il comma terzo, Cost., profili che vengono sicuramente vanificati dalla declaratoria d'incostituzionalità della normativa nazionale di riferimento, perché ritenuta in contrasto con la previsione convenzionale, quale parametro interposto dell'art. 117, comma primo, Cost». Fascicolo n. 1/2016 www.ilforomalatestiano.it Pag. 6 di 17 differente fenomeno dell'invalidità originaria (caducazione della norma ex tunc), prevede: «quando in applicazione della norma dichiarata incostituzionale è stata pronunciata sentenza irrevocabile di condanna, ne cessano la esecuzione e tutti gli effetti penali». La rilevante ampiezza del termine “norma” dichiarata incostituzionale (che va oltre i casi d'illegittimità del solo precetto d'incriminazione, com'è, invece, per l'art. 673 c.p.p.), porta a leggere la disposizione come divieto di dare esecuzione alla condanna (o alla porzione della condanna) pronunziata in applicazione di una norma penale dichiarata illegittima, pur incidente unicamente sul trattamento sanzionatorio. Sennonché, non tutti sono d'accordo; vengono ravvisati dei punti deboli: innanzitutto, la cessazione di tutti gli effetti penali è possibile solo se si fa cessare l'esecuzione dell'intera sentenza irrevocabile di condanna (non si dimentichi la congiunzione copulativa «e» che unisce «ne cessano l'esecuzione» a «tutti gli effetti penali»); poi, dato che la sentenza irrevocabile di condanna viene presa in considerazione quale frutto dell'applicazione di una norma dichiarata incostituzionale, l'enunciato linguistico porta a ritenere che la norma dichiarata incostituzionale debba essere quella sulla base della quale l'agente è stato condannato, ossia quella relativa alla fattispecie incriminatrice14. 14 Gambardella, Lex mitior e giustizia penale, Ed. Giappichelli, 2013, p. 181 e segg. 2. L'AMBITO D'INTERVENTO DEL GIUDICE DELL'ESECUZIONE Siamo alle condanne inflitte in relazione alle cd. droghe leggere, perché, a differenza di quanto previsto per le cd. droghe pesanti, la riviviscenza della legge JervolinoVassalli ha determinato la reintroduzione di un regime sanzionatorio più favorevole al reo per gli illeciti commessi, puniti con la pena della reclusione da due a sei anni e della multa da 5.164,57 a 77.468,53 Euro, anziché con la pena della reclusione da sei a venti anni e della multa da 26.000 a 260.000 Euro15. Innanzitutto, nessun dubbio che competa al giudice dell'esecuzione ricondurre la pena inflitta a legittimità; il giudice dell'esecuzione è, infatti, il garante del rapporto esecutivo, che deve essere adeguato alla situazione normativa sopravvenuta16. 15 E' utile rilevare che per le condotte di detenzione illecita di droghe c.d. pesanti, in ossequio al principio della irretroattività della legge penale meno favorevole previsto dall'art. 2 comma 4 c.p. («se la legge del tempo in cui fu commesso il reato e le posteriori sono diverse, si applica quella le cui disposizioni sono più favorevoli al reo, salvo che sia stata pronunciata sentenza irrevocabile»), la norma incriminatrice dichiarata incostituzionale, conducendo in concreto ad un trattamento più favorevole per l'imputato, può continuare a trovare applicazione per le condotte realizzate nel corso della sua vigenza. 16 Espressive dell'orientamento affermativo del potere di rideterminazione della pena in executivis sono: Cass., sez. I, 27 ottobre 2011, n. 977, che attribuisce al G. E. il compito d'individuare la porzione di pena corrispondente all'aggravante della clandestinità prevista dall'art. 61 n. 11 bis c.p. (giudicata incostituzionale con la sentenza n. 249 del 2010) e dichirarla non eseguibile; Cass., sez. I, 4 dicembre 2014, n. 5973, che, in seguito alla declaratoria di illegittimità costituzionale dell'art. 630 c.p., per omessa previsione dell'attenuante del fatto di lieve entità (C. Cost., sent. 19 marzo 2012, n. 68), riconosce al soggetto che stia scontando condanna definitiva per tale reato la possibilità di chiedere in executivis la verifica della sussistenza dei presupposti per il riconoscimento dell'attenuante e, Fascicolo n. 1/2016 www.ilforomalatestiano.it Pag. 7 di 17 L'approdo, però, obbliga a svolgere una serie di considerazioni. In particolare, si tratterà, innazitutto, di rispondere a questa domanda: quando una pena può considerarsi illegale? Secondo un primo orientamento, sono illegali solo le pene quantitativamente incompatibili con l'attuale quadro edittale. Ne consegue che, allorché i termini qualitativi e quantitativi della pena risultino contenuti sia nella legge concretamente applicata, sia in quella che avrebbe dovuto applicarsi nel quadro della legalità costituzionale (cioè, se si attesta nell'attuale massimo edittale di 6 anni di reclusione e nella frazione ricompresa tra i 26.000 e i 77.468 Euro), la pena non potrà essere rideterminata, perché “in concreto” non illegale17. Secondo la giurisprudenza prevalente, però, la conclusione deve essere diversa: l'illegalità della pena va valutata “in astratto”. Indipendentemente dalla sanzione comminata, in presenza di una conseguentemente, di chiedere la rideterminazione della pena; Cass., sez. unite, 29 maggio 2014, n. 42858, che riconosce come, nei casi della declaratoria di incostituzionalità dell’art. 69 comma 4 c.p., relativamente al divieto di prevalenza sulla recidiva reiterata del fatto di lieve entità di cui all’art. 73 comma 5 d.p.r. 309/90 (C. Cost. 215/2012), il GE possa affermare la prevalenza dell'attenuante in parola, rideterminando la pena non ancora interamente espiata. 17 Cfr., Cass., sez. VI, 2 dicembre 2014, n. 1409, cit.: «In tema di patteggiamento avente ad oggetto il reato di detenzione illecita di droghe cosiddette leggere sussiste la illegalità sopravvenuta della pena, solo quando la sentenza - pronunciata prima della dichiarazione di illegittimità costituzionale degli artt. 4 bis e 4 vicies ter del D.L. 30 dicembre 2005, n. 272, convertito con modificazioni della legge 21 febbraio 2006, n. 49, ad opera della Corte costituzionale con sentenza n. 32 del 2014 - faccia riferimento ad una sanzione incompatibile con i limiti edittali formalmente abrogati dalle disposizioni oggetto della pronuncia di incostituzionalità ed oggetto di reviviscenza per effetto di quest'ultima». dichiarazione d'incostituzionalità, in fase esecutiva è necessaria una rivalutazione18; la quantificazione è avvenuta tenendo conto di uno spazio sanzionatorio (il minimo e il massimo edittale) diverso e mutato, ergo, la determinazione è illegittima. Il discorso, poi, è destinato a complicarsi non appena si rivolge lo sguardo ai criteri di rideterminazione della pena. Si registrano tre diverse impostazioni: la prima, secondo cui il giudice dell'esecuzione deve limitarsi a riportare la pena inflitta per le droghe leggere all'attuale massimo edittale (in buona sostanza, a 6 anni), frazionando la pena ed eliminando la parte eccedente19; la seconda, che fa riferimento a un'operazione di tipo aritmetico-proporzionale, ossia la pena, costituzionalmente corretta, da applicare, deve corrispondere in proporzione all'entità della pena comminata sulla base dei limiti edittali in vigore al momento della decisione20 18 In tal senso, Cass., sez. I, 22 maggio 2015, n. 25891, cit.: «Va ribadito, inoltre, che la comparazione tra le fasce edittali previste dalla normativa dichiarata incostituzionale e quelle previgenti (e riattivatesi per effetto della pronunzia di incostituzionalità) porta a ritenere in ogni caso "illegale" il trattamento sanzionatorio inflitto in ipotesi di condotta illecita concernente le droghe c.d. "leggere" (ossia le sostanze rientranti nelle tabelle 2^ e 4^ allegate al D.P.R. del 1990) posto che in relazione a tali sostanze l'intervento normativo dichiarato illegittimo aveva comportato (a differenza di quanto previsto per le altre sostanze) un massiccio incremento dei limiti edittali della sanzione detentiva: il minimo edittale della condotta ordinaria era stato innalzato da 2 a 6 anni, quello della condotta attenuata da sei mesi a 1 anno; il massimo edittale era stato innalzato da 6 a 20 anni nell'ipotesi ordinaria e da 4 a 6 anni per l'ipotesi attenuata». 19 Trib. Milano, sez. XI, 3 aprile 2014, Giud. Cotta. 20 Cfr., tra le tante, GIP Rovigo, 28 marzo 2014, Giud. Mondaini;GIP Mantova, 3 giugno 2014, Giud. Grimaldi; GIP Bologna, 27 maggio 2014, Giud. Fascicolo n. 1/2016 www.ilforomalatestiano.it Pag. 8 di 17 (alcuni si sono orientati su uno sconto di 2/3, perché l’attuale minimo edittale è pari a 2 anni, quindi, la normativa dichiarata incostituzionale triplicava la pena minima); la terza, che, facendo leva sulla necessaria individualizzazione del trattamento sanzionatorio e sul fatto che il giudice della cognizione, nel commisurare la pena ai sensi dell’art. 133 c.p., si è riferito a dei parametri normativi illegittimi, riconosce in capo al giudice dell'esecuzione un autonomo potere discrezionale di determinazione, che tenga conto della più mite cornice edittale attualmente in vigore21. Altro problema spinoso: che ne è del reato continuato, nell'ipotesi in cui le condotte inerenti alle droghe leggere abbiano assunto il ruolo di reatisatellite? Per una tesi, se la pena-base è stata determinata con riferimento a una condotta avente ad oggetto la droga pesante, le modifiche normative, pur scaturenti da dichiarazione d'incostituzionalità della legge apparentemente vigente al momento del giudizio, non comportano la riformulazione del trattamento sanzionatorio, perché i reati minori perdono la loro autonomia sanzionatoria e la pena unica deve essere calcolata solo aumentando la pena individuata per il reato più grave Giangiacomo; Cass., sez. I, 25 novembre 2014, n. 51844. 21 Per esempio, GIP Rovereto, 17 aprile 2014, Giud. Dies; GIP Pisa, 15 aprile 2014, Giud. Bufardeci; GIP Trento, 18 aprile 2014, Giud. Ancona; Cass., sez. VI, 2 dicembre 2014, n. 1409. con quelle che si ritengono adeguate per i reati-satellite22. Sed contra, la rivalutazione è necessaria; la determinazione in concreto della misura dell'aumento da apportare per i singoli reati-satellite non può che avvenire con riferimento agli effettivi parametri edittali previsti per tali delitti (anche se ciò non impedisce al giudice di confermare la pena precedentemente applicata, ritenendola congrua)23. Insomma, una situazione interpretativa – e conseguentemente applicativa – molto complessa. A dirimerla sono intervenute le Sezioni Unite, che, con la sentenza n. 22471 del 26/02/15, pur investite del solo tema della legalità della pena stabilita per il reato continuato, non hanno esitato a chiarire:  la pena è illegale in astratto;  il giudice, come si osserva nella sentenza n. 26340/14 (Di Maggio), deve determinare nello specifico il trattamento sanzionatorio, riesercitando il potere discrezionale conferitogli dagli artt. 132 e 133 c.p., alla luce dei mutati indicatori astratti (il minimo e il massimo edittale);  anche l'aumento di pena calcolato a titolo di continuazione per i reatisatellite in relazione alle droghe leggere deve essere oggetto di specifica rivalutazione, non potendosi prescindere, nel 22 In tal senso, Cass., sez. VI, 6 marzo 2014, n. 12727; Cass., sez. VI, 25 marzo 2014, n. 21608; Cass., sez. III, 30 aprile 2014, n. 27066. 23 V., ex plurimis, Cass., sez. IV, 12 marzo 2014, n. 16245; Cass., sez. IV, 27 maggio 2014, 36244; Cass., sez. IV, 21 ottobre 2014, n. 46825. Fascicolo n. 1/2016 www.ilforomalatestiano.it Pag. 9 di 17 determinare la misura dell'incremento da apportare alla pena-base, con riferimento ai reati minori, dalla più favorevole cornice edittale applicabile a seguito della sentenza della Corte Costituzionale (e ciò, per la natura del reato continuato, che è una fictio iuris, espressione del principio del favor rei, già suscettibile di scissione per l'applicazione di diversi istituti, quali la prescrizione, l'indulto, l'estinzione delle misure cautelari personali e la sostituzione delle pene detentive brevi; perché l'art. 533 comma 2 c.p.p. impone espressamente al giudice, nell'ipotesi di condanna che riguardi più reati, di stabilire la pena per ciascuno di essi e, solo dopo, di determinare la pena da applicare per il reato unitariamente considerato; per consentire la verifica dell'osservanza del limite massino di estensione dell'aggravamento, coincidente, come previsto dall'art. 81 comma 3 c.p., con il cumulo delle singole sanzioni applicabili ai vari reati uniti dalla continuazione);  nell'ipotesi di "droga mista", allorché, applicando la normativa all'epoca (ritenuta) vigente, sia sia concluso per la unitarietà della condotta (sul presupposto della equipollenza tra i due tipi di sostanze stupefacenti), lo sdoppiamento delle fattispecie non potrà risolversi in danno dell'imputato, rimanendo quindi immutata la "pena unica" applicata all'epoca. Nondimeno, e per concludere, sempre sul piano del potere di rideterminazione, si ricordi: il giudice dell'esecuzione procede tenendo conto delle questioni già decise dal giudice della cognizione per ragioni di merito autonome (cioè, per ragioni indipendenti dall'applicazione della norma dichiarata incostituzionale), perché, insegna la Suprema Corte, «... le valutazioni del giudice dell'esecuzione non potranno contraddire quelle del giudice della cognizione risultanti dal testo della sentenza irrevocabile»24. L'intervento in executivis rimane residuale e sussidiario. 2.1 IL FATTO DI LIEVE ENTITÀ Anche nell'ipotesi di fatti di lieve entità concernenti le droghe leggere, la riviviscenza della legge JervolinoVassalli ha determinato la reintroduzione di un regime sanzionatorio più favorevole al reo per gli illeciti commessi (art. 73 comma 5 d.p.r.), puniti con la pena della reclusione da 6 mesi a 4 anni e della multa da 1.032 a 10.329 Euro, anziché con la pena della reclusione da 1 a 6 anni e della multa da 3.000 a 26.000 Euro (per le droghe pesanti la pena detentiva è rimasta invariata). Sennonché, dall'entrata in vigore del d.p.r. n. 309/90 ad oggi, si sono succedute altre due versioni dell'art. 73 comma 5: con il d.l. 23 dicembre 2013 n. 146 (convertito nella l. 21 febbraio 2014 n. 10), il legislatore ha 24 Cass., sez. unite, 29 maggio 2014, n. 42858, Gatto. Fascicolo n. 1/2016 www.ilforomalatestiano.it Pag. 10 di 17 trasformato la circostanza attenuante del “fatto di lieve entità” in una fattispecie autonoma di reato, senza alcuna distinzione tra droghe leggere e pesanti, e ha ridotto la pena detentiva, portandola da 1 a 5 anni di reclusione25; con la l. 16 maggio 2014 n. 79 (di conversione del d.l. 20 marzo 2014 n. 36), il legislatore ha ulteriormente mitigato la risposta sanzionatoria, prevedendo (sempre per tutti i tipi di sostanza supefacente) la reclusione da 6 mesi a 4 anni e la multa da 1.032 a 10.329 Euro. Allora, l'incostituzionalità del trattamento sanzionatorio post iudicatum si scontra con il fenomeno della successione di leggi penali nel tempo. Ci si riferisce al fatto che la sentenza n. 32 della Corte Costituzionale non ha alcuna incidenza sulla validità della nuova incriminazione prevista al medesimo comma 5 dell'art. 73, perché si deve sempre distinguere la declaratoria di illegittimità costituzionale di una norma dal fenomeno della successione delle leggi penali nel tempo, disciplinato dall’art. 2 c.p. Proprio in ragione di tale distinzione, «il giudice dell’esecuzione, nella rimodulazione della pena, dovrà senz’altro tenere conto della versione originaria dell’art. 73, comma 5, d.p.r. n. 309/1990, tornata ipso iure in vigore 25 Cfr., Cass., sez. I, 15 luglio 2015, n. 36760, cit.: «L'effetto della pronunzia di incostituzionalità è stato quello di "riespandere" ... la previgente disciplina incriminatrice e le correlate diverse sanzioni (fermo restando che per l'ipotesi di fatti di lieve entità il limite temporale finale va anticipato al 23 dicembre 2013, essendo il giorno seguente entrata in vigore diversa e autonoma disciplina normativa introdotta dal D.L. n. 146 del 2013)». a seguito dell’intervento del Giudice delle leggi», ma, stante il limite preclusivo di cui all'art. 2 comma 4 c.p., quand'anche la nuova disciplina fosse più favorevole (e lo è senz'altro per i fatti aventi ad oggetto droghe pesanti), mai potrebbe dar rilevanza alle modifiche intervenute con il d.l. n. 146/2013 e con la l. n. 79/2014, relativamente alle sentenze già passate in giudicato26. 3. LA RICHIESTA PER LA RIDETERMINAZIONE Come si esordisce? Innanzitutto, c'è chi dice: non vi è nulla da revocare, l'accertamento del fatto costituente reato e la sua attribuzione alla persona condannata rimane ferma. Si tratta, invece, di dichiarare non eseguibile una data pena e di applicarne una legittima. Quindi, lo strumento processuale non può essere l'art. 673 c.p.p.27 (revoca della sentenza per abolizione del reato), che prende espressamente in considerazione i fenomeni della abrogazione o di dichiarazione d'illegittimità dell'intera fattispecie oggetto della pronuncia irrevocabile, con l'attribuzione al giudice dell'esecuzione del potere di incidere direttamente su questa, cancellandola radicalmente o limitatamente a uno o più dei fatti-reato oggetto di giudizio (cd. revoca parziale), perché quella norma non 26 Le parole citate sono tratte da Turco, Illegittimita costituzionale di una norma penale non strettamente incriminatrice e rimodulazione della pena in executivis: un altro passo verso la graduabile erosione del “mito del giudicato”, in Processo penale e giustizia, n. 3/2015, p. 80. 27 Cfr., in tal senso, Cass., sez. unite, 24 ottobre 2013, n. 18821, ric. Ercolano. Fascicolo n. 1/2016 www.ilforomalatestiano.it Pag. 11 di 17 consente «la scissione del singolo capo d'accusa e la risoluzione del giudicato formale in relazione ad aspetti meramente circostanziali, o sanzionatori, ad esso inerenti»28. Da questa premessa prendono il via due orientamenti: alcuni sostengono l'esistenza di un potere atipico, fondato sulla diretta applicazione dell'art. 30 comma 4 l. n. 87/53, perché il genus delle doglianze da cui può essere investito il giudice ex art. 666 c.p.p. comprende «tutti quei vizi che, al di là delle specifiche previsioni espresse, non potrebbero farsi valere altrimenti considerata l’esigenza di garantire la permanente conformità a legge del fenomeno esecutivo» 29; altri, invece, individuano lo strumento nell'incidente disciplinato dall'art. 670 c.p.p., che rappresenta «un mezzo per far valere tutte le questioni relative non solo alla mancanza o alla non esecutività del titolo, ma anche quelle che attengono alla eseguibilità e alla concreta attuazione del medesimo»30. Circa il momento oltre il quale non è più consentita la rimozione, questo è da individuarsi in quello della completa esecuzione della pena (o della parte di pena) di cui si chiede la rideterminazione. Invero, si sottolinea come la totale espiazione della pena per 28 Così Cass., sez. I, 27 ottobre 2011, n. 977, ric. PM in proc. Hauohu. 29 Così, Cass., sez. unite, 24 ottobre 2013, n. 18821, ric. Ercolano, richiamata da Cass., sez. unite, 29 maggio 2014, n. 42858, ric. Gatto. 30 Così, sempre, Cass., sez. unite, 24 ottobre 2013, n. 18821, ric. Ercolano, nella quale si afferma anche: «Ricorrendo tali condizioni, il giudice dell'esecuzione non deve procedere alla revoca (parziale) della sentenza di condanna, ma deve limitarsi, avvalendosi degli ampi poteri conferitigli dagli artt. 665 e 670 c.p.p., a ritenere non eseguibile la pena inflitta e a sostituirla con quella convenzionalmente e costituzionalmente legittima». un fatto-reato, già giudicato con una pronuncia irrevocabile, renda gli effetti della sentenza irreversibili e, dunque, irrimuovibili, perché l’art. 30 comma 4 della l. 87/1953, prevedendo espressamente la «cessazione dell'esecuzione» della pena, postula che il rapporto esecutivo sia ancora in corso e che la pena sia in fase (o in attesa) di espiazione31. 3.1 LA SOSPENSIONE CONDIZIONALE DELLA PENA Abbiamo considerato gli strumenti processuali suggeriti dalla giurisprudenza prevalente ed è, dunque, fisiologico affrontare i conseguenti maggiori problemi pratici. Supponiamo che una pena originariamente fissata oltre i limiti previsti dall’art. 163 c.p., venga rideterminata entro tali limiti. Secondo la giurisprudenza di merito, sia che si adotti la soluzione dello strumento di cui all'art. 670 c.p.p., sia che si addotti quella della competenza generale del giudice dell'esecuzione di cui agli artt. 665 e 666 c.p.p., il giudice, pur sussistendo i presupposti, non potrà concedere la sospensione condizionale della pena, trattandosi di potere previsto, in fase esecutiva, solo nelle ipotesi di riconoscimento del concorso formale o della continuazione ai sensi dell'art. 671 comma 1 c.p.p. e, implicitamente, nel caso di revoca di cui all'art. 673 c.p.p. («adotta i provvedimenti conseguenti»). Quei giudici, dunque, non nascondono le loro perplessità; è irragionevole la 31 Cfr. Cass., sez. I, 22 dicembre 2014, n. 53793; in senso analogo, Cass., sez. unite, 29 maggio 2014, n. 42858, Gatto, e Cass., sez. I, 22 maggio 2015, n. 25891. Fascicolo n. 1/2016 www.ilforomalatestiano.it Pag. 12 di 17 diversità di disciplina rispetto ai casi analoghi disciplinati dall’art. 673 c.p.p. (e dall’art. 671 c.p.p.). In particolare, si sottolinea come «nonostante la perentorietà delle affermazioni compiute sul punto dalle Sezioni Unite la partita sullo strumento processuale non può ritenersi definitivamente chiusa, considerando che entrambe le sentenze si sono pronunziate su casi in cui la possibilità di concessione della sospensione condizionale della pena era esclusa alla radice (alternativa tra ergastolo e 30 anni di reclusione, nel primo, recidivi reiterati, nel secondo), mentre verrà posta in modo impellente dalle numerose richieste di rideterminazione della pena fondate sull’incostituzionalità della legge c.d. Fini-Giovanardi»32. Si articola, così, il diverso orientamento secondo cui lo strumento processuale per la rideterminazione della pena incostituzionale è la norma di cui all'art. 673 c.p.p., applicabile in via analogica, perché, come ha affermato la Corte Costituzionale (n. 96 del 1996), investita di una questione di legittimità costituzionale dell’articolo citato (per le ipotesi di condanne per più reati uniti in continuazione solo alcuni dei quali oggetto di abolizione), il potere di rideterminazione non è altro che la conseguenza ineludibile della revoca del giudicato. Del resto, se il legislatore ha ritenuto d'introdurre l'art. 673 c.p.p. «proprio al fine di realizzare una più compiuta tutela dei casi previsti dall’art. 2, comma 2 c.p. e 30, comma 4 legge n. 87 del 1953, con revoca della condanna 32 Così, Tribunale di Rovereto, ordinanza del 2 ottobre 2014, Pres. Est. Riccardo Dies. anziché con la sola perdita di efficacia esecutiva, ragioni di coerenza sistematica spingono a ritenere che l’estensione in via interpretativa della norma sostanziale possa e debba implicare anche una corrispondente estensione interpretativa della norma processuale»33. Tale orientamento affonda le sue radici, per un verso, nella comune ratio sottesa, per l'altro, nel principio di parità di trattamento e di legalità delle pene, che impediscono sperequazioni punitive fondate unicamente sul tempo in cui si forma il giudicato. Ne deriva, accedendo a tale impostazione, che, all'esito dell'udienza, il giudice dovrà, da un lato, revocare, limitatamente alla pena, la condanna pronunciata in applicazione di una norma illegittima, dall'altro, rideterminare la sanzione alla stregua della norma legittima, con la possibilità anche di concedere il beneficio della sospensione condizionale negato dal giudice della cognizione per il superamento dei limiti previsti dall’art. 163 c.p. Diversa, invece, la soluzione proposta recentemente dalle Sezioni Unite della Suprema Corte, che, pur ammettendo la possibilità di riconoscere la sospensione condizionale, in conseguenza della determinazione di una nuova pena in sostituzione di quella illegale, continuano a esprimere un netto rifiuto all'applicazione analogica dell'art. 673 c.p.p34. 33 Così, sempre, Tribunale di Rovereto, ordinanza del 2 ottobre 2014. 34 Cfr. Cass., sez. unite, 26 febbraio 2015, n. 37107; in senso analogo, Cass., sez. I, 9 settembre 2015, n. 40702, e Cass., sez. I, 19 giugno 2015, n. 31434. Fascicolo n. 1/2016 www.ilforomalatestiano.it Pag. 13 di 17 In particolare, la conclusione favorevole alla concedibilità della sospensione condizionale della pena nell'ipotesi di rideterminazione in mitius della pena per effetto della dichiarazione d'illegittimità costituzionale di norma incidente in misura sfavorevole sul trattamento sanzionatorio, viene tratta da esigenze di ordine logico, coessenziali alla razionalità del sistema. La legge demanda al giudice dell'esecuzione la funzione di ricondurre la pena inflitta a legittimità, facendone cessare l'esecuzione e tutti gli effetti penali, e proprio dalla necessità di eliminare gli effetti giuridici comunque pregiudizievoli scaturiti dal giudicato s'inferisce la possibilità di concedere il beneficio di cui all'art. 163 c.p. prima precluso. Nihil novi, si è osservato: in executivis, il potere di prendere in considerazione, ricorrendone i presupposti, anche la richiesta del condannato di concessione della sospensione condizionale, è già riconosciuto nel caso di concorso formale e di reato continuato (art. 671 c.p.p.), anche se si tratti di sentenze di applicazione della pena su richiesta delle parti (art. 188 disp. att. c.p.p.), e nel caso di revoca di sentenze per abolizione di reati (art. 673 c.p.p.). Quanto, invece, al giudizio prognostico richiesto dall'art. 164 comma 1 c.p., ossia alla presunzione di astensione del condannato da comportamenti di rilievo penale, il giudice dell'esecuzione, titolare di propri poteri istruttori e valutativi, non potrà circoscrivere il suo apprezzamento alla sola situazione esistente al momento in cui è stata pronunciata la condanna, ma dovrà valutare tutti gli elementi sopravvenuti. Infine, però, mettiamo che il giudicante ritenga di non poter accogliere la richiesta del beneficio. Nessun problema se si tratta di reati giudicati nelle forme ordinarie: il giudice rigetta. Il discorso è, invece, destinato a complicarsi, non appena si rivolge lo sguardo ai reati oggetto di sentenza di patteggiamento, la cui pena, come vedremo, deve essere rideterminata in sede esecutiva attraverso la rinegoziazione dell'accordo tra le parti35. In particolare, al riguardo, si registrano due impostazioni: la prima, secondo cui «resta ferma la valutazione del giudice dell'esecuzione che potrebbe non condividere l'applicazione del beneficio, nel qual caso, non potendo respingere l'accordo, come invece avviene in sede di cognizione, dovrà comunque recepirlo, escludendo la sospensione condizionale, sempre che ritenga congrua la pena»36; la seconda, che ritiene che il diniego del beneficio debba «comportare il rigetto della richiesta a norma dell'art. 444 c.p.p., comma 3 e non l'applicazione della pena con modalità diverse da quelle convenute tra le parti»37. 3.2 LA FUNGIBILITÀ. CONSIDERAZIONI PERSONALI Non solo, a parere di chi scrive, conviene anche interrogarsi sulle “situazioni esaurite”, lette come 35 Vedi infra par. 4. 36 Così, Cass., sez. unite, 26 febbraio 2015, n. 37107. 37 Così, Cass., sez. I, 29 maggio 2015, n. 35842. Fascicolo n. 1/2016 www.ilforomalatestiano.it Pag. 14 di 17 integrale espiazione della pena di cui si chiede la rideterminazione. Si è detto, la rimozione è consentita solo se la pena sia in fase (o in attesa) di espiazione. Tuttavia, la situazione appare stravagante; se la pena (o la parte di pena) ancora da espiare è illegale e, come tale, ingiusta (perché imposta da un legislatore che ha violato la Costituzione38), non si vede perché non debba essere ritenuta tale anche quella già integralmente espiata. Ledendo il principio di uguaglianza/ragionevolezza sancito dall'art. 3 Cost. e quello del favor libertatis desumibile dall'art. 13 comma 1 Cost., si diversifica il trattamento di soggetti che hanno ugualmente riportato una condanna definitiva a pena detentiva e subito un'ingiusta carcerazione sulla base di circostanze meramente casuali (a seconda dell'eventualità che sia in atto il rapporto esecutivo dipendente dal titolo che scaturisce dalla condanna a pena illegittima, o che, invece, la pena sia già stata integralmente espiata in dipendenza di un fattore di natura temporale), senza che ciò trovi alcuna 38 Sull'ingiustizia della pena, cfr., ex plurimis, Cass., sez. unite, 29 maggio 2014, n. 42858. Alla luce della dichiarazione l'illegittimità costituzionale dell'art. 69 comma 4 c.p., nella parte in cui vietava di valutare prevalente la circostanza attenuante di cui all'art. 73 comma 5 d.p.r. 9 ottobre 1990, n. 309, sulla recidiva di cui all'art. 99 comma 4 c.p., riconoscendo al GE il potere di affermare la prevalenza dell'attenuante (fino a quando il trattamento sanzionatorio non sia stato interamente eseguito), la Corte osserva: «Nei confronti del condannato è, pertanto, in atto l'esecuzione di pena potenzialmente illegittima e ingiusta, in quanto parzialmente determinata dall'applicazione di una norma di diritto penale sostanziale dichiarata illegittima dalla Corte costituzionale dopo la sentenza irrevocabile e contrastante con la finalità rieducativa prevista dall'art. 27 Cost.., comma 3». giustificazione nell'art. 30 comma 4 della l. 87/1953, che fa espresso riferimento alla “cessazione dell'esecuzione”, ma che non esclude la praticabilità della via di cui all'art. 12 comma 2 disp. prel. (se una controversia non può essere decisa con una precisa disposizione, bisogna ricorrere alle norme che regolano casi simili o materie analoghe, oppure, in via gradata, ai principi generali dell'ordinamento giuridico dello Stato)39. A ciò si aggiunga quanto affermato dalla giurisprudenza costituzionale: «le finalità rieducative di cui al terzo comma dell'art. 27 Cost. … possono aver senso anche se riferite ad altro reato»40. In termini pratici, che ne è del condannato che, espiata per intero la pena, abbia comunque interesse a chiedere la rideterminazione al fine di computare in detrazione la pena espiata da quelle inflitte per altri reati? Perché il pregiudizio derivante da una limitazione della libertà ingiustamente sofferta, in quanto comminata in forza di una norma geneticamente invalida, non dovrebbe essere rimosso dall'universo giuridico? L'art. 657 c.p.p., che prevede una riparazione in forma specifica per la detenzione risultata ex post ingiusta, consentendo di imputarla alla pena da eseguire per altro reato, non contempla 39 Chi scrive, in realtà, si augura un intervento del legislatore che regoli compiutamente la materia o, quantomeno, una sentenza additiva della Corte Costituzionale. Quanto ai principi dell'ordinamento giuridico su cui ha fatto leva la giurisprudenza che ha ritenuto applicabile in via analogica l'art. 673 c.p.p., si ricordano quello della legalità delle pene e della parità di trattamento punitivo. 40 C. Cost., 14 aprile 1988, n. 442. Fascicolo n. 1/2016 www.ilforomalatestiano.it Pag. 15 di 17 espressamente il caso in questione, ma è evidente la similitudine tra il fenomeno della rideterminazione della pena fondata sull’incostituzionalità della legge e quello dell'abolitio criminis, per cui, invece, è ammessa l'applicazione della fungibilità. L'abolizione del reato (per abrogazione o per dichiarazione d'illegittimità della norma incriminatrice) comporta la cessazione del reato e della relativa sanzione; la dichiarazione d'incostituzionalità della legge c.d. Fini-Giovanardi, invece, fa sopravvivere il reato, ma, comunque, ne muta la sanzione. Ergo, in entrambi i casi, siamo in presenza di un provvedimento che genera un “credito” di pena per una carcerazione indebitamente subita; tale carcerazione, anche alla luce del principio del favor rei, che, per la giurisprudenza, si applica in fase esecutiva, deve poter essere recuperata. 4 LA RIDETERMINAZIONE DELLA PENA PATTEGGIATA Vale a tale proposito quanto osservato sub § 2, la rideterminazione della pena è possibile anche nei casi di sentenza irrevocabile di patteggiamento. Nessun dubbio, infatti, per le Sezioni Unite. La Suprema Corte, con la decisione n. 37107 del 26.2.2015 (ric. Marcon), afferma che la pena applicata su richiesta delle parti per il reato di cui al d.p.r. n. 309 del 1990, art. 73, con riferimento alle c.d. "droghe leggere", con pronuncia divenuta irrevocabile prima dell'intervento della Corte Costituzionale, debba essere rideterminata dal giudice dell'esecuzione. Sennonché, quella decisione si spinge oltre: ciò deve avvenire, «in sintonia con quanto previsto dall'art. 188 disp. att. c.p.p.»41, attraverso la "rinegoziazione" dell'accordo tra le parti ratificato dal giudice dell'esecuzione, investito attraverso un incidente di esecuzione attivato dal condannato o dal pubblico ministero (anch'egli interessato all'eliminazione di una sanzione illegale, quale garante della corretta applicazione della legge); in caso di mancato accordo (per dissenso o inerzia del pubblico ministero), il giudice dell'esecuzione potrà ugualmente accogliere la proposta del condannato. Infatti, «il ricorso analogico alla disposizione in esame non solo consente di intervenire sulla pena illegale della sentenza di patteggiamento irrevocabile, ma assicura alle parti la possibilità di rinnovare l'accordo, rispettando l'essenza stessa dell'istituto dell'applicazione della pena su richiesta»42. In proposito, può essere utile ricordare che l'art. 188 disp. att. c.p.p. disciplina, parallelamente all’art. 671 c.p.p., il riconoscimento della continuazione o del concorso formale in sede esecutiva, con riferimento alle pene inflitte per reati giudicati con plurime sentenze di patteggiamento in procedimenti distinti. Sinteticamente, l'interessato ed il pubblico ministero, dopo aver 41 Così Cass., sez. I, 16 luglio 2015, n. 32239. 42 Così, Cass., sez. unite, 26 febbraio 2015, n. 37107. Fascicolo n. 1/2016 www.ilforomalatestiano.it Pag. 16 di 17 concordato l'entità di una pena che non sia superiore ai cinque anni di reclusione, ovvero ai due anni nelle ipotesi speciali previste nel comma 1 bis dell’art. 444 c.p.p., soli o congiunti a pena pecuniaria, presentano congiuntamente al giudice un’istanza, con la quale chiedono l'applicazione del regime del reato continuato (in quanto tali sentenze sono frutto di un accordo che il giudice si è limitato a recepire e ratificare, dopo averne valutati i presupposti di legge). Il giudice, una volta accertata l’esistenza della continuazione, è vincolato all’applicazione della pena nella misura concordata, mentre, quando vi sia disaccordo da parte del pubblico ministero (sulla quantificazione della pena o sull’esistenza stessa della continuazione), dopo la necessaria verifica dell’unitarietà del disegno criminoso, può ugualmente accogliere la richiesta. Allora, torniamo alla pena incostituzionale e non dimentichiamo l'autorevole dottrina: se lo strumento processuale per la rideterminazione della pena incostituzionale non è l'art. 671 c.p.p., come può essere invocata la parallela norma di cui all’art. 188 disp. att. c.p.p. per i casi di pene illegali inflitte con sentenze di patteggiamento? L'art. 188 disp. att., che ha natura eccezionale, disciplina un’ipotesi precisamente delineata (per la sentenza delle Sezioni Unite richiamata si tratta di una disposizione “speciale” rispetto a quella generale prevista dall'art. 671 c.p.p.); non solo, sembra mancare l’eadem ratio (nel caso di specie, il giudice dell'esecuzione è chiamato esclusivamente ad eliminare la pena "incostituzionale") e la lacuna normativa (la materia è trattata dai commi 3 e 4 dell'art. 30 l. n. 87/1953)43. Infine, altro problema spinoso: cosa succede qualora la pena proposta non sia ritenuta congrua? La via breve è quella di legare il giudice, come nel caso di riconoscimento del concorso formale o della continuazione tra reati, al contenuto dell'accordo negoziato: se la pena è determinata in modo incongruo, non essendo consentito un intervento di modifica da parte del giudice, la soluzione obbligata è il rigetto della richiesta44. Ma questa lettura, con riguardo all'ipotesi di pena incostituzionale, non convince. Invero, sottolineano le Sezioni Unite, se la valutazione negativa in ordine alla congruità della sanzione proposta (sia essa frutto dell'accordo delle parti o indicata dal condannato con il dissenso del pubblico ministero), potesse solo sfociare in un provvedimento reiettivo, si giungerebbe al paradosso di autorizzare la conferma di una pena illegale. Peraltro, continua quella giurisprudenza, l'opzione qui disattesa «appare comunque in contrasto con il principio di ragionevole durata del processo e di economia processuale, in quanto consentirebbe la moltiplicazione delle istanze e la conseguente protrazione dei tempi di decisione, con la permanenza della 43 Giuseppe Riccardi, Giudicato penale e “incostituzionalità” della pena, in Diritto Penale Contemporaneo, 22/12/2014, p. 21. 44 Cfr., tra le tante, in riferimento all'art. 188 disp. att. c.p.p., Cass., sez. I, 2 aprile 2014, n. 18233. Fascicolo n. 1/2016 www.ilforomalatestiano.it Pag. 17 di 17 pena illegale per un tempo indeterminato»45; mentre, il potere di rideterminazione si pone in continuità con la disciplina e il sistema del procedimento speciale, dal momento che sia in sede di cognizione (art. 448 c.p.p.), sia in sede di esecuzione (art. 188 disp. att. c.p.p.), sono previste ipotesi in cui il giudice prescinde dall'esistenza dell'accordo. Perciò, il giudice dell'esecuzione, che non aderisca alla commisurazione del trattamento sanzionatorio, ben potrà rideterminarlo in via autonoma, sulla scorta dei parametri di cui agli artt. 132 e 133 c.p. (con la diminuzione di un terzo spettante per effetto della scelta del rito alternativo), secondo i canoni dell'adeguatezza e della proporzionalità che tengano conto dei nuovi limiti edittali.
 

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PREMESSA Il presente contributo mira ad illustrare il funzionamento degli organi di controllo delle società di capitali non quotate e non aventi strumenti partecipativi diffusi tra il pubblico. In particolare, dopo una breve premessa normativa e dopo aver sinteticamente indagato i compiti di ciascuno di essi, richiamando le attività più significative dagli stessi poste in essere, si vuole fare emergere quali possono essere le opportunità per le società derivanti dalla presenza di tali organi, a prescindere dalla loro obbligatorietà o meno. Il legislatore codicistico regolamenta l'organo di controllo previsto nelle società di capitali agli artt. 2397 c.c. e seguenti per le s.p.a. nella figura del collegio sindacale1 e all’art. 2477 c.c. (*)Il presente contributo è stato oggetto di positiva valutazione da parte del Comitato Scientifico. 1 Ciò vale nel modello di governance tradizionale, nei modelli alternativi c’è il consiglio di sorveglianza o il comitato interno di controllo sulla gestione. per le s.r.l. con la figura del sindaco unico2 . La formulazione dei suddetti articoli ha subito negli ultimi anni numerose modifiche, in particolar modo dal 2010 in avanti. Da ultimo il decreto competitività3 è intervenuto abrogando il comma 2 dell'art. 2477 c.c., che prevedeva l'obbligo di nomina dell'organo di controllo per le s.r.l. con capitale sociale superiore a quello minimo previsto per le s.p.a., diminuito da 120.000 euro a 50.000 euro dallo stesso d.l. n. 91 del 2014. Allo stato attuale, quindi, nelle s.r.l. l’obbligo di nomina dell’organo di controllo sussiste solo quando4 la società:  è tenuta alla redazione del bilancio consolidato; 2 Si precisa che per quanto riguarda le s.a.p.a. la normativa di riferimento è quella delle s.p.a., mentre per le cooperative la normativa di riferimento è quella del modello societario adottato (s.p.a. o s.r.l.). 3 V. art. 20, comma 8, d.l. 24 giugno 2014, n. 91 convertito dalla l. 11 agosto 2014, n. 116. 4 V. art. 2477, comma 3, c.c. GLI ORGANI DI CONTROLLO NELLE SOCIETÀ DI CAPITALI: UN’OPPORTUNITÀ PER L’IMPRENDITORE (*) Di Andrea Angelini, Mariagiovanna Caruso, Simone Galiffa, Eleonora Ursini Casalena, dell’Unione Giovani Dottori Commercialisti ed Esperti Contabili di Rimini Fascicolo n. 1/2016 www.ilforomalatestiano.it Pag. 2 di 7  controlla una società obbligata alla revisione legale dei conti;  per due esercizi consecutivi ha superato i limiti per la redazione del bilancio in forma abbreviata (art. 2435 bis c.c.). Per le altre s.r.l. resta la facoltà di nomina con esplicita previsione nell’atto costitutivo (art. 2477, comma 1, c.c.). In tal caso esso è per legge monocratico, ad eccezione che lo statuto non disponga diversamente. Il suo funzionamento è regolato dalle norme previste per le s.p.a., dove il legislatore prevede sempre, invece, l’obbligo di nomina del collegio sindacale. Parallelamente al collegio sindacale/sindaco unico, che come si vedrà meglio in seguito svolgono una funzione di controllo di legalità, il legislatore ha regolamentato la figura del revisore legale, cui è affidato il controllo contabile della società. In materia la normativa di riferimento è rappresentata dal d.lgs. 27 gennaio 2010, n. 39 che ha recepito la direttiva europea 17 maggio 2006, n. 435. L’obbligo di nomina del revisore legale è sempre previsto nelle s.p.a. mentre nelle s.r.l. sussiste nei casi sopra descritti alternativamente al sindaco unico. In tal caso si precisa che il revisore dovrà limitarsi a svolgere le funzioni ad esso assegnate dalla legge. 5 Il parlamento europeo e il consiglio dell’Unione Europea mediante la direttiva 16 aprile 2014, n. 56 (che ha modificato la direttiva n. 43 del 2006) e il regolamento UE 16 aprile 2014, n. 537, sui requisiti relativi alla revisione legale dei conti degli enti di interesse pubblico hanno approvato la riforma della revisione legale dei bilanci di esercizio e consolidati. L’applicabilità del regolamento è stata posticipata di due anni per farla coincidere con quella della nuova direttiva di revisione, che dovrà essere recepita dai singoli stati membri entro il 17/06/2016. Da ultimo l'art. 6 del d.lgs. 8 giugno 2001, n. 231 ha dato riconoscimento normativo ad un'ultima possibile forma di controllo societario costituita dall'organismo di vigilanza (OdV nel seguito). Tale norma ha previsto la responsabilità degli enti6 per gli illeciti conseguenti alla commissione dei cosiddetti reati presupposto7, responsabilità da cui si può essere esonerati se l’ente si è dotato di un apposito Modello e se vi è un organo deputato al suo controllo. L’OdV è quindi l’organo cui spetta il monitoraggio sull’efficace attuazione del Modello di organizzazione e gestione istituito dagli enti. L’adozione del Modello e quindi dell’OdV non è obbligatoria a differenza di quanto previsto invece nei casi prima illustrati per il collegio sindacale e per l’organo deputato alla revisione legale. IL COLLEGIO SINDACALE Il collegio sindacale deve, ai sensi dell’art. 2403 c.c., vigilare “sull’osservanza della legge e dello statuto, sul rispetto dei principi di corretta amministrazione e in particolare sull’adeguatezza dell’assetto organizzativo, amministrativo e contabile adottato dalla società e al suo concreto funzionamento”. Lo stesso può esercitare inoltre il controllo contabile 6 I destinatari della normativa sono individuati all’art. 1 del d.lgs. n. 231 del 2001: “enti forniti di personalità giuridica e società e associazioni anche prive di personalità giuridica”. La norma non si applica “allo Stato, agli enti pubblici territoriali, agli altri enti pubblici non economici nonché agli enti che svolgono funzioni di rilievo costituzionale”. 7 I reati presupposto sono individuati nel d.lgs. n. 231 del 2001 dall’art. 24 all’art. 25 duodecies. Fascicolo n. 1/2016 www.ilforomalatestiano.it Pag. 3 di 7 nel caso in cui la società non sia tenuta alla redazione del bilancio consolidato. Si compone di tre o cinque membri effettivi e di due membri supplenti8, scelti tra i revisori legali iscritti nell’apposito albo nelle ipotesi in cui si svolga anche la revisione legale dei conti, mentre in presenza di un distinto organo di revisione legale, tale requisito è richiesto solo per un membro effettivo e un supplente9 . Il collegio nella sua attività si attiene alle norme di comportamento redatte dal Consiglio Nazionale dei Dottori Commercialisti e degli Esperti Contabili. Verificata l’insussistenza di cause di ineleggibilità, decadenza e incompatibilità previste dalla legge al fine di valutare la propria indipendenza, il collegio sindacale deve innanzitutto valutare il grado di rischio specifico derivante dall’attività posta in essere dalla società, dalla sua struttura organizzativa, dal sistema di governance e dall’esistenza o meno di un sistema di controllo interno. Il collegio dovrà quindi interfacciarsi con i responsabili delle varie funzioni aziendali e con i soggetti ricoprenti posizioni apicali nell’organigramma aziendale per individuare le aree critiche sulle quali concentrare una più incisiva attività di indagine e pianificare nella maniera più efficiente ed efficace modalità e tempistiche delle verifiche (nel rispetto di quanto 8 Nelle s.r.l., come già detto in precedenza, l’organo di controllo è monocratico (sindaco unico). 9 Gli altri membri possono essere scelti fra gli iscritti negli appositi albi individuati con decreto ministeriale o fra i professori universitari di ruolo in materie economiche o giuridiche. previsto dal legislatore)10. L’esito di queste verifiche sarà riportato nell’apposito libro delle adunanze11. La legge riconosce al collegio i più ampi poteri per poter procedere ad atti di ispezione e controllo12 ed è proprio attraverso questo potere che il collegio sindacale estrinseca la sua funzione principale: quella di supportare la società, sulla base di specifiche competenze professionali, nel raggiungimento di elevati standard di governance. Ed è per questo che tale organo non deve essere visto come un costo per l’impresa, ma come uno strumento di supporto al management nell’assunzione di decisioni strategiche consapevoli, senza tuttavia ingerire mai sulle sue scelte. Il legislatore enfatizza infine il ruolo di garante della legalità del collegio attraverso, da un lato, l’obbligo di espressione di un parere sulle risultanze del bilancio di esercizio, da esprimere con una relazione da indirizzare ai soci, e, dall’altro, la possibilità della denuncia al tribunale ex art. 2409 c.c. degli amministratori nel caso in cui vi sia il fondato sospetto che essi stiano compiendo irregolarità che possano 10 Ai sensi degli artt. 2404 e 2405 c.c. il collegio sindacale deve riunirsi almeno ogni novanta giorni (anche a mezzo di strumenti di telecomunicazione) ed inoltre deve assistere alle adunanze del consiglio di amministrazione, alle assemblee e alle riunioni del comitato esecutivo. 11 A titolo meramente esemplificativo il collegio sindacale deve: verificare l’operato degli amministratori, i contratti più rilevanti posti in essere, la presenza di contenziosi/accessi/ispezioni/verifiche in corso, la copertura dei rischi più significativi, le aree critiche in termini di sicurezza sia ambientale che sul lavoro, la ricezione di segnalazioni da soggetti interni ed esterni, il controllo della tenuta dei libri sociali e il controllo dei dichiarativi. 12 V. art. 2403 bis c.c. Fascicolo n. 1/2016 www.ilforomalatestiano.it Pag. 4 di 7 arrecare danno alla società o ad una o più controllate. LA REVISIONE LEGALE La revisione legale dei conti, ai sensi dell’art. 2409 bis c.c., deve essere esercitata da un revisore legale o da una società di revisione legale iscritti nell’apposito registro13. Come già chiarito nella parte introduttiva, in materia di revisione legale la normativa di riferimento in Italia è rappresentata dal d.lgs. n. 39 del 2010, che ha profondamente stravolto l’ordinamento previgente. Ai sensi degli artt. 11 e 12 del suddetto decreto il 23/12/2014 sono stati adottati, con determina del Ragioniere generale dello Stato, i principi di revisione ISA Italia14, applicabili a decorrere dell’esercizio 2015. Nello svolgimento delle attività il revisore legale deve mantenere indipendenza e obiettività, in conformità al disposto dell’art. 10 del suddetto decreto legislativo. L’approccio del revisore nell’ambito della sua attività deve essere dubitativo, caratterizzato da un adeguato livello di 13 Qualora sia previsto nello statuto, nelle società che non sono tenute a redigere il bilancio consolidato la revisione legale può essere effettuata dal collegio sindacale che in tal caso deve essere composto esclusivamente da revisori legali iscritti nell’apposito registro. 14 Tali principi sono costituiti da:  i principi di revisione internazionali ISA (versione Clarified 2009), dal n. 200 al n. 720, tradotti in italiano dal CNDCEC, Assirevi, CONSOB e INRL e successivamente integrati al fine di renderli applicabili nell’ambito dell’ordinamento italiano;  il principio di revisione SA 250 B, relativo alle verifiche periodiche in materia di corretta tenuta della contabilità sociale;  il principio di revisione SA 720 B relativo all’espressione del giudizio di coerenza della relazione sulla gestione nell’ambito della relazione di revisione. scetticismo professionale, tenuto conto anche della propria esperienza professionale, al fine di valutare attentamente il livello di significatività, il rischio di revisione, la natura delle verifiche da porre in essere, l’acquisizione di elementi probativi, con l’obiettivo di verificare la ragionevolezza e la correttezza dell’operato degli amministratori nell’applicazione della normativa di riferimento per la predisposizione dei documenti di rendicontazione. Sulla base di tali elementi e tenendo pertanto conto della dimensione, della complessità e del livello di rischio, il revisore pianifica l’attività periodica e le verifiche che egli ritiene necessarie ed opportune15 al fine di ottenere un adeguato livello di sicurezza e quindi esprimere un giudizio16 in ordine all’attendibilità del bilancio. Nel corso delle verifiche poste in essere il revisore legale deve raccogliere e archiviare le carte di lavoro e tutta la documentazione a supporto dell’attività svolta, annotando altresì le criticità rilevate al fine di verificare l’avvenuta correzione da parte della società in occasione dei successivi controlli. 15 A mero titolo esemplificativo e non esaustivo il revisore verifica la corretta rilevazione dei fatti di gestione nelle scritture contabili, analizzando a campione, mediante le più opportune tecniche di revisione, le operazioni poste in essere; provvede alla verifica della corretta tenuta e il puntuale aggiornamento dei libri obbligatori previsti dalla normativa civilistica, tributaria e previdenziale; verifica il corretto e puntuale adempimento degli obblighi periodici fiscali e contributivi; effettua le analisi comparative sui saldi contabili di periodo al fine di valutare e ottenere informazioni su eventuali scostamenti significativi. 16 Nella relazione di revisione al bilancio viene formulato, ai sensi dell’art. 14 del d.lgs. n. 39 del 2010, un giudizio che può essere positivo, negativo, con rilievi, impossibilità di esprimere un giudizio. Fascicolo n. 1/2016 www.ilforomalatestiano.it Pag. 5 di 7 In sede di revisione legale del bilancio, il revisore pone in essere tutta una serie di attività, in conformità ai principi di revisione, al fine di verificare che le asserzioni di bilancio siano, nel loro complesso, non viziate da errori significativi e che le stime effettuate dagli amministratori siano improntate alla correttezza e alla ragionevolezza. L’ORGANISMO DI VIGILANZA17 L’OdV può essere mono o plurisoggettivo, composto da membri interni e/o esterni (scelti dall’organo amministrativo)18 e deve essere “dotato di autonomi poteri di iniziativa e di controllo”19. La sua posizione nell’organigramma aziendale è di staff20. Ai componenti dell’OdV si richiedono autonomia e indipendenza, professionalità e continuità d’azione. Non deve quindi venire a configurarsi una sovrapposizione tra la figura del controllore e quella del controllato e non devono esserci conflitti di interessi. 17 Cfr. Confindustria, Linee guida per la costruzione dei modelli di organizzazione, gestione e controllo, approvate il 07/03/2002, aggiornate al marzo 2014; IRDCEC, Documento n. 18 - Linee guida per l’organismo di vigilanza ex d.lgs. n. 231 del 2001 e per il coordinamento con la funzione di vigilanza del collegio sindacale, maggio 2013. 18 È opportuno segnalare che, a seguito della modifica operata dall’art. 14, comma 12, della l. 12 novembre 2011, n. 183, è stato inserito nell’art. 6 del d.lgs. n. 231 del 2001 il comma 4-bis: “Nelle società di capitali il collegio sindacale, il consiglio di sorveglianza e il comitato per il controllo della gestione possono svolgere le funzioni dell'organismo di vigilanza […]” al fine di consentire una riduzione degli oneri per le imprese. 19 Rif. art. 6, comma 1, lettera b), d.lgs. n. 231 del 2001. 20 Si definiscono tali gli organi che non sono dotati di potere gerarchico formale e collocati a lato della linea gerarchica. Si tratta di organi che sviluppano una competenza specialistica e che forniscono consigli, suggerimenti o pareri ai manager di linea per supportare i processi decisionali. Sono richieste specifiche competenze professionali in campo aziendalistico e in campo giuridico, soprattutto penale. Per l’analisi di specifiche aree soggette a rischio l’OdV può avvalersi, con la previsione di uno specifico budget ad esso riservato, di soggetti specializzati. Il monitoraggio deve essere continuo e garantito. Per svolgere le proprie funzioni l’OdV deve avere libero accesso a tutte le informazioni aziendali e poter interfacciarsi con tutte le personalità coinvolte nella gestione dell’ente. L’attività propedeutica e principale dell’OdV è rappresentata dalla comprensione dell’attività svolta dall’ente al fine di identificare i rischi e verificare se gli stessi sono individuati nel Modello e prevenuti: si tratta di individuare un livello di rischio accettabile e verificare, attraverso le diverse attività21 da porre in essere durante lo svolgimento dell’incarico, che il sistema di controllo di cui l’ente si è dotato sia sufficiente a prevenire la formazione dei reati presupposto e a portare i rischi al livello definito come accettabile. In tale attività l’OdV potrà avvalersi dei sistemi di gestione e di controllo già eventualmente presenti, con riferimento in particolare a salute e sicurezza sul lavoro e ambiente. L’OdV deve redigere una relazione, almeno con periodicità semestrale, da trasmettere all’organo dirigente e al 21 Tra le altre cose, l’OdV dovrà verificare l’organigramma aziendale e accertarsi che siano formalizzate le attribuzioni di responsabilità e compiti e siano individuate le linee gerarchiche. Dovrà interfacciarsi con i vari responsabili aziendali per identificare le aree in cui c’è la più alta probabilità di incorrere nei reati di cui al d.lgs. n. 231 del 2001. Dovrà essere verificata la presenza di un sistema efficiente di deleghe, poteri di firma e poteri di spese. Fascicolo n. 1/2016 www.ilforomalatestiano.it Pag. 6 di 7 collegio sindacale sulle attività di verifica e di controllo del Modello poste in essere e sull’esito delle stesse, evidenziando eventuali problematiche riscontrate e le soluzioni da adottare. All’inizio di ogni esercizio (o nella relazione del secondo semestre) l’OdV dovrà pianificare la propria attività, identificando i controlli e le verifiche futuri e indicando le relative tempistiche e dovrà inoltre indicare lo stato di attuazione del Modello22. È chiaro quindi come siano fondamentali per il buon espletamento delle sue funzioni i flussi informativi da e verso l’OdV. Il rapporto principale è certamente quello con l’organo dirigente al quale l’OdV deve segnalare eventuali violazioni accertate del Modello. Di tutta l’attività svolta e degli incontri realizzati l’OdV deve conservare la relativa documentazione, istituendo un apposito libro delle adunanze dell’Organismo di Vigilanza. LE INTERAZIONI TRA I TRE ORGANI La compresenza dei tre organi nelle società deve essere gestita in modo efficiente. Al riguardo l’art. 2409 septies c.c. rubricato Scambio di informazioni dispone che “Il collegio sindacale e i soggetti incaricati della revisione legale dei conti si scambiano tempestivamente le informazioni rilevanti per l’espletamento dei rispettivi compiti”. Nella prassi tale previsione viene di fatto estesa anche all’OdV e così dovrebbe essere 22 L’OdV dovrà anche occuparsi di aggiornare il Modello, soprattutto in concomitanza con il verificarsi di modifiche alla struttura societaria (es. apertura nuove sedi, ampliamento attività, ecc.), modifiche normative e ampliamento dei reati presupposto. previsto normativamente. Difatti una pronta collaborazione tra i tre organi rappresenta certamente condizione necessaria all’efficace espletamento dei loro compiti e quindi al corretto funzionamento del sistema integrato dei controlli societari. Ma non solo. Si ritiene altresì che la collaborazione dovrebbe essere presente in tutte le fasi di svolgimento dell’incarico, sin dalla sua accettazione: tutte le attività poste in essere devono essere oggetto di una pianificazione coordinata e condivisa. Ciò permetterebbe di raggiungere due finalità: da un lato, evitare una duplicazione dei controlli effettuati e, quindi, un inutile aggravio di richieste alla società, e, dall’altro, scongiurare il rischio di tralasciare alcune aree di analisi critiche, ritenendole erroneamente di competenza altrui. Ciò non deve naturalmente andare a minare i principi relativi all’indipendenza di ogni organo. In relazione a quest’ultimo aspetto si chiarisce che le funzioni di ciascuno di essi devono comunque rimanere ben distinte e devono essere esercitate nel rispetto degli obblighi di riservatezza a cui gli stessi sono vincolati, con particolare riferimento al collegio sindacale vista la sua posizione più interna23 alla società. In considerazione del perimetro di azione previsto per ciascun organo dalla legge in precedenza sinteticamente illustrato, è possibile affermare come la simultanea presenza del collegio sindacale, del revisore legale e dell’OdV rappresenti 23 Si ritiene interna alla società la posizione del collegio sindacale considerata la sua partecipazione ai consigli di amministrazione della stessa. Fascicolo n. 1/2016 www.ilforomalatestiano.it Pag. 7 di 7 un’opportunità, indipendentemente dall’obbligo di nomina o meno, in quanto permetterebbe di meglio tutelare i soggetti esterni alla società portatori di interessi nella stessa, ma anche la medesima società e, quindi, il sistema economico generale. La moltiplicazione delle procedure concorsuali cui si sta assistendo negli ultimi anni sarebbe potuta essere in parte prevenuta attraverso un corretto funzionamento del sistema integrato dei controlli qualora anche le società di più piccole dimensioni non obbligate per legge alla nomina del collegio sindacale e del revisore legale si fossero dotate di tali strumenti di controllo. È per questo che si ritiene miope la previsione del legislatore nell’aver circoscritto, con il nuovo disposto dell’art. 2477 c.c., l’obbligatorietà dell’organo di controllo alla forma giuridica della società, lasciando discrezionalità all’imprenditore nella scelta di esservi assoggettato o meno. La previsione obbligatoria del sistema dei controlli dovrebbe invero essere ancorata alla dimensione imprenditoriale della società. Ma non solo. L’imprenditore avveduto dovrebbe avere la lungimiranza di prevedere quale funzione integrante dell’organigramma aziendale uno o più organi di controllo, in maniera tale che gli stessi, svolgendo le funzioni previste dalla legge, in modo professionale e coordinato, gli permettano di assumere decisioni consapevoli e intercettare tempestivamente eventuali irregolarità, errori, reati. È questo il valore aggiunto che deve essere individuato in coloro che ultimamente sono sempre più visti come meri controllori e non come professionisti dalle alte competenze aziendalistiche, in grado di far evolvere culturalmente le società. Si ritiene, infine, che la previsione normativa dell’organo monocratico nelle s.r.l., finalizzata ad alleggerire la struttura dei costi dell’ente, non sia pienamente condivisibile soprattutto nei casi di quelle società di dimensioni notevoli in cui il sindaco unico si troverebbe nell’impossibilità di svolgere con efficacia ed efficienza le proprie funzioni. Allo stesso modo la discrezionalità lasciata alle s.r.l. di scegliere alternativamente tra sindaco e revisore legale non sembra sostenibile, atteso che i due organi hanno funzioni e obiettivi differenti. Sarebbe forse auspicabile che laddove la società scelga di nominare il revisore legale sia previsto normativamente anche l’obbligo del sindaco, al fine di salvaguardare lo svolgimento di quella funzione di garanzia per la società, i soci e i terzi che il legislatore ha voluto assicurare istituendo il collegio sindacale.

 

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1) TRIBUNALE RIMINI, 17 FEBBRAIO 2015 - GIUDICE LA BATTAGLIA - SENTENZA N. 191/15 Diritto alla salute - danno biologico - danno morale L’incremento dei valori tabellari, in funzione del ristoro della sofferenza soggettiva patita dal danneggiato, non può superare la misura del quinto dell’importo liquidato a titolo di “danno biologico”, in ossequio al disposto dell’art. 139, III co., cod. ass. (giudicato costituzionalmente legittimo dalla recente sentenza della Corte Cost., n. 235/14). Né appare consentito “aggirare” tale disposizione procedendo ad una liquidazione “autonoma” del danno morale soggettivo, inteso quale categoria a sé, atteso che in presenza di danno alla salute - si configuri o meno il reato - i patemi d'animo e la mera sofferenza psichica interiore sono normalmente assorbiti in caso di liquidazione del danno biologico, avente tendenzialmente portata «onnicomprensiva». 2) TRIBUNALE RIMINI, 25 GENNAIO 2015 - GIUDICE LA BATTAGLIA - SENTENZA N. 82/2015 Condominio degli edifici - beni e servizi comuni - supercondominio L’elemento caratterizzante del supercondominio consiste nell’estensione delle regole di gestione della cosa comune, proprie della disciplina del condominio, a situazioni nelle quali il bene o servizio comune sia condiviso da un edificio già in sé costituente condominio, con altro edificio strutturalmente autonomo (costituente o meno, a sua volta, in sé condominio). Che due corpi di fabbrica strutturalmente autonomi - e non (o non più) costituenti, tra di loro, un condomino - possano avere (o mantenere) alcuni beni o servizi in comunione, è del resto dimostrato dalla disciplina degli artt. 61 e 62 disp. att. c.c., che consente la separazione di condominii anche laddove restino “in comune con gli originari partecipanti alcune delle cose indicate dall’articolo 1117 del codice” (art. 62, II co., disp. att. c.c.). L’autonoma rilevanza della fattispecie del supercondominio si rivela proprio in fattispecie di questo genere, nelle quali, accanto a beni e servizi comuni soltanto alle unità immobiliari appartenenti ad un determinato edificio (condominiale), si configurano beni e servizi comuni, oltre che a queste ultime, anche ad altre GIURISPRUDENZA Avv. Ivan Bagli Fascicolo n. 1/2016 www.ilforomalatestiano.it Pag. 2 di 6 unità situate in edifici strutturalmente autonomi (siano essi, o meno, a loro volta, dei condominii). Si tratta di insiemi di beni (o servizi) comuni che possono essere del tutto distinti ovvero sovrapporsi parzialmente, ma non mai coincidere del tutto (altrimenti si realizzerebbe la fattispecie del condominio in senso stretto). 3) TRIBUNALE RIMINI, 3 FEBBRAIO 2015 - GIUDICE LA BATTAGLIA - SENTENZA N. 118/2015 Diritto di cronaca - limiti della verità e continenza - presunzione di non colpevolezza Nella cronaca giudiziaria sussiste, in linea generale, l’interesse pubblico alla conoscenza delle notizie, per cui l'indagine sui presupposti di liceità dell’esercizio del diritto di cronaca si incentra sulla verità e sulla continenza. In questo campo la corrispondenza al vero di quanto riferito dal giornalista è tuttavia particolarmente sentita, considerato che il diritto di libertà di informazione e di pensiero deve confrontarsi con il presidio costituzionale della presunzione di non colpevolezza di cui all’art. 27 della Costituzione. 4) TRIBUNALE DI RIMINI, 13 FEBBRAIO 2015 - GIUDICE ZAVAGLIA - SENTENZA N. 156/2015 Danni in materia civile - competizione sportiva professionistica - responsabilità associazione sportiva L’associazione sportiva organizzatrice di competizione ciclistica professionistica su strada è responsabile a titolo di colpa per non aver impedito l’evento concretamente verificatosi (scontro delle biciclette con un’autovettura cui è stato consentito l’accesso al percorso di gara), ed in particolare per non aver segnalato alle autovetture che stavano sopraggiungendo lo svolgimento della competizione, per non avere impedito loro di accedere dalle vie laterali sul percorso di gara nell’imminenza del passaggio dei corridori, per aver fatto accostare le auto in un punto in cui la presenza del guard rail impediva lo sgombero della sede stradale, per non aver segnalato ai ciclisti sopraggiungenti l’esistenza sul percorso di gara dell’ostacolo costituito dalle auto ferme sulla sede stradale. Né può sostenersi che i ciclisti dovessero procedere con la dovuta prudenza sul margine destro della carreggiata secondo le norme del Codice della Strada, dovendosi ritenere che nel corso della competizione sportiva professionistica - con autorizzazione alla sospensione temporanea della circolazione - la carovana sportiva fosse autorizzata ad occupare l’intera carreggiata e a procedere senza uniformarsi alle norme codicistiche e di comune prudenza che regolano generalmente la circolazione stradale, recessive rispetto a quelle specifiche applicabili nel caso di competizione agonistica su strada. 5) TRIBUNALE DI RIMINI, 27 FEBBRAIO 2015 - GIUDICE ZAVAGLIA - SENTENZA N. 240/2015 Danni in materia civile - nesso causale - causalità adeguata - differenza responsabilità civile e penale Fascicolo n. 1/2016 www.ilforomalatestiano.it Pag. 3 di 6 In tema di responsabilità civile, il nesso causale è regolato dal principio di cui agli art. 40 e 41 c.p., per il quale un evento è da considerare causato da un altro se il primo non si sarebbe verificato in assenza del secondo, nonché dal criterio della cosiddetta causalità adeguata, sulla base del quale, all'interno della serie causale, occorre dar rilievo solo a quegli eventi che non appaiano - ad una valutazione "ex ante" - del tutto inverosimili, ferma restando, peraltro, la diversità del regime probatorio applicabile, in ragione dei differenti valori sottesi ai due processi: nel senso che, nell'accertamento del nesso causale in materia civile, vige la regola della preponderanza dell'evidenza o del "più probabile che non", mentre nel processo penale vige la regola della prova "oltre il ragionevole dubbio" (nel caso di specie, il giudice ha ritenuto dimostrato, in quanto altamente probabile, che gli attori avessero contratto la legionella pneumophila presso la struttura alberghiera in cui avevano soggiornato e dove, nella immediatezza dei fatti, era stata accertata dall’ARPA la presenza dello stesso batterio delle legionella cui risultavano essere stati infettati gli attori). 6) TRIBUNALE DI RIMINI, 6 GIUGNO 2014 - GIUDICE ZAVAGLIA - SENTENZA N. 650/2014 Internet - diritto all’identità personale - violazione L’inserimento del nome di un personaggio e dei titoli delle sue opere come “parole chiave” associate ad un sito internet - ovvero come parole che, se digitate dall’internauta nel motore di ricerca, determinano l’apparizione, tra i risultati, del link del sito - può configurare, qualora il sito pubblicizzi un circuito sociale e culturale assolutamente estraneo al predetto personaggio, la violazione del suo diritto alla identità personale, quale proiezione sociale della personalità dell’individuo, cui si correla un interesse del soggetto ad essere rappresentato, nella vita di relazione, con la sua vera identità, a non vedere, quindi, all’esterno, modificato, offuscato o comunque alterato il proprio patrimonio intellettuale, ideologico, etico, professionale, ecc. quale già estrinsecatosi o destinato, comunque, ad estrinsecarsi, nell’ambiente sociale, secondo indici di previsione costituiti da circostanze obiettive ed univoche. 7) TRIBUNALE DI RIMINI, 21 APRILE 2015 - GIUDICE FIDUCCIA - SENTENZA N. 550/2015 Assicurazione responsabilità civile - indennizzo diretto - azione diretta contro assicuratore responsabile civile - alternatività L’art. 149 codice delle assicurazioni private, che ha introdotto il c.d. indennizzo diretto per il danneggiato nei confronti del proprio assicuratore è uno strumento di tutela alternativo che si aggiunge all’azione diretta contro l’assicuratore del responsabile civile ex art. 144 codice assicurazioni private ed all’azione ex art. 2043 c.c. L’estromissione dell’assicuratore del responsabile civile a seguito dell’intervento volontario dell’assicuratore del danneggiato non trova riscontro normativo, essendo Fascicolo n. 1/2016 www.ilforomalatestiano.it Pag. 4 di 6 disciplinata dal codice delle assicurazioni private, all’art. 149 comma 6, solo l’ipotesi inversa di estromissione dell’assicuratore del danneggiato in ipotesi di costituzione dell’assicuratore del responsabile civile. L’intervento adesivo autonomo dell’assicuratore del danneggiato deve essere dichiarato inammissibile difettando di interesse ad agire. 8) TRIBUNALE DI RIMINI, 11 LUGLIO 2015 - GIUDICE TALIA - ORDINANZA Separazione personale dei coniugi - coniugi stranieri cittadini di Stati terzi - legge applicabile alla separazione in mancanza di scelta - Reg. UE 1259/2010 - residenza abituale dei coniugi -provvedimenti provvisori ed urgenti - ordini di protezione In tema di giudizio di separazione personale tra due coniugi stranieri, residenti in Italia, deve preliminarmente ritenersi - in linea con la sentenza della Corte di Giustizia del 29.11.2007 - Causa C-68 - l’applicabilità della normativa UE stante la sussistenza di vincoli sufficientemente forti con il territorio italiano (Regolamento n. 1347/2000), con la conseguenza che il caso di specie, in base all’art. 8 lett. a) del Regolamento n. 1259/2010 del Consiglio dell’Unione Europea in materia di legge applicabile al divorzio e alla separazione personale, va regolato secondo la legge italiana quale legge dello stato della residenza abituale dei coniugi nel momento in cui è adita l’autorità giurisdizionale. Nel novero dei provvedimenti provvisori e urgenti, il Presidente del Tribunale dispone l’allontanamento dalla casa familiare del coniuge che ha avuto atteggiamenti violenti, con altre restrizioni ai sensi degli artt. 1 e 2 L. n. 154/2001 - tra le altre, divieto di avvicinarsi per alcuni mesi a una distanza di 300 mt. ai luoghi abitualmente frequentati dalle figlie e dalla moglie, in particolare all’abitazione, alla scuola frequentata dalle minori e a tutti i luoghi dalle stesse frequentati, se non in contesti predisposti dal servizio sociale - ; inoltre, nello statuire l’affidamento delle figlie minori al Servizio Sociale competente, con collocazione presso la madre, prevede un mandato di vigilanza e di predisposizione di supporti psicologici adeguati in favore delle minori, nonché di controllo delle competenze genitoriali e l’ avvio per il padre ad iter terapeutico per affrontare la problematica degli agiti violenti e maltrattanti presso centro specialistico. 9) TRIBUNALE DI RIMINI, 2 LUGLIO 2015 - GIUDICE BERNARDI - SENTENZA N. 876/2015 Consumatori - fideiussione - accessorietà - usura - commissione massimo scoperto soglia - tasso debitore intrafido Al contratto di fideiussione è astrattamente applicabile la disciplina consumeristica. Considerata l’accessorietà del contratto di fideiussione, ad esso si estende la qualità del debitore principale con disapplicazione della disciplina del codice del consumo al rapporto di fideiussione con la banca, qualora la fideiussione sia prestata da persona fisica in favore di un debitore imprenditore. Fascicolo n. 1/2016 www.ilforomalatestiano.it Pag. 5 di 6 Laddove si volesse considerare la C.M.S. nell’ambito della determinazione del tasso contrattuale effettivamente applicato (ex art. 644, 4° comma c.p.), la sola ipotesi di calcolo legittimo è quella rappresentata dall’applicazione del c.d. criterio della “commissione massimo scoperto soglia”. Nell’ambito di un rapporto di conto corrente, in ipotesi di mancata pattuizione del “tasso debitore intrafido” è illegittimo applicare al correntista un “tasso debitore extrafido” per violazione del dettato contrattuale, dovendosi invece applicare il tasso legale. 10) TRIBUNALE RIMINI, 14 FEBBRAIO 2015 - GIUDICE TALIA - ORDINANZA Separazione personale - ammissibilità sequestro conservativo ex art.671 c.p.c. - concorrenza sequestro ex art.156 comma 6 c.c. L’ammissibilità della richiesta di sequestro conservativo ex art.671 c.p.c. presentata nel corso di un giudizio di separazione personale non è esclusa dalla concorrente possibilità di richiedere la misura prevista dall’art.156 comma 6 c.c., ossia il sequestro di una parte dei beni del coniuge obbligato in caso di inadempienza, in quanto si nega l’identità ontologica, e il conseguente rapporto di specialità, da genere a specie, tra il sequestro conservativo di natura cautelare previsto dall’art.671 c.p.c. ed il sequestro previsto dall’art.156 comma 6 c.c. Separazione personale - sequestro conservativo ex art.671 c.p.c. - titolo esecutivo (provvisorio) - ammissibilità Nel corso di un procedimento di separazione personale è ammissibile la richiesta di sequestro conservativo ex art.671 c.p.c. in presenza di titolo esecutivo, provvisorio o meno, essendo l’obbligazione di mantenimento destinata ad avere durata indefinita, pur se quantificabile con criteri probabilistici, ricomprendendo lo spazio di applicazione della misura cautelare anche crediti futuri, non necessariamente assistiti da titolo esecutivo (si pensi ad esempio alle spese straordinarie, per loro natura non prevedibili). Separazione personale - sequestro conservativo ex art.671 c.p.c. - sussistenza fumus boni juris e periculum in mora A prescindere dalla misura degli obblighi di natura economica che saranno stabiliti dal Collegio con la sentenza definitiva, si osserva che gli stessi, anche valutati, in linea meramente ipotetica solo in favore della prole, saranno comunque destinati a protrarsi nel tempo, per cui non può dunque seriamente dubitarsi della sussistenza del fumus per un arco temporale da stimarsi in considerazione dell’età dei figli e degli attuali tempi Fascicolo n. 1/2016 www.ilforomalatestiano.it Pag. 6 di 6 sociali di inserimento lavorativo. La sussistenza dell’ulteriore requisito del periculum in mora è stata ravvisata, oltreché nell’esito negativo del sequestro e del pignoramento presso terzi, anche nella dispersione delle garanzie patrimoniali, attuata dal coniuge per il tramite di un’operazione artatamente preordinata all’inadempimento, con la quale ha acquistato successivamente all’inizio della separazione un immobile, contraendo un mutuo garantito da ipoteca iscritta anche sulla casa di sua proprietà esclusiva, assegnata con i provvedimenti presidenziali a moglie e figli, vendendo poi tale immobile alla compagna, riservando per sé il diritto di abitazione vitalizio in cambio dell’accollo del mutuo garantito da ipoteca.
 

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Un amico di vecchia data, che ha alle spalle una ormai più che trentennale esperienza in campo di amministrazione condominiale, ama definire il condominio come “la fabbrica delle beghe e l’accademia dei dispetti”. Personalmente aggiungerei che trattasi di una “accademia” dove i cadetti si impegnano al massimo e si laureano per lo più a pieni voti, e quasi sempre anche cum laude. “Dispetto” nella nostra bella lingua italiana è sinonimo non solo di “ripicca” e di “offesa”, ma anche di “molestia”. La locuzione avverbiale “per dispetto” è sinonimo di “apposta”, “di proposito”, “deliberatamente”, “intenzionalmente”: e dunque è sinonimo di qualcosa che si fa “per scelta pensata”; e dunque che si fa “con coscienza e volontà”, e perciò “con dolo” piuttosto che “per fallo”, o “per errore”, o “per sbaglio”, e dunque “per colpa”. D’altra parte, il verbo “molestare” significa “infastidire”, “importunare”; e il sostantivo “molestia” sta a significare “atto che reca danno o disturbo”, e ciò sta in intimo rapporto con la “emulazione” di cui qui dobbiamo occuparci. Infatti, è in questo contesto, e in questo significato linguistico che a mio avviso va collocato e riflettuto il tema degli atti emulativi nel condominio. I condomini – “certi” condomini – infatti, sono talvolta dispettosi e molestatori nei confronti degli altri partecipanti; e quando lo sono, quasi mai lo fanno “per fallo”, o “per errore”, o “per semplice colpa”, ma quasi sempre “deliberatamente”, e cioè “con coscienza e volontà”, e perciò dolosamente. Ecco donde hanno dunque origine gli “atti emulativi” (1 ). (*) Il presente contributo è stato oggetto di positiva valutazione da parte del Comitato Scientifico. 1 ) RAGNO, in Guerra & Pace (e un giallo) sul pianerottolo, Palombi Editori, Roma 2014, degli atti di emulazione in campo condominiale ne offre una vetrina – sia pure in forma ATTI DI EMULAZIONE IN AMBITO CONDOMINIALE* (brevi note sugli) Gennarino Colangelo Fascicolo n. 1/2016 www.ilforomalatestiano.it Pag. 2 di 11 * * * * L’art. 833 del nostro codice civile, che è rubricato «Atti d’emulazione», dispone che: «Il proprietario non può fare atti i quali non abbiano altro scopo che quello di nuocere o recare molestia ad altri»; da cui si ricava che gli elementi costitutivi della emulatività dell’atto sono dati dall’esercizio del diritto di proprietà; poi dalla finalità pregiudizievole nei confronti di coloro ai quali l’atto è rivolto; inoltre dalla inutilità dell’atto per chi lo pone in essere; ed infine dallo scopo di nuocere o recare molestia agli altri. Per cui può subito dirsi che per aversi “atto di emulazione” nel condominio occorre: a) - che il condomino agente lo compia nell’esercizio del diritto di proprietà, ma con il preciso intento di recare danno a colui (id est: all’amato vicino!) avverso il quale l’atto è rivolto; b) - occorre inoltre che l’atto sia assolutamente inutile ed infruttuoso per il condomino che lo compie, e non abbia altro scopo che quello di nuocere o recare molestia a colui romanzata (ma non troppo!) – tanto variegata e completa da lasciare veramente poco spazio all'immaginazione. Sempre in forma romanzata (ed anche in questo caso molto verosimilmente non troppo!), si può andare a «teatro della generale ricaduta nella barbarie di un'intera classe sociale emergente» nel «grattacielo londinese di vetro e cemento, alto quaranta piani e con mille appartamenti» leggendo Il condominio di J. G. BALLARD, Universale Economica Feltrinelli, Milano 2003. Trattasi a mio avviso di due lavori che – unitamente a TERZAGO G. e AA. VV., Sociologia del condominio - Appunti per una riforma, Giuffrè, Milano 1975 – chiunque volesse fregiarsi del titolo di “condominialista” dovrebbe studiarsi molto bene. (sempre all'amato vicino !) nei cui confronti è rivolto. Ciò in cui dunque si sostanzia (si fa per dire!) quello spirito di solidarietà ed equilibrio tra i reciproci diritti ed interessi a cui puntualmente si appella la Suprema Corte ogni volta che è chiamata a delibare sulle limitazioni ex art. 1102 cod. civ. alle quali è sottoposta la massima espansione dell’esercizio del diritto dei condomini sulle parti, sugli impianti e sui servizi comuni, ed in particolare sulla limitazione di natura soggettiva consistente nel non impedire “agli altri partecipanti di farne parimenti uso secondo il loro diritto”. * * * * Ciò detto, venendo alla disamina più propriamente giuridica dell’istituto, è da rilevarsi in primo luogo che il divieto degli atti emulativi è da ricomprendersi tra le limitazioni derivanti dai rapporti di vicinato, e senz’altro trova applicazione anch’esso nel condominio, sia che si abbia riguardo ai rapporti tra le proprietà esclusive che ai rapporti tra queste e le parti, gli impianti e i servizi comuni ex art. 1117 cod. civ. o ex titulo. In linea generale, può dirsi anzi che trattasi della prima limitazione che nella tutela della sfera dei diritti altrui nel sistema del nostro codice civile incontra quella facoltà (rectius: quel diritto) di “godere” e di “disporre” Fascicolo n. 1/2016 www.ilforomalatestiano.it Pag. 3 di 11 della propria cosa «in modo pieno ed esclusivo» affermata dall’art. 832. * * * * Si è già anticipato sopra che a norma dell’art. 833 cod. civ. «Il proprietari non può fare atti i quali non abbiano altro scopo che quello di nuocere o recare molestia ad altri». Come subito appare chiaro ad una prima lettura, con questa norma il legislatore si è prefisso lo scopo di evitare che chiunque possa subire atti emulativi dannosi o molesti, non giustificati da un vantaggio concreto per chi li pone in essere nel godere della cosa che gli appartiene, e che, anzi, sono posti in essere al solo ed esclusivo scopo di «nuocere o recare molestia ad altri». Donde la definizione coniata dalla dottrina subito all’indomani della promulgazione del codice, secondo cui: «atti di emulazione sono quelli che, a rigor di legge, il proprietario (…) potrebbe compiere perché compresi nella sfera del suo diritto come facoltà da questo derivanti; ma che si traducono in veri abusi allorché sono posti in essere, non per raggiungere un’utilità propria, ma per recar danno o molestia ad altri: normalmente al vicino» (2 ). Quanto al contenuto degli atti in parola, in dottrina si fa per lo più riferimento agli “elementi 2 ) Così FERRANTI, Commento al nuovo codice civile italiano - Il libro della proprietà, sub. art. 833, n. 54, pg. 112. caratteristici” (3 ), o agli “elementi costitutivi” (4 ), della fattispecie, in entrambi i casi consistenti: 1°) - nell’esercizio del diritto di proprietà da parte di chi li pone in essere, e dunque nella esplicazione della facoltà di godere e di disporre ex art. 832 cod. civ. della cosa propria, o comune; 2°) - nella totale inutilità dell’atto per il proprietario che li pone in essere; 3°) - nel porli in essere al solo ed esclusivo scopo di nuocere il vicino; 4°) - infine, in ciò che tale scopo venga effettivamente raggiunto attraverso la produzione del nocumento o della molestia ad altri. Altri Autori (5 ) parlano invece di “elementi positivi” e di “elementi negativi” della fattispecie, includendo fra i primi un comportamento che sia: a) - umano positivo; b) - determinato con riferimento al risultato di «nuocere o recare molestia ad altri»; c) - e inoltre accompagnato dalla intenzione di nuocere o molestare altri (animus nocendi); indicando invece nell’elemento negativo l’assenza di utilità dell’atto per il proprietario che lo pone in essere. Altri ancora (6 ) parlano più semplicemente di “presupposti” per 3 ) FERRANTI, Idem, pg. 113. 4 ) BIANCA, La proprietà, del trattato di Diritto Civile, vol. VI°, Giuffrè, Milano 1999, pg. 192 ss.. 5 ) ALLARA, Atti emulativi (dir. civ.), in Encicl. Dir., vol. IV°, Giuffrè, Milano 1959, pg. 34. 6 ) PERLINGIERI, Introduzione alla problematica della «Proprietà», Università degli Studi di Camerino - Scuola di perfezionamento in diritto civile - Lezioni raccolte Fascicolo n. 1/2016 www.ilforomalatestiano.it Pag. 4 di 11 l’applicazione del divieto, o di “elementi” della fattispecie del divieto, individuandoli entrambi: - nel comportamento del soggetto titolare della situazione giuridica soggettiva; - nella qualità o tipo di comportamento; - nella mancanza di vantaggio per il titolare della situazione giuridica soggettiva; - ed infine nel pregiudizio, nello svantaggio o nel danno che subisce un altro soggetto, e cioè la “vittima” dell’atto emulativo. * * * * Seguendo la teoria degli “elementi caratteristici” o degli “elementi costitutivi”, sui requisiti degli atti di emulazione singolarmente visti si annota brevemente quanto segue. - 1° REQUISITO - ESERCIZIO DEL DIRITTO DI PROPRIETÀ Per quanto concerne il primo dei predetti requisiti, per dirsi emulativo l’atto deve dunque sostanziarsi nell’esercizio del diritto di proprietà ( 7 ), o di comproprietà, e cioè nel da Pietro Perlingieri, E.S.I., Ristampa inalterata, CamerinoNapoli 1980, pg. 196. 7 ) Ritiene però la migliore dottrina che la norma vada interpretata estensivamente, nel senso che il divieto colpisca pure l’esercizio emulatorio degli altri diritti reali limitati, quali la comproprietà, l’enfiteusi, il diritto di superficie, l’usufrutto, il diritto d’uso e di abitazione, ed infine la servitù, in cui «presupposto della titolarità del dovere è una titolarità di diritto reale» (v. in tal senso ALLARA, Atti emulativi, cit., n. 7, pg. 37, ivi altra dottrina e giurisprudenza citata alla nota 7). Si vedano inoltre: SALVI, Il contenuto del diritto di proprietà, Artt. 832-833, della Collana Il Codice Civile - Commentario, diretto da Piero Schlesinger, Giuffrè, Milano 1994, n. 6, pg. 136, il quale dice di condividere il pensiero della giurisprudenza che limita il campo di applicazione dell’art. 833 «al campo dei diritti reali», ma ritiene anche possibile di poter condividere il pensiero di altri Autori ivi godimento o nella disposizione del diritto sulla cosa, in che il diritto di proprietà medesimo consiste a norma dell’art. 832 cod. civ.. Inoltre, c’è senz’altro da condividere a mio avviso il pensiero di chi sostiene che il comportamento, e cioè l’atto che il soggetto pone in essere, deve essere necessariamente commissivo, e non anche omissivo, e inoltre che lo stesso (comportamento) si deve sostanziare necessariamente in una condotta materiale (8 ). citati alla nota 24 circa l’estensione a «i diritti personali di godimento – nei rapporti con i terzi – e il possesso»; PERLINGIERI P., Introduzione alla problematica della «proprietà», cit., pg. 196, secondo il quale «questo divieto non è essenziale ed esclusivo della proprietà né delle situazioni soggettive reali, bensì è una caratteristica di tutte le situazioni giuridiche soggettive patrimoniali». Per una restrizione del divieto all’esercizio dei soli diritti reali v. GAMBARO, La proprietà, La proprietà - Beni, proprietà, comunione, del Trattato di Diritto Privato, a cura di Giovanni Iudica e Paolo Zatti, Giuffrè, Milano 1990, pg. 206. 8 ) V. in tal senso PERLINGIERI, Op. cit., pg. 197. Circa la necessità che l’atto sia commissivo e, in particolare, la non idoneità ad integrare la fattispecie un atto omissivo, si veda per esempio Cass., 20 ottobre 1997, n. 10250, secondo la quale: «Gli atti di emulazione non possono consistere in comportamenti omissivi», in Foro It., 1998, I, col. 69, ivi con nota di MOLITERNI - PALMIERI, «Dormientibus iura succurrunt»: eutanasia dell’art. 833 c.c. (nella specie, la mancata potatura di piante che pregiudicavano l’esercizio della servitù di panorama non era stata ritenuta idonea ad integrare la nozione di atto emulativo, con motivazione sul punto del seguente tenore: «A parte il tenore letterale della norma (…) che contiene il termine atti, un termine con il quale si designa una condotta che si estrinseca nell’agire e non nel non fare o nel pati, l’argomento decisivo a favore di tale interpretazione sta nell’incompatibilità di un comportamento omissivo con la nozione di atto emulativo desumibile dalla norma sopra indicata. Infatti, bisognerebbe allora ammettere che l’art. 833 c.c. implicitamente determini, nei debiti casi, un obbligo di fare la cui violazione integrerebbe la condotta vietata; poiché peraltro una condotta attiva comporta di per sé un costo in termini di spesa o di esplicazione di energie psicofisiche, l’astensione da essa non può, di per sé, essere ispirata solo ed esclusivamente, come detta l’art. 833 c.c., dall’animus nocendi, posto che essa rappresenterebbe comunque – consistendo nel non compiere un’attività onerosa – una qualche utilità per il soggetto che decida di compiere una tale scelta. Ne discende che l’atto emulativo non può consistere in un’astensione dal tenere un qualche comportamento, di guisa che o esiste un obbligo di fare, indipendentemente dalla norma di cui all’art. 833 c.c., ed allora il comportamento violatore dell’obbligo troverà nella norma che lo impone anche la sua sanzione, ovvero, se tale obbligo non esiste, una condotta negativa non è idonea ad Fascicolo n. 1/2016 www.ilforomalatestiano.it Pag. 5 di 11 - 2° E 3° REQUISITO - Infruttuosità dell’atto Finalità pregiudizievole per la vittima Quanto alla infruttuosità dell’atto per chi lo pone in essere, e alla finalità pregiudizievole per la vittima, quali ulteriori elementi costitutivi della fattispecie, mentre il primo induce ad escludere il carattere emulatorio in presenza di un qualsiasi vantaggio perseguito dall’agente, tanto che – si è detto in dottrina – il suo intendimento rigoroso porta persino a «legittimare un incontrollabile arbitrio del soggetto» ( 9 ), il secondo (la finalità pregiudizievole) dalla giurisprudenza e dalla dottrina viene generalmente inteso come dolosa intenzione di arrecare ad altri un danno (10), il che vale quanto dire che questo elemento postula il requisito soggettivo consistente nell’animus nocendi (11), integrare la nozione di atto emulativo, non essendo ravvisabile in essa, come esige la norma sopra indicata, il solo scopo di nuocere o di recare ad altri molestia»): così ivi, a fine col. 77 - inizio col. 78. 9 ) BIANCA, Op. cit., n. 86, pg. 193. 10 ) Siccome è richiesto il dolo specifico nella commissione del fatto molesto o nocivo ai danni di terzi (v. per es. in tal senso SALVI, Op. cit., n. 1, pg. 129), la cui dimostrazione è in genere di difficile raggiungimento, specie perché non può aversi provato per presunzione, nella pratica l’istituto della emulazione ha trovato in passato, e continua tuttora trovare, raramente applicazione (concordi in tal senso sono la maggior parte degli Autori, tra i quali si annoverano: GAMBARO, La proprietà, cit., pg. 205 e SALVI, Op. cit., n. 3, pg. 132, ai quali si aggiunge COSTANTINO, Il diritto di proprietà, in Trattato di Diritto Privato, diretto da Rescigno, vol. VII°, UTET, Torino 1982, pg. 221). 11 ) Nella Relazione alla Maestà del Re Imperatore del Guardasigilli Grandi, n. 50, si legge: «L'articolo 24 [poi divenuto l'art. 833 c.c.: n.d.r.] pone il divieto degli atti emulativi. Ho già notato che tale divieto afferma un principio di solidarietà fra privati e nel tempo stesso pone una regola conforme all'interesse della collettività nella utilizzazione dei beni. Quanto alla nozione dell'atto vietato, ho creduto opportuno, per evitare eccessi pericolosi nell'applicazione della norma, esigere espressamente il concorso dell'animus nocendi» (in VACCARO e BRIZI - a cura di - Codice Civile, Libro della proprietà, Tipografia Camera dei Fasci e delle Corporazioni, Roma XIX, sub art. 24, pg. 45). la prova sulla sussistenza del quale è posta a carico del danneggiato (12). Perciò si dice – quanto agli elementi in parola – che per aversi atto emulativo vietato dall’art. 833 cod. civ. occorre non solo che il proprietario della cosa arrechi nocumento o molestia ad altri, ma anche che il fatto sia posto in essere al solo ed esclusivo fine di nuocere o recare molestia ad altri senza un vantaggio proprio: per cui si dovrà ammettere, quale logica conseguenza, che ciò non si verifica quando il proprietario ponga in essere atti, o tenga comportamenti che, pur arrecando in pratica nocumento o molestia ad altri, siano soggettivamente intesi a procurargli un vantaggio, addirittura anche se contrario all’ordinamento giuridico (13). 12 ) Proprio nella difficoltà per il danneggiato (- sul quale incombe l’onere -) di provare che il titolare del diritto che ha posto in essere l’atto non ha tratto da esso alcuna utilità, ma specialmente la ricorrenza dell’animus nocendi, PATTI, Atti emulativi: applicazione incerta dell’articolo 833 del codice civile, in Immobili e diritto, 2005, fasc. 4, pgg. 9 ss., individua la ragione per cui «quasi tutte le cause in materia si risolvono in senso favorevole al proprietario» (loc. cit., pg. 9). Qust’onere probatorio risulta tuttavia generalmente alleggerito dalla giurisprudenza laddove viene ritenuto sufficiente provare che l’atto non risulti giustificato da un interesse del proprietario obiettivamente valutabile. Tuttavia, circa la necessità del concorso del requisito soggettivo de quo, piace rammentare che già nella Relazione alla Maestà del Re Imperatore, n. 50, si avvertiva che la sua previsione espressa nel dettato normativo fu voluta «per evitare eccessi pericolosi nell’applicazione della norma» (v. VACCARO e BRIZI, Codice Civile, Libro della Proprietà, cit., sub. art. 24, pg. 45). 13 ) Si veda in tal senso Cass., 6 febbraio 1982, n. 688, in Giust. Civ., 1983, I, pg. 1577, secondo la quale, appunto: «Non compie atto emulativo il proprietario che ponga in essere atti che, pur arrecando nocumento o molestia ad altri, ed essendo contrari all’ordinamento, siano soggettivamente intesi a procurargli un vantaggio» (nella specie si trattava dell’ispessimento di un muro per il prolungamento di un locale al piano terra, con impedimento della veduta del vicino verso la via pubblica, la cui contrarietà all’ordinamento giuridico consisteva nella occupazione di suolo demaniale, per cui l’opera era stata sospesa con ordinanza comunale) - ivi con breve nota contraria di DE CUPIS, In tema di atti emulativi. Fascicolo n. 1/2016 www.ilforomalatestiano.it Pag. 6 di 11 - 4° REQUISITO - Produzione del nocumento o della molestia ad altri Per quanto infine concerne il danno e la molestia altrui, va comunque precisato che l’atto (o il comportamento) dell’agente per poter essere ritenuto emulativo (e dunque per poter essere sanzionato) è necessario che si traduca in un danno in senso tecnico, che sia non solo apprezzabile nel quantum, ma anche sproporzionato rispetto al vantaggio conseguito dal proprietario (rectius: dal titolare del diritto) che lo ponga in essere (14). Tale ultima condizione (sproporzione tra danno e vantaggio) implica che in subiecta materia sarà necessario operare una valutazione di proporzionalità tra il vantaggio del proprietario e il pregiudizio della vittima; nel senso cioè che, siccome i due elementi non sono completamente autonomi, «ma vanno considerati in una prospettiva collegata», per aversi emulazione occorre che il pregiudizio sia «da un punto di vista economico, ampiamente rilevante» e il vantaggio «di una certa rilevanza sociale, oggettivamente valutabile» (15). 14 ) Tuttavia vi è in dottrina chi sostiene che in subiecta materia l’uso del termine «molestia» sta ad indicare che «si è voluto precisare che non è richiesto un danno, in senso tecnico, quale effetto dell’atto», così che «il danno costituisce pur sempre una molestia, mentre non può dirsi l’inverso; in una dizione più stringata dell’art. 833 si sarebbe potuto parlare soltanto di atti che recano molestia ad altri» (così ALLARA, Atti emulativi, cit., loc. cit., pg. 37). 15 ) In questa luce: PERLINGIERI, Introduzione alla problematica della «proprietà», cit., pg. 198. Conf., PATTI, Atti emulativi, cit., loc. cit., pg. 10; nonché TERZAGO G.-TERZAGO P., I rapporti di buon vicinato, cit., secondo i quali: «tenuto presente che la disposizione vuole essere un’applicazione del principio della solidarietà tra privati, va instaurato un giudizio di proporzionalità tra il danno e la molestia subita dai terzi e l’utilità conseguita dal proprietario, giudizio da condurre alla stregua dei criteri rigorosamente oggettivi, senza dare valore al puro capriccio dei proprietari» (ivi, pg. 18, il corsivo è nostro). D’altra parte, nella stessa identica ottica interpretativa si pone anche la giurisprudenza quando afferma che affinché si abbia un atto di emulazione non solo è necessaria la ricorrenza sia dell’elemento oggettivo (consistente nell’assenza di utilità per il proprietario che lo pone in essere) sia di quello soggettivo (consistente nell’animus aemulandi o nocendi, ossia l’intenzione di nuocere o di recare molestia ad altri): occorre anche che non concorra un apprezzabile vantaggio del proprietario da cui l’atto è stato compiuto (16). Ond’è, perciò, che – contrariamente a quanto costringerebbe a fare il criterio della totale assenza di interesse da parte dell’agente – per determinare l’apprezzabilità (o, se si preferisce, la non trascurabilità) di questo vantaggio, sarà giocoforza necessario fare ricorso al criterio della comparazione tra lo stesso vantaggio del soggetto agente e il danno arrecato ad altri (17), senza che, però, il giudizio di illegittimità dell’atto debba essere necessariamente condizionato alla prevalenza del danno subìto dal terzo rispetto all’interesse perseguito 16 ) V. in tal senso Cass., 25 marzo 1995, n. 3558, in Giur. It., 1996, I, 1, col. 378; anche in Foro It., Rep. 1996, voce Emulazione, n. 1. Conf., v. per tutte: Cass., 16 gennaio 1996, n. 301, in Foro It., Rep. 1996, voce Emulazione, n. 2 e Cass., 5 luglio 1999, n. 6949, per esteso in Foro It., 2001, I, col. 690. 17 ) Afferma GAMBARO, La proprietà, cit., ivi a pg. 209: «In effetti il criterio della comparazione tra gli interessi in gioco è l’autentica chiave di volta che determina l’esito della lite», osservando però che: «il suo impiego rivela che in materia sono possibili due diversi piani del discorso. Infatti chi ritiene vietata una condotta che arrechi ad altri un danno del tutto sproporzionato al vantaggio conseguito preferisce argomentare dal principio generale del divieto dell’abuso del diritto costruito come principio immanente nel nostro sistema. Chi invece ritiene vietata solo la condotta che non arrechi alcun vantaggio al titolare, trascura il piano dei principii e si muove solo su quello della esegesi dell’art. 833 c.c.». Fascicolo n. 1/2016 www.ilforomalatestiano.it Pag. 7 di 11 dall’agente (18), essendo invece sufficiente verificare solo che quest’ultimo sussista in concreto, anche se poi fosse futuro ed ipotetico, oppure anche solo di carattere estetico e non necessariamente economico attuale, salvo che non si tratti di interessi bizzarri, futili o abnormi (19). Di guisa che: «l’interesse del proprietario, che ne giustifica la condotta, deve essere apprezzabile oggettivamente, sulla base di parametri di tipicità sociale» (20); tenendo però presente che: «solo tutto ciò che appare suscettibile di arrecare al fondo un vantaggio, anche potenziale, apprezzabile dal mercato nella varietà dei gusti che esso esprime, è considerato una utilità tale da escludere l’animus nocendi» (21). * * * * Riassumendo, consegue da tutto quanto si è detto fin qui che l’atto emulativo, così come è disciplinato dall’art. 833 cod. civ., si ricomprende tra le limitazioni alle facoltà di godimento della cosa da parte del proprietario, e perciò si inscrive nell’ambito dei limiti al contenuto del diritto di proprietà, sanzionando come 18 ) Infatti, secondo SALVI, Op. cit., n. 5, pg. 135: «la norma esclude il potere del giudice di comparare l’interesse del proprietario (…) con l’interesse del terzo cui l’atto abbia arrecato danno o molestia, al fine di formulare un giudizio di prevalenza». Questo A. ha però rammentato che tuttavia non manca chi (v. ivi la dottrina citata alla nota 19) ha ritenuto che debbano ritenersi comunque vietate le condotte che pure arrechino un vantaggio al titolare, purché il danno arrecato sia sproporzionato rispetto allo stesso. 19 ) Si veda in tal senso: Cass., 18 agosto 1986, n. 5066, in Foro It., Rep. 1986, voce Emulazione, n. 2 (in materia di recinzione del fondo con un muro in sostituzione della rete metallica preesistente). 20 ) SALVI, Op. cit., n. 4, pg. 134. 21 ) GAMBARO, La proprietà, cit., pg. 208. illegittimi – e in quanto tali come vietati – dei comportamenti che in sé, ed astrattamente considerati, sono configurabili conformi al diritto in quanto esplicazioni delle facoltà di godimento della cosa garantite dall'art. 832 cod. civ.. La norma pone dunque il problema di individuare (se possibile) la linea del discrimine che consenta oggettivamente di stabilire quali tra gli atti compiuti dal proprietario nell’ambito del diritto di godere della cosa come proprietario o come titolare di diritti reali minori, che producono molestia o danno ad altri, siano da ritenersi emulativi e quali no. Da quanto detto sopra, può allora dirsi che l’elemento decisivo al riguardo è senz’altro costituito dalla mancanza di un apprezzabile vantaggio dell’atto per chi lo compie. Cosicché, l’assenza di questo, e, in generale, la mancanza di qualsiasi giustificazione di natura utilitaristica dal punto di vista economico e sociale, in linea di principio può essere ritenuto senz'altro segno di esclusiva volontà di nuocere o recare molestia ad altri (animus nocendi o aemulandi). Donde ne consegue la stretta necessità che la valutazione in ordine alla utilità o meno dell’atto posto in essere dal proprietario deve essere effettuata di volta in volta, con riferimento alle caratteristiche che sono proprie delle singole fattispecie scrutinate, siccome, trattandosi – come già detto – di atti di esercizio del diritto di godere della cosa, per definizione dovrebbero considerarsi tutti leciti e legittimi. Fascicolo n. 1/2016 www.ilforomalatestiano.it Pag. 8 di 11 In definitiva, dunque, conformemente al consolidato indirizzo della Suprema Corte (22) si può dire che la sussistenza di un atto emulativo presuppone il concorso di due elementi: - uno oggettivo, consistente nella mancanza di utilità per chi lo compie; - l’altro soggettivo, consistente nel solo scopo di nuocere o recare molestia ad altri. Tutto ciò sotto il profilo sostanziale. Sul piano processuale, brevissimamente si rammenta che quanto al rimedio esperibile dal soggetto danneggiato – o molestato che dir si voglia – l’art. 833 cod. civ. nulla dice di specifico in proposito, e perciò si ritiene che bisogna valutare caso per caso la situazione lesa (23). Si può comunque dire che, oltre al generalissimo rimedio della inibitoria, qualora dall’atto molesto derivi un danno risarcibile, sarà esperibile la relativa azione di risarcimento, sia per equivalente che in forma specifica (24), in cui, se da un lato «non è richiesto che l’attore provi le ragioni del malanimo del convenuto nei suoi confronti, ma solo gli elementi da cui si può trarre il ragionevole convincimento della inutilità pratica della condotta da lui intrapresa», dall’altro occorre pur sempre che fornisca la prova del danno o della molestia che tale condotta gli 22 ) Si vedano per tutte in tal senso, tra le più recenti: Cass., 11 aprile 2001, n. 5421, in Arch. Locaz. e Cond., 2001, pg. 659; Cass., 5 luglio 1999, n. 6949, cit., loc. cit.; Cass., 9 ottobre 1998, n. 9998, in Foro It., Rep. 1998, voce Emulazione, n. 6; Cass., 3 dicembre 1997, n. 12258, ivi, Rep. 1997, voce cit., n. 2, e numerose altre più e meno recenti. 23 ) In tal senso SALVI, Op. cit., n. 7, pg. 137. 24 ) Conf., v. BIANCA, Op. cit., n. 88, pg. 198. stia arrecando, o che gli abbia arrecato ( 25). Quanto poi al profilo probatorio, sembra addirittura superfluo rammentare che l’onere della prova sull’animus nocendi incombe all’attore, oltre che per principio processualcivilistico generale, anche perché, come è noto, gli atti di esercizio del diritto di proprietà si presumono sempre in sé legittimi. Ma è evidente che proprio qui sta la vera difficoltà pratica dell’applicazione dell’istituto: provare l’intenzionalità del fatto, e con essa l’unica finalità dello stesso di nuocere o recare molestia ad altri, non è facile, e la scaltrezza di chi (come “certi” condomini) è abituato ad infastidire gli altri rischia purtroppo di farla generalmente franca! * * * * APPLICAZIONE DELL’ISTITUTO AL CONDOMINIO Come si è già accennato sopra, circa poi il campo di applicazione dell’istituto, non vi sono dubbi – né in dottrina né in giurisprudenza – sull’applicabilità dell’art. 833 cod. civ. anche nell’ambito del condominio negli edifici, sia per quanto attiene ai rapporti tra le proprietà esclusive, che tra queste e le parti comuni. Invero, per quanto concerne le interferenze e le limitazioni tra le parti comuni e le proprietà solitarie, è noto che nel condominio la disposizione dell’art. 1102 cod. civ. regola soltanto il 25 ) In tal senso GAMBARO, Op. cit., pg. 208; conf., si veda anche SALVI, Op. cit., n. 7, pg. 138. Fascicolo n. 1/2016 www.ilforomalatestiano.it Pag. 9 di 11 concorso nel godimento dei condomini sul bene comune, e nulla ha a che fare con i rapporti tra le parti oggetto di proprietà esclusiva, sia tra di loro che in relazione alle parti comuni: rapporti, questi, che trovano la loro regolamentazione nelle disposizioni sulla proprietà in generale, tra cui va appunto ricompresa quella dell’art. 833 cod. civ. sull’emulazione (26). Nell’ambito del condominio, l’applicazione di questa norma trova gli stessi spazi operativi, e le stesse limitazioni, di cui si è detto sopra a proposito di rapporti tra proprietà limitrofe, nessuno escluso. Occorre anche qui infatti che concorrano entrambi i requisiti dell’emulazione, concernente l’uno la inutilità dell’atto per il condomino agente, e l’altro la volontà di nuocere o recare molestia ad altri condomini (e Dio solo sa quanto frequenti e raffinate talvolta sono nel condominio l’arte del dispetto e la pratica della molestia!). Ad ogni modo, siccome il comportamento dell’agente deve essere necessariamente commissivo, e non omissivo, e per di più si deve sostanziare anche in una condotta materiale, non essendo invece idonea una attività conforme alla situazione 26 ) Si veda in tal senso Cass., 14 marzo 1975, n. 970, cit., loc. cit. («La limitazione degli usi cui possono essere destinate le unità immobiliari di proprietà esclusiva, facenti parte di un condominio, possono derivare dal regolamento condominiale approvato da tutti i condomini. Infatti le disposizioni dell’art. 1102 c.c. regolano soltanto il concorso del godimento dei condomini sul bene e non già i rapporti tra le parti oggetto di proprietà esclusiva, tra di loro e in relazione alle parti comuni: rapporti che trovano la loro regolamentazione nelle disposizioni sulla proprietà in generale, e in particolare negli artt. 833 e 844 c.c., mentre l’art. 1122 c.c. riguarda soltanto il compimento di opere nel piano o porzione di piano di proprietà esclusiva, che possono danneggiare le parti comuni dell’edificio, e non già una semplice destinazione della proprietà esclusiva ad un uso piuttosto che ad un altro»). giuridica soggettiva, come per esempio si ha nel caso di un’azione giudiziaria ( 27); siccome, cioè, non può qualificarsi atto emulativo vietato dall’art. 833 cod. civ. la pretesa del proprietario di un fondo volta a far valere in giudizio i diritti che gli competono per legge o per contratto che assume violati, ed è irrilevante che tale violazione non sia tradotta in un suo danno concreto ed effettivo (28); ne consegue per esempio in primo luogo che in campo condominiale l’art. 833 cod. civ. non può essere invocato contro un partecipante il quale eserciti il proprio diritto di rivolgersi al giudice per far dichiarare l’asserita nullità di una delibera dell’assemblea condominiale ( 29). Così come non può ritenersi – per le stesse ragioni – che costituiscano atti emulativi le azioni (prime fra tutte quelle concernenti gli atti conservativi ex art. 1130, n. 4 cod. civ.) che vengono promosse dall’amministratore per ottenere la cessazione degli abusi commessi nell’uso delle parti, degli impianti e dei servizi comuni da parte dei condomini che, servendosene a vantaggio della loro proprietà esclusiva, li sottraggono alla possibile 27 ) In dottrina si veda PERLINGIERI, Op. cit., pg. 197. Conf., nel senso che resta fuori dall’ambito di applicazione dell’art. 833 cod. civ. l’esercizio dell’azione in giudizio, si veda anche SALVI, Op. cit., pg. 136. In giurisprudenza, v. per tutte Cass., 10 gennaio 1983, n. 173, in Foro It., Rep. 1983, voce Proprietà (azione a difesa), n. 19 («L’esperimento dell’actio negatoria servitutis, in quanto diretta a tutelare la consistenza e libertà da pesi del fondo, non può configurare atto d’emulazione secondo la previsione dell’art. 833 c.c.»). 28 ) Si vedano per tutte in tal senso Cass., 11 settembre 1998, n. 9001, in Foro It., Rep. 1998, voce Emulazione, n. 8 e Cass., 19 febbraio 1996, n. 1267, ivi, Rep. 1996, voce cit., n. 3. 29 ) V. Cass., 17 ottobre 1969, n. 3394, in Giur It., 1970, I, 1, col. 1228. Fascicolo n. 1/2016 www.ilforomalatestiano.it Pag. 10 di 11 utilizzazione comune, anche se non ancora di interesse attuale (30). Analogamente, alla categoria degli atti emulativi neppure è riconducibile una deliberazione assembleare tesa alla tutela e alla conservazione dei diritti dei condomini sulle cose comuni, quale per esempio è quella che, nel disporre il ripristino della recinzione della terrazza a livello attraverso la installazione di una rete divisoria fra la parte di proprietà esclusiva del condomino e quella di proprietà comune, abbia la finalità di impedirne l’usucapione e di delimitare il confine, garantendo a tutti i condomini l’accesso alla parte comune ( 31). Per contro, emulativo è stato invece ritenuto il comportamento del condomino che si era opposto ad una innovazione valida, perché dettata solo da intenti speculativi e ricattatori, ovvero al solo evidente scopo di arrecare agli altri condomini il maggior danno possibile senza che da tale comportamento gli era derivato il minimo vantaggio (32). Al qual proposito, molte fattispecie meriterebbero di essere analizzate in subiecta materia, prime fra tutte quelle riguardanti l’atteggiamento tutt’altro che infrequente nella prassi di chi, per esempio, negozia in modo determinante il suo voto favorevole 30 ) In tal senso Cass., 30 dicembre 1997, n. 13102, in Foro It., Rep. 1998, voce Emulazione, n. 7 (nella specie si trattava di azione promossa dall’amministratore nei confronti del condomino che aveva effettuato la escavazione, per ampliare i locali sotterranei, del sottosuolo, destinato anche al passaggio di tubi e canali). 31 ) In tal senso Cass., 27 giugno 2005, n. 13732, in Arch. Locaz. e Cond., 2006, pg. 83. 32 ) App. Torino, 12 maggio 1971, in Giur. It., 1973, I, 2, col. 1146. sulla delibera di “trasformazione”, o addirittura di “soppressione”, dell’impianto di riscaldamento centralizzato in impianti unifamiliari a gas, o autonomi, per ottenere che i condomini maggiormente interessati a tali trasformazione o soppressione si facciano carico anche delle spese occorrenti per la installazione dell’impianto singolo nel suo appartamento. Senz’altro emulativo, inoltre, sarebbe il comportamento di quel condomino che per esempio erigesse un muro di confine tra la parte di lastrico solare di sua proprietà esclusiva e la restante parte appartenente ad altro condomino, oppure a tutti gli altri condomini, al solo fine di far perdere a questi la vista panoramica di cui prima potevano godere. E che dire poi di quei condomini che sempre più spesso sentendosi intimare l’obbligo di osservanza delle limitazioni convenzionali di destinazione d’uso delle proprietà esclusive (per esempio di continuare l’uso abitativo in luogo di altra diversa destinazione d’uso più invasiva delle parti comuni, o di disturbo per gli altri condomini) minacciano di dare in locazione l’appartamento ai “vu cumprà” qualora fossero realmente costretti a conservare la destinazione d’uso ad abitazione?! * * * * Quell’amico di vecchia data, dunque, che definisce il condominio come “la fabbrica delle beghe e l’accademia dei dispetti”, è Fascicolo n. 1/2016 www.ilforomalatestiano.it Pag. 11 di 11 inconsapevolmente, e suo malgrado, un giurista esperto degli atti di emulazione.

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