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Il presente elaborato ha l’intenzione di analizzare brevemente la fattispecie di reato prevista all’art. 609-quater C.p. per soffermarsi in modo particolare sull’attenuante prevista al quarto comma. In questo breve percorso verranno riportati elementi di dottrina, di giurisprudenza di legittimità e di giurisprudenza delle Corti di merito con riferimento anche ad una recente pronuncia del Tribunale di Rimini. ANALISI DELL’ART. 609-QUATER C.P. La vasta materia dei reati sessuali è stata riformata dalla Legge n° 66, “Norme contro la violenza sessuale, emanata in data 15 febbraio 1996, composta da 17 articoli. E’ stato un approdo particolarmente lungo e travagliato poiché i primi interventi di riforma sono cominciati nel 1979, vi è stata una proposta popolare del 1980 sottoscritta da circa 300.000 cittadini, successivamente un progetto di legge è stato avviato nel 1987, ed infine si è giunti nel 1995 ad una nuova proposta di legge avanzata da 67 deputati facenti parte di tutti i gruppi parlamentari.1 Questo intervento legislativo ha cambiato radicalmente i reati contro la libertà sessuale che, precedentemente, trovavano collocazione negli articoli dal 519 al 526 C.p. e nell’art. 530 C.p., spostandone la collocazione all’interno dei delitti contro la libertà personale, sezione II capo III del Codice Penale; le fattispecie di violenza carnale e di atti di libidine sono stati inseriti nella nozione di atti sessuali (peraltro carente di tassatività) e vi è stato un inasprimento di pene con generale aumento del minimo edittale.2 L’art. 2 della Legge di riforma ha introdotto quattro nuove fattispecie incriminatrici tra cui quella prevista 1 Mazza, Sul filo del diritto, Anno 1, N.2 – Giugno 2010. 2 Del Papa, Violenza sessuale su minore, fine ludico, attenuanti di minore gravità, Famiglia e dir., 2001, 5, 510. ATTI SESSUALI CON MINORENNE ED ATTENUANTE DEI CASI DI MINORE GRAVITÀ Giordano Fabbri Varliero Fascicolo n. 1/2016 www.ilforomalatestiano.it Pag. 2 di 6 all’art. 609-quater, rubricato come “atti sessuali con minorenne”, norma prevista a specifica tutela della libertà sessuale del minore e, in particolare, del normale e armonico sviluppo della sua personalità nella sfera sessuale.3 Il primo comma dell’art. 609- quater prevede la stessa pena indicata per la violenza sessuale, reclusione da cinque a dieci anni, per colui che compia atti sessuali con persona che al momento del fatto non ha compiuto ancora quattordici anni, oppure non ne abbia ancora compiuti sedici, qualora l’autore del reato sia ascendente o genitore della vittima, o vi sia comunque legato da una relazione di convivenza o per ragioni di cura, educazione, istruzione, vigilanza o custodia. Il secondo comma prevede la reclusione da tre a sei anni per l’ascendente, il genitore, o il di lui convivente, che, con abuso dei poteri connessi alla loro posizione, abbiano rapporti sessuali con minorenne che ha già compiuto i sedici anni di età. Al terzo comma si prevede una causa di non punibilità per gli atti sessuali commessi fra minorenni consenzienti indicando che, laddove la differenza di età non sia superiore a tre anni, non è punibile colui che abbia commesso atti sessuali con minorenne maggiore degli anni tredici. 3 Lembo, Cianciala, I reati contro le donne e i minori, Giuffrè Editore, 2012. Il quarto comma indica che “Nei casi di minore gravità la pena è diminuita in misura non eccedente i due terzi”. Si tratta di una circostanza attenuante speciale ad effetto speciale, analoga a quella indicata al terzo comma dell’articolo 609-bis C.p. Il quinto comma, infine, stabilisce la medesima pena indicata dal secondo comma dell’art. 609-ter, ossia la reclusione da sette a quattordici anni, nel caso in cui la persona offesa non abbia ancora compiuto gli anni dieci. Si tratta di un reato comune, potendo essere commesso da chiunque, al di fuori del caso previsto dal secondo comma o nel caso in cui la vittima abbia età compresa tra i quattordici e i sedici anni, casi in cui si tratta di reato proprio con specifica indicazione delle categorie di soggetti. La condotta punita si ravvisa nel mero compimento di atti sessuali con minorenne, e l’elemento soggettivo richiesto dalla norma è ravvisabile nel dolo generico. Di particolare interesse è la disciplina dell’errore poiché, come indicato dalla dottrina, mentre nel caso di minore infraquattordicenne il colpevole non può invocare a propria scusa l’ignoranza dell’età della persona offesa, nel caso di minore infrasedicenne il dolo deve abbracciare anche l’età del soggetto passivo, portando pertanto ad escludere l’elemento soggettivo qualora il Fascicolo n. 1/2016 www.ilforomalatestiano.it Pag. 3 di 6 soggetto agente reputi erroneamente che il minore abbia compiuto i sedici anni di età. CIRCOSTANZA ATTENUANTE EX ART. 609-QUATER, COMMA IV E GIURISPRUDENZA DI LEGITTIMITÀ I lavori preparatori della Riforma del 1996 hanno sottolineato l’importanza di non aver più come riferimento principale la qualità dell’atto compiuto, spostando l’attenzione sulla quantità di violenza e sul grado di coartazione esercitati sulla vittima in modo da evidenziare la compressione della libertà sessuale ed il danno subito dalla persona offesa in termini fisici e psichici.4 Non è possibile indicare a priori una categoria generale alla quale ricondurre i casi di minore gravità, l’individuazione di queste situazioni è rimessa alla discrezionalità del Giudice di merito che, di volta in volta, sarà chiamato a valutare gli elementi di fatto al fine di applicare o meno tale circostanza.5 E la minore gravità non è neppure automaticamente ravvisabile in tutti quei casi di lieve compromissione della libertà sessuale della vittima.6 4 Foladore, L’ipotesi di “minore gravità” nella violenza sessuale, Dir. pen. proc., 2001, 1, 71. 5 Ariolli, Gargiulo, Maiorano, Mazzi, Mulliri, I delitti contro la persona, i delitti contro la libertà individuale, Libro II, Artt. 600-623-bis, in Codice Penale, Rassegna di Giurisprudenza e Dottrina, a cura di Lattanzi e Lupo, Giuffré Editore, 2010. 6 Cass. Pen., Sez. III, 3 ottobre 2006, n. 38112. Sicuramente non è possibile identificare l’attenuante con l’intensità del consenso posto dal minore, e non si può nemmeno negarne la sussistenza solo in presenza della minore età; allo stesso modo è ormai pacifico escludere che il discrimine della minore gravità sia costituito dalla penetrazione o dalla qualità del consenso.7 Anche la particolare disponibilità e spigliatezza del minore e la sua apparente maturità psico-fisica non son state ritenute circostanze sufficienti alla concessione dell’attenuante della minore gravità, possono solo rilevare ai fini della concessione delle circostanze attenuanti generiche.8 Lo stesso vale per la verginità o meno della vittima e la frequenza dei suoi rapporti sessuali pregressi, circostanze che non possono da sole incidere positivamente o negativamente sull’attenuante della minore gravità, dovendo la stessa essere valutata dal Giudice secondo i parametri previsti dall’art. 133 C.p.9 Pertanto, non essendovi specifiche situazioni nella quali può dirsi applicabile l’attenuante in esame, la valutazione circa la sua applicabilità è rimessa alla discrezionalità del Giudice il quale si atterrà ai criteri dell’appena citato art. 133 C.p. 7 Pittaro, Inapplicabile l’attenuante della minore gravità in ipotesi di atti sessuali con minorenne consenziente e particolarmente disinibito, Famiglia e dir., 2007, 4, 363. 8 Burzi, Nota in tema di atti sessuali con minorenne, Giur. it., 2008, 1. 9 Pittaro, Atti sessuali con minorenne consenziente e non vergine: tanto rumore per nulla?, Famiglia e Diritto, 2006, 2, 185. Fascicolo n. 1/2016 www.ilforomalatestiano.it Pag. 4 di 6 La giurisprudenza si è più volte espressa nel senso della possibile utilizzabilità dei criteri presenti in entrambi i commi. La dottrina invece è discorde in quanto un primo orientamento ritiene che non possano essere utilizzati come parametri la capacità a delinquere ed eventuali precedenti penali, mentre è possibile tenere in considerazione la condotta contemporanea o susseguente al reato10; un secondo orientamento ritiene utilizzabili sia i criteri presenti al primo comma che quelli presenti al secondo comma in quanto il testo della norma fa riferimento a “casi di minor gravità” e non di “minor gravità del fatto”, lasciando pertanto possibile l’uso tanto dei criteri oggettivi quanto di quelli soggettivi presenti all’art. 133 C.p.11 Tuttavia al momento della valutazione della circostanza attenuante non si può escluderne la sussistenza sulla base della presenza degli elementi costitutivi della fattispecie criminosa, è invece necessario prendere in considerazione ogni caratteristica oggettiva e soggettiva del fatto che possa mostrare la minore lesività con riferimento al bene giuridico tutelato dalla norma.12 10 Foladore, Verginità della vittima ed attenuante di “minore gravità”, Dir. pen. proc., 2006, 7, 888; 11 Goisis, Violenza sessuale e attenuante dei casi di minor gravità: gli incerti confini dell’elemento circostanziale, Giur. it., 2015, 4, 984. 12 Cass. Pen., Sez IV, 12 dicembre 2014, n. 3284. Tra gli elementi da tenere in considerazione non rientra il consenso della vittima in quanto esso presenta un vizio radicale inerente la manifestazione di volontà proprio in ragione del fatto che il soggetto minore di anni quattordici è da considerare in uno stato di intangibilità sessuale e incapace di prestare un valido consenso.13 Una definizione generale della circostanza attenuante prevista al quarto comma dell’art. 609-quater C.p. è stata fornita dalla Corte di legittimità laddove, nel negarne la sussistenza in un caso ove la presenza di rapporti orali avevano provocato alla vittima sensazioni molto dolorose, ha affermato che tale circostanza deve applicarsi a tutti quei casi ove la libertà sessuale personale della vittima sia stata compressa in maniera non grave.14 In conclusione è possibile affermare che l’orientamento prevalente in merito alla concessione dell’attenuante speciale dei casi di minore gravità indica la necessità di una valutazione globale da parte del Giudice che tenga conto tanto dei criteri oggettivi che di quelli soggettivi, in relazione altresì alla ratio della norma, al grado di coartazione esercitato sulla vittima, alle condizioni fisiche e mentali di quest’ultima, alle caratteristiche fisiche e psicologiche in relazione all’età, all’entità della 13 Cass. Pen., Sez. III, 30 settembre 2014, n. 6168. 14 Cass. Pen., Sez. IV, 12 aprile 2013, n. 18662. Fascicolo n. 1/2016 www.ilforomalatestiano.it Pag. 5 di 6 compressione della libertà sessuale e al danno arrecato anche in termini psichici.15 Ne discende che la tipologia di atto sessuale posto in essere non assume rilevanza determinante ma rimane solo come uno degli elementi da valutare.16 PRONUNCE DI MERITO Sempre in tema di elementi da tenere in considerazione ai fini della valutazione dell’applicabilità della circostanza attenuante in esame si è espresso il Tribunale di Napoli, in ossequio all’orientamento dominante, indicando come la valutazione della lieve compromissione della libertà sessuale della vittima non possa prescindere da una valutazione globale del fatto, pertanto non limitandosi alle sole componenti oggettive del reato, ma estendendosi anche a quelle soggettive. Devono inoltre esser tenuti in considerazione anche i mezzi, le modalità esecutive e le circostanze dell’azione. Ed infine devono essere valutati tutti gli elementi che l’art. 133 C.p. prevede per la valutazione da parte del Giudice della gravità del reato e della capacità a delinquere del colpevole.17 Si dovranno pertanto tenere in considerazione anche ai fini dell’art. 609-quater tutte le modalità dell’azione a partire da natura, specie, mezzi, oggetto e tempo; sarà necessario valutare tanto la gravità del danno o del 15 Cass. Pen., 13 novembre 2007, n. 4564. 16 Cass. Pen., 5 febbraio 2009, n. 10085. 17 Uff. Indagini Preliminari Napoli, Sez. XIII, 7 maggio 2013, n. 1055. pericolo cagionato alla persona offesa, quanto l’intensità del dolo; e sarà necessario altresì valutare i precedenti penali e giudiziari, la condotta di vita del reo e le sue condizioni di vita individuale, familiare e sociale, e la condotta contemporanea e susseguente al reato. Di considerevole importanza è stata una pronuncia del Tribunale di Vicenza che nell’anno 2008 ha riconosciuto l’applicabilità dell’attenuante in esame al caso di un minore consenziente ed in una vera e propria relazione d’amore con l’Imputato. La Corte territoriale ha descritto i caratteri di tale relazione sottolineando come la stessa debba essere particolarmente intensa, e debba esprimersi con modalità così gentili, tenere e delicate da ridurre il danno del reato ed arrivare a costituire per il minore un’esperienza umana edificante.18 Nel caso di specie l’ipotesi di minore gravità è stata riconosciuta sul versante soggettivo dell’Imputato, il quale era coinvolto in un vero e proprio sentimento d’amore con la persona offesa. Secondo il Tribunale di Vicenza, il coinvolgimento sentimentale non avrebbe avuto risvolti solamente sulla condotta e sull’intensità del dolo, ma avrebbe propriamente attenuato il danno causato dal reato. Da questa pronuncia appare chiaro come la valutazione 18 Trib. Vicenza, Sent. 08 gennaio 2008. Fascicolo n. 1/2016 www.ilforomalatestiano.it Pag. 6 di 6 dell’intensità del dolo sia stata determinante e abbia rappresentato un parametro per la valutazione della lesione della sfera sessuale della persona offesa.19 Nell’anno 2014 anche il Tribunale di Rimini, Ufficio dei Giudici per l’Udienza Preliminare, ha affrontato un caso analogo. Nei fatti era in essere una relazione d’amore tra un giovane di poco più di vent’anni ed una ragazza al tempo non ancora quattordicenne. Tra i due erano intercorsi rapporti sessuali e la giovane ha altresì attraversato un periodo di gravidanza che, successivamente, è stato interrotto. Al compimento del quattordicesimo anno di età la ragazza si è recata dai Carabinieri ed ha raccontato l’accaduto, a seguito di ciò sono state applicate misure cautelari custodiali a carico del ragazzo. Durante l’udienza preliminare, in sede di discussione di rito abbreviato, la Difesa dell’Imputato ha richiesto l’applicazione dell’attenuante prevista dal quarto comma dell’art. 609-quater indicando in primo luogo che tra i ragazzi fosse in essere un rapporto amoroso, in secondo luogo che vi era totale assenza di costrizione fisica della ragazza ai rapporti sessuali ed infine la presenza di un reale innamoramento 19 Fresco, L’amore come attenuante: una decisione coraggiosa in tema di atti sessuali con minorenne, Dir. pen. proc., 2009, 5, 596 (nota a sentenza). della minore, emerso parzialmente anche in sede di incidente probatorio.20 Il Giudice dell’Udienza Preliminare di Rimini non ha ritenuto applicabile l’attenuante in esame ed ha ampiamente argomentato sul punto. Egli ha preso le mosse da una valutazione globale della vicenda e delle conseguenze sulla minore, derivanti principalmente dalle ripercussioni fisiche e psicologiche dei fatti subiti, dalla gravidanza, e dall’interruzione della stessa. La valutazione ha tenuto conto di tutti i vari aspetti oggettivi e soggettivi, sottolineando il comportamento del reo soprattutto nel periodo iniziale della relazione. La capacità di persuasione e convincimento del ragazzo è stata ritenuta determinante. 20 Trib. Rimini, Ufficio dei Giudici
 

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SEPARAZIONE PERSONALE - AMMISSIBILITÀ SEQUESTRO CONSERVATIVO EX ART. 671 C.P.C. - CONCORRENZA SEQUESTRO EX ART.156 COMMA 6 C.C. L’ammissibilità della richiesta di sequestro conservativo ex art.671 c.p.c. presentata nel corso di un giudizio di separazione personale non è esclusa dalla concorrente possibilità di richiedere la misura prevista dall’art. 156 comma 6 c.c., ossia il sequestro di una parte dei beni del coniuge obbligato in caso di inadempienza, in quanto si nega l’identità ontologica, e il conseguente rapporto di specialità, da genere a specie, tra il sequestro conservativo di natura cautelare previsto dall’art.671 c.p.c. ed il sequestro previsto dall’art.156 comma 6 c.c. (massima redaz.) SEPARAZIONE PERSONALE - SEQUESTRO CONSERVATIVO EX ART. 671 C.P.C. - TITOLO ESECUTIVO (PROVVISORIO) – AMMISSIBILITÀ Nel corso di un procedimento di separazione personale è ammissibile la richiesta di sequestro conservativo ex art. 671 c.p.c. in presenza di titolo esecutivo, provvisorio o meno, essendo l’obbligazione di mantenimento destinata ad avere durata indefinita, pur se quantificabile con criteri probabilistici, ricomprendendo lo spazio di applicazione della misura cautelare anche crediti futuri, non necessariamente assistiti da titolo esecutivo (si pensi ad esempio alle spese straordinarie, per loro natura non prevedibili). (massima redaz.) SEPARAZIONE PERSONALE - SEQUESTRO CONSERVATIVO EX ART. 671 C.P.C. - SUSSISTENZA FUMUS BONI JURIS E PERICULUM IN MORA A prescindere dalla misura degli obblighi di natura economica che saranno stabiliti dal Collegio con la sentenza definitiva, si osserva che gli stessi, anche valutati, in linea meramente ipotetica solo in favore LA COERCIBILITA' DELL'OBBLIGO DI MANTENIMENTO MEDIANTE SEQUESTRO Ordinanza Tribunale di Rimini, 14 febbraio 2015 Fascicolo n. 1/2016 www.ilforomalatestiano.it Pag. 2 di 10 della prole, saranno comunque destinati a protrarsi nel tempo, per cui non può dunque seriamente dubitarsi della sussistenza del fumus per un arco temporale da stimarsi in considerazione dell’età dei figli e degli attuali tempi sociali di inserimento lavorativo. La sussistenza dell’ulteriore requisito del periculum in mora è stata ravvisata, oltreché nell’esito negativo del sequestro e del pignoramento presso terzi, anche nella dispersione delle garanzie patrimoniali, attuata dal coniuge per il tramite di un’operazione artatamente preordinata all’inadempimento, con la quale ha acquistato successivamente all’inizio della separazione un immobile, contraendo un mutuo garantito da ipoteca iscritta anche sulla casa di sua proprietà esclusiva, assegnata con i provvedimenti presidenziali a moglie e figli, vendendo poi tale immobile alla compagna, riservando per sé il diritto di abitazione vitalizio in cambio dell’accollo del mutuo garantito da ipoteca. (massima redaz.) Il commento (*) Chiara Boschetti L’ordinanza identificata in epigrafe è stata pronunciata dal Tribunale di Rimini a seguito della formulazione, nell’ambito di un procedimento di separazione personale, non ancora rimesso al Collegio per la decisione finale, di una richiesta di sequestro conservativo in corso di causa, a garanzia degli obblighi di mantenimento stabiliti dal Presidente ex art.708 comma 3 c.p.c. e confermati in sede di reclamo in favore della moglie e dei due figli maggiorenni, ma non ancora autosufficienti dal punto di vista economico, in quanto studenti. In particolare veniva dedotto un pregresso inadempimento dei suddetti obblighi di mantenimento, non avendo il marito mai versato integralmente l’importo stabilito, essendo peraltro già rimasto infruttuoso il pignoramento presso terzi azionato dagli aventi diritto per intervenute dimissioni del marito dal lavoro di livello dirigenziale dallo stesso svolto. Veniva posto in evidenza un ulteriore atto di dispersione delle garanzie patrimoniali attuato dal coniuge onerato del pagamento degli assegni di mantenimento, successivamente all’inizio della causa di separazione, mediante l’acquisto di un immobile, con contestuale stipula di un contratto di mutuo garantito da ipoteca iscritta, non già solo sull’immobile oggetto di compravendita, ma anche sulla casa già Fascicolo n. 1/2016 www.ilforomalatestiano.it Pag. 3 di 10 abitazione familiare di esclusiva proprietà del marito, assegnata con i provvedimenti presidenziali a moglie e figli e successiva vendita dello stesso alla propria compagna, con costituzione del diritto di abitazione vitalizio in proprio favore in cambio dell’accollo del mutuo. Avverso la richiesta di sequestro conservativo ex art.671 c.p.c. su tutti i beni del marito, la difesa di quest’ultimo formulava eccezione di inammissibilità e/o infondatezza in fatto ed in diritto che veniva esaminata nell’ordinanza in questione sotto il duplice profilo della possibile concorrenza tra la misura cautelare tipica di cui all’art.671 c.p.c. ed il sequestro previsto dall’art.156, comma 6, c.c. e quella della sua ammissibilità in presenza di un titolo esecutivo, provvisorio o meno. La specifica questione di diritto affrontata si colloca nel più ampio ambito dei provvedimenti che il giudice può pronunciare al fine della tutela esecutiva dei crediti in materia di diritto di famiglia che si attua nelle varie forme di espropriazione forzata previste e disciplinate dal libro terzo del nostro c.p.c., con particolari difficoltà legate, da un lato, al fatto che i crediti a cui generalmente deve darsi attuazione sono i cosiddetti assegni di mantenimento, ossia obbligazioni future a carattere periodico che, strutturalmente sono poco idonee ad essere eseguite nelle forme esecutive tradizionali, mentre dall’altro al fatto che sovente gli assegni di mantenimento servono a soddisfare bisogni primari della vita del creditore ed in caso di prolungato inadempimento il beneficiario potrebbe subire danni irreparabili. Il legislatore, anziché introdurre una figura generale di sequestro ed una di deviazione del flusso di reddito, applicabili indistintamente all’inadempimento degli obblighi scaturenti da qualsiasi tipo di assegno, ha introdotto una disciplina valevole in costanza di matrimonio (art.143 comma 3 c.c.), una in caso di separazione (art.156 comma 6 c.c.) ed una cui ricorrere in regime di divorzio (art.8 comma 7 L. div.), ciascuna dotata di una propria forma specifica e peculiare di sequestro e di modalità di distrazione del reddito1. L’ordinanza resa dal Presidente del Tribunale di Rimini afferisce appunto alla figura del sequestro nell’ambito di un procedimento di separazione personale ed affronta il primo profilo della eccezione di inammissibilità, relativo alla possibile concorrenza tra sequestro ordinario ex art.671 c.p.c. e quello di cui all’art.156 comma 6 c.c., partendo dalla individuazione della natura giuridica di quest’ultima misura, svolta anzitutto mediante un richiamo alla pronuncia additiva della Corte Costituzionale n.258 del 1996. Facendo seguito, infatti, a quanto già disposto con la sentenza n.278 del 1994 in ordine al versamento di somme da parte dei terzi debitori del coniuge obbligato nei confronti degli aventi (*) Il presente contributo è stato oggetto di positiva valutazione da parte del Comitato Scientifico 1 Carpi, Doveri coniugali patrimoniali e strumenti processuali nel nuovo diritto di famiglia, Riv. trim. dir. proc. civ., 1978, 207 e ss. Fascicolo n. 1/2016 www.ilforomalatestiano.it Pag. 4 di 10 diritto, la Corte Costituzionale ha dichiarato l’illegittimità dell’art.156 comma 6 c.c. nella parte in cui non prevede che il giudice istruttore possa anche adottare il provvedimento di sequestro nel corso della causa di separazione2 . La decisione evidenzia con chiarezza le significative differenze esistenti tra il sequestro conservativo ordinario, per la cui emissione viene richiesta la sussistenza del fumus boni juris e del periculum in mora e che può colpire tutti i beni mobili ed immobili del debitore, ed il provvedimento di cui all’art.156 comma 6 c.c., che presuppone un credito già dichiarato, sia pure in via provvisoria3, può essere disposto anche in mancanza di periculum in mora, sulla base della semplice inadempienza degli obblighi di mantenimento4, può colpire solo parte dei beni del coniuge obbligato, non può convertirsi in pignoramento e non ha natura cautelare, fatta salva qualche pronuncia dissonante come si dirà in prosieguo, avendo una mera funzione di coazione, anche psicologica, all’adempimento degli obblighi di mantenimento posti a carico di uno dei due coniugi. Contrasto giurisprudenziale e dottrinario sulla natura cautelare del provvedimento di sequestro di cui all’art.156 comma 6 c.c. – Concorrenza con il sequestro ordinario ex art.671 2 C. Cost. sent. 17 luglio 1996, n.258, Foro It., 1996, I, 3603 ss, Cipriani, Il giudice istruttore e la competenza. 3 Cass. civ., sez. I, 19 febbraio 2003, n.2479. 4 Cass. civ., sez.I, 28 maggio 2004, n.10273; Cass. civ., sez.I, 30 gennaio 1992. c.p.c. e questione relativa alla sua ammissibilità. In merito alla natura, cautelare o meno, del provvedimento ex art.156 comma 6 c.c., dottrina e giurisprudenza hanno dimostrato qualche incertezza ricostruttiva oscillando tra una non meglio precisata ‘natura cautelare atipica’,5 una ‘natura coercitiva atipica’6 ed una ‘natura atipica’ tout court7 . La Suprema Corte con la sentenza n.1518 del 2 febbraio 2012, tuttavia, nel dichiarare l’inammissibilità di un ricorso straordinario per cassazione ex art.111 Cost. avverso un provvedimento della Corte d’Appello di rigetto del reclamo contro il decreto del Tribunale concessivo del sequestro previsto dall’art.156 comma 6 c.c., afferma nella parte motiva, sotto forma di obiter dictum, che quest’ultima misura, ponendosi in rapporto di specie a genere rispetto al sequestro conservativo ex art.671 c.p.c., per taluni profili differenziali di disciplina, avrebbe intrinseca natura cautelare, che lo renderebbe, per ciò stesso, insuscettibile di concorso con il sequestro conservativo ordinario, nell’ambito del medesimo giudizio8 . Tuttavia la natura cautelare del provvedimento ex art.156 comma 6 5 Cass. civ., sez.I, 4 dicembre 1999, n.13579; Trib. Genova, 14 agosto 1984, Giust. Civ., 1986, I, 2553 ss. 6 Trib. Messina, 7 maggio 1993, Foro It., 1993, I, 1989 ss; Trib. Catania 23 aprile 1993, Dir. Famiglia, 1994, 217 ss.; Trib. Monza, 27 ottobre 1989, Giust. civ., 1990, I, 475 ss. 7 Cass. civ., sez.I, 19 febbraio 2003, n.2479, Foro It., 2004, I, 830 ss, con nota di Caporusso, Sequestro dei beni del coniuge obbligato al mantenimento e ricorso in Cassazione e Giur. It., 2004, 1400 . 8 Cass. civ., sez.I, 2 febbraio 2012, n.1518, Dir. Famiglia, 2012, 3, 1048. Fascicolo n. 1/2016 www.ilforomalatestiano.it Pag. 5 di 10 c.c., esclusa dalla prevalente giurisprudenza di legittimità9 e dalla pressoché unanime giurisprudenza di merito10, si pone in netta contraddizione con la circostanza per cui il giudice, per concederlo, non è chiamato a valutare né la sussistenza del fumus boni juris, in quanto il diritto è già accertato, anche se in ipotesi con provvedimento provvisorio, né il periculum in mora, ma semplicemente una situazione di già conclamato inadempimento rispetto ad una pronuncia giurisdizionale. Tale misura potrà più correttamente essere inquadrata tra i mezzi di conservazione della garanzia patrimoniale, essendo volto ad impedire il depauperamento del patrimonio del debitore. La sopra tratteggiata natura giuridica del provvedimento di sequestro ex art.156 comma 6 c.c. comporta la possibile concorrenza tra i menzionati strumenti di tutela, in quanto istituti diversi e non sovrapponibili, alternativamente attivabili, in presenza dei rispettivi necessari presupposti11. La citata sentenza della Suprema Corte n.1518 del 2 febbraio 2012, peraltro, erra nella parte della motivazione in cui ritiene che l’inammissibilità del 9 Cass. civ., sez.I, 28 maggio 2004, n.10273; Cass. civ., sez.I, 12 maggio 1998, n.4776, Famiglia e Dir. 1998, 516 (nota Carratta) e Giust. Civ., 1998, I, 2533; Cass. civ., sez.I, 30 gennaio 1992, n.961, Giust. Civ., 1993, I, 3075 (nota Cavallo). 10Trib. Nuoro, 4 aprile 2011; Trib. Modena, 12 febbraio 2003, Giur. di Merito, 2003, 3; Trib. Milano, 21 luglio 1995, Giur. It. 1995, I, 2, 878 (nota Vullo); Trib. Monza, 27 ottobre 1989, Il Civilista, 2011, 4, 54 (nota Franco). 11Trib. Ascoli Piceno, 16 marzo 2006, Dir. e Lav. Marche, 2007, 1, 93. cumulo con il sequestro ordinario si legga anche nella citata sentenza della Corte Costituzionale n. 258 del 19 luglio 1996. Un’attenta lettura di tale provvedimento, infatti, consente di rilevare che la Corte Costituzionale, ribadita la diversità tra le due figure, si è limitata ad affermare che l’art.156 comma 6 c.c. si configura con tali aspetti di specialità da doversi ritenere di applicazione prevalente se non esclusiva, in sede di separazione personale tra coniugi, rispetto all’ordinario sequestro conservativo. Tale obiter dictum, che, secondo i principi generali, non è ovviamente vincolante per il giudice di merito, è ben lungi dall’affermare l’inconfigurabilità del sequestro conservativo ordinario nel giudizio di separazione, limitandosi ad affermare che, nella generalità dei casi, è di applicazione prevalente il sequestro ex art.156 c.c., senza che in alcun modo possa desumersi l’assoluta inapplicabilità dell’art.671 c.p.c.. Se così è, non solo la Corte Costituzionale non ha ritenuto il sequestro ex art.671 c.p.c. inconfigurabile nel procedimento di separazione, ma di fatto lo ha anzi ammesso, riservando alla saggia valutazione del giudice istruttore bilanciare in modo equilibrato l’uso dei vari strumenti offerti dalla legge per conseguire il risultato di soddisfare nel modo migliore le ragioni economiche dei componenti più bisognosi della famiglia. Fascicolo n. 1/2016 www.ilforomalatestiano.it Pag. 6 di 10 La Suprema Corte, con la sentenza n.521 del 20 gennaio 1994 ha poi censurato un provvedimento di sequestro conservativo, reso nell’ambito di un giudizio di separazione personale, per vizio di costituzione del giudice ai sensi dell’art.158 c.p.c., in quanto reso dal Presidente, quando la causa era già stata affidata al giudice istruttore, vizio come tale insanabile e rilevabile d’ufficio, senza che ne venisse in alcun modo posta in discussione la sua inconfigurabilità ontologica. La giurisprudenza di merito ritiene che la previsione legislativa della possibilità di utilizzare, in materia di separazione, il procedimento ex art.156 comma 6 c.c., rappresenti una tutela aggiuntiva che il legislatore offre in tale settore e non già una norma sostitutiva della tutela ordinaria. Opinando diversamente, si giungerebbe alla incongrua soluzione di ritenere che la riforma del diritto di famiglia del 1975 – che ha provveduto a riformulare l’art.156 c.c. e che è certamente orientata a rafforzare la tutela del coniuge debole – ha, per alcuni versi, operato una diminuzione nella tutela dello stesso coniuge debole, non essendo in discussione che, prima del 1975, fosse possibile proporre nel giudizio di separazione personale il sequestro conservativo ordinario12. E’ pertanto evidente che, nel caso in cui si ritenesse ora possibile solo il sequestro nelle forme di cui all’art.156 c.c., si configurerebbe un innegabile 12Cass. civ. 1772/1971; Cass. civ.3773/1969 (sentenze richiamate da Trib. Ivrea, ord. Collegiale, 21 settembre 2000). regresso di tutela13, come non ha mancato di rilevare il giudice estensore dell’ordinanza in commento, laddove ha evidenziato che escludere la misura cautelare del sequestro conservativo di cui all’art.671 c.p.c. nelle cause di separazione personale, creerebbe un pericoloso vuoto di tutela proprio con riferimento alle fattispecie caratterizzate da un più alto livello di pericolo costituito dalla dispersione delle garanzie patrimoniali e reddituali nella mancanza – che ben potrebbe essere artatamente preordinata – della sia pur minima inadempienza. Concludendo sul punto, pertanto, è possibile richiedere il sequestro conservativo ex art.671 c.p.c. nell’ambito di una causa di separazione personale tra coniugi, rappresentando il rimedio di cui all’art.156 comma 6 c.c., una tutela aggiuntiva e non sostitutiva rispetto all’ordinario sequestro del codice di rito. A prescindere dalla questione della sua ammissibilità, la richiesta di sequestro conservativo ex art.671 c.p.c. verrà poi accolta nella misura in cui venissero ritenuti sussistenti nel merito i relativi presupposti di legge. Nel caso affrontato dalla ordinanza emessa dal Tribunale di Rimini, veniva in primo luogo ritenuto sussistente il requisito del fumus boni juris, considerando che gli obblighi di natura economica, anche a prescindere dalla misura degli stessi che verrà determinata dal Collegio con la decisione definitiva, saranno comunque destinati a protrarsi nel tempo, anche 13Trib. Ivrea, ord. Collegiale, 21 settembre 2000. Fascicolo n. 1/2016 www.ilforomalatestiano.it Pag. 7 di 10 avuto riguardo in ipotesi al solo contributo per il mantenimento dei figli, entrambi studenti universitari. In secondo luogo, la valutazione in merito alla sussistenza dell’ulteriore requisito del periculum in mora prendeva le mosse dall’esito negativo del sequestro e del pignoramento presso terzi, scaturenti dalle dimissioni del coniuge obbligato dal proprio incarico di vice – direttore, pur in costanza di un rapporto di collaborazione non formalizzato, considerando infine dirimente la dispersione delle garanzie patrimoniali attuata dal marito con l’operazione consistente nell’acquisto, successivamente all’avvio della causa di separazione, di un immobile mediante la stipula di mutuo assistito da ipoteca iscritta non solo sull’immobile acquistato, ma anche su quello assegnato ai figli e successiva vendita dello stesso alla propria compagna, con riserva del diritto di abitazione vitalizio in cambio dell’accollo del mutuo da parte della acquirente. In merito a tale operazione, il Tribunale di Rimini non ha mancato di rilevare come la stessa fosse idonea ad assoggettare i figli alla pressione della minaccia di insolvenza delle rate del mutuo da parte della compagna del padre, con conseguente pericolo di esecuzione immobiliare da parte dell’istituto di credito sulla casa di loro abitazione. L’ordinanza in commento dichiarava, pertanto, ammissibile il sequestro conservativo su tutti i beni mobili ed immobili del coniuge obbligato. Ammissibilità della richiesta di sequestro conservativo ex art.671 c.p.c. nell’ambito di un procedimento di separazione, in presenza di titolo esecutivo provvisorio rappresentato dalla ordinanza emessa dal Presidente del Tribunale ex art. 708 comma 3 c.p.c.. L’eccezione di inammissibilità svolta avverso la richiesta di sequestro conservativo viene analizzata, invero in maniera molto più succinta, dal Tribunale di Rimini anche in relazione alla presenza, nel caso di specie, di un titolo esecutivo provvisorio, costituito dai provvedimenti temporanei ed urgenti emessi dal Presidente del Tribunale nell’interesse della prole e dei coniugi ai sensi dell’art.708 comma 3 c.p.c.. L’ordinanza in commento ritiene infondata l’eccezione di inammissibilità del sequestro conservativo in presenza di titolo esecutivo, provvisorio o meno, sulla base della argomentazione secondo cui, essendo l’obbligazione di mantenimento destinata ad avere durata indefinita, pur se quantificabile con criteri probabilistici, lo spazio di applicazione della misura cautelare ricomprende anche crediti futuri, non necessariamente assistiti da titolo esecutivo, come avviene ad esempio per le spese straordinarie, per loro natura non prevedibili. In realtà la più generale questione relativa alla legittimazione a chiedere il sequestro conservativo da parte del creditore munito di titolo esecutivo, il quale potrebbe quindi procedere direttamente all’esecuzione forzata per Fascicolo n. 1/2016 www.ilforomalatestiano.it Pag. 8 di 10 la realizzazione del proprio credito, è controversa in dottrina ed in giurisprudenza. Ragionando in termini di interesse ad ottenere la misura cautelare, si è osservato che un’esigenza di conservazione della garanzia patrimoniale è configurabile rispetto all’azione esecutiva, con riguardo al tempo che impone la procedura per pervenire al pignoramento, in particolare al termine dilatorio di dieci giorni di cui all’art.482 c.p.c.. Tale argomentazione, tuttavia, viene criticata da parte di giurisprudenza14 e dottrina15 che evidenziano la possibilità, prevista dalla medesima norma, in caso di pericolo nel ritardo, di ottenere la dispensa dall’osservanza del suddetto termine, nonché di provvedere alla iscrizione di ipoteca, escludendo pertanto l’ammissibilità della ordinaria tutela cautelare. E’ pertanto necessario osservare che, nel caso di specie, il titolo è rappresentato dall’ordinanza emessa dal Presidente del Tribunale ai sensi dell’art.708 comma 3 c.p.c. con la quale sono state adottate le misure provvisorie di carattere patrimoniale, ritenute opportune nell’interesse del coniuge e dei due figli, che, ai sensi di quanto espressamente disposto dall’art.189 disp. att. c.p.c. costituisce titolo esecutivo. 14Trib. Milano, 14 giugno 2001; Corte App. Milano, 22 marzo 1983, Giust. Civ. 1983, I, 2476 e Foro It., 1983, I, 3106. 15Acone, La tutela dei crediti di mantenimento, Napoli, 1985, 56; Perchinunno, Il sequestro conservativo, Trattato del diritto privato, Rescigno, Torino 1985, 178. La dottrina e la giurisprudenza hanno più volte ribadito che tale titolo, tuttavia, non è idoneo ad iscrivere ipoteca sui beni dell’obbligato in quanto non ricade nella previsione di cui all’art.2818 c.c., che fa riferimento alle sentenze di condanna anche generica ed, in via residuale, agli altri provvedimenti giudiziali espressamente e tassativamente indicati dalla legge16. La Corte Costituzionale ha vagliato la legittimità dell’art.708, commi 3 e 4 c.p.c. con riferimento agli artt.3 e 30 Cost., dichiarando tuttavia manifestamente infondata la questione, in considerazione dell’alto grado di instabilità del provvedimento presidenziale e dell’esistenza di strumenti alternativi di rafforzamento della garanzia patrimoniale del credito17. L’impossibilità di costituire la garanzia non deriva dalla dimensione dinamica degli obblighi di mantenimento (l’ipoteca giudiziale può essere iscritta anche in presenza di un credito non necessariamente determinato a priori nell’ammontare), ma, piuttosto, dall’inesistenza di una norma che testualmente lo preveda e dal carattere provvisorio del provvedimento presidenziale, destinato ad essere assorbito dalla sentenza che definisce il giudizio. L’ordinanza in commento peraltro riprende l’argomentazione svolta dalla Corte di Cassazione nell’ambito della 16Cass. civ., sez. I, 12 novembre 2003, n.17016; Trib. Roma, 18 febbraio 1997, Foro padano, 1998, I, 100, (nota Danovi). 17C. Cost., ord. 24 giugno 2002, n.272, Giur. Cost., 2002, 1980 Fascicolo n. 1/2016 www.ilforomalatestiano.it Pag. 9 di 10 citata sentenza n.1518 del 2 febbraio 2012, laddove afferma che il fumus è il limite minimo di sussistenza di una situazione soggettiva meritevole di tutela verificabile ex ante, al di sotto della quale, cioè, non vi può essere adito alla protezione cautelare, non certo il limite massimo, con la conseguenza che il quid pluris rappresentato da un accertamento a cognizione piena, sia pure non irrevocabile, lungi dal costituire impedimento ostativo in limine, vale ad esimere il giudice da una disamina ad hoc di natura sommaria. La particolarità della situazione, rappresentata dalla presenza del provvedimento ex art.708 comma 3 c.p.c., che, pur essendo titolo esecutivo, non consente l’iscrizione di ipoteca, è caratterizzato dalla provvisorietà in quanto idoneo ad essere superato dalla sentenza di separazione e non può consentire una precisa quantificazione del credito, soprattutto con riferimento alle spese straordinarie, per loro natura, insuscettibili di preventiva determinazione, fa propendere, anche sotto tale profilo, per l’ammissibilità del sequestro conservativo ex art.671 c.p.c.18 .
 

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Il fumus delicti nel sequestro preventivo (*)

Piero Gualtieri

già professore ordinario di Diritto processuale penale nell’Università di Urbino

I precedenti normativi e le tipologie di sequestro preventivo
Nel corso degli anni settanta si è sviluppata e consolidata una elaborazione giurisprudenziale che “fra prassi devianti e prassi promozionali”[1] ha progressivamente superato le tradizionali finalità probatorie del sequestro penale e attribuito all’istituto anche una funzione preventiva, volta ad impedire la reiterazione della condotta illecita (specie se lesiva di interessi collettivi) e fondata sulla previsione

dell’art. 219 c.p.p. 1930 (che riconosceva alla polizia giudiziaria il potere-dovere di impedire che i reati “vengano portati a conseguenze ulteriori”) e sull’assegnazione al sequestro del fine di assicurare la confisca, in riferimento all’art. 622 stesso codice[2]: sicché la misura risulta- va assai vicina all’applicazione provvisoria di pene accessorie[3].

La Corte costituzionale, d’altronde, aveva avallato queste tendenze, osservando, in tema di film, che un semplice sospetto di oscenità consentiva al p.m. di sottoporre l’opera a sequestro, il quale coinvolgeva tutte le copie in proiezione sul territorio nazionale secondo una prassi ormai in atto e pur in assenza di alcuna specifica disposizione di legge: ed ha aggiunto che la misura rappresentava un ulteriore mezzo di prevenzione e che la estensione si giustificava, non in base ad esigenze probatorie processuali, per la cui soddisfazione sarebbe stato sufficiente il sequestro di una o più copie soltanto della pellicola, “bensì per esigenze cautelari, volte ad impedire che con la potenzialità offensiva di numerose copie della pellicola contemporaneamente proiettate in luoghi diversi vengano a perpetrarsi più violazioni del medesimo precetto penale”[4].

Il legislatore del 1988 è intervenuto per dare una regolamentazione organica ad una materia che, sia pure in termini sfumati e non privi di sfasature sistematiche, non disconosceva il fine preventivo della coercizione reale e aveva visto affacciarsi sempre più frequentemente l’adozione di misure volte ad interrompere l’iter criminoso o ad impedire la commissione di nuovi reati.

In proposito nella Relazione al progetto preliminare è stato evidenziato come la potenzialità lesiva di diritti costituzionali che si ricollegano all’uso della cosa sequestrata avesse reso “necessaria una previsione normativa tale da obbligare il giudice ad enunciare le finalità della misura al momento della sua applicazione, in modo da consentire sempre, alla persona che ne è colpita, di provocare un controllo sul merito e sulla legittimità della stessa, anche per quanto attiene alla ragione d’essere della sua persistenza. Si è ritenuto infine di sottolineare che fondamento dell’istituto in questione resta l’esigenza cautelare: precisamente quella di tutela della collettività con riferimento al protrarsi dell’attività criminosa e dei suoi effetti”.

L’intenzione dichiarata era quindi quella di creare un quadro normativo dai contorni precisi, onde limitare il rischio di abusi e ottenere un “equilibrio fra difesa sociale e garantismo”[6], attraverso una riserva di giurisdizione e un principio di tassatività, assegnando al solo giudice il potere di disporre la misura e determinandone i casi.

Ma questi lodevoli obbiettivi sono stati traditi da carenze normative e soprattutto da poco garantiste applicazioni giurisprudenziali e sostanzialmente vanificati con l’introduzione del sequestro finalizzato alla confisca per equivalente.

Bisogna anche precisare preliminarmente che in realtà esiste una molteplicità di sequestri preventivi, ciascuno con proprie peculiari caratteristiche.

Nell’art. 321, comma 1, c.p.p. trova la sua disciplina il sequestro preventivo c.d. impeditivo, ispirato all’esigenza di evitare che la libera disponibilità di una cosa pertinente al reato possa aggravarne o protrarne le conseguenze o agevolare la commissione di altri reati, mentre il comma 2 regola quello finalizzato alla confisca, facoltativa o obbligatoria, delle stesse cose.

E’ stata recentemente introdotta con il d.l. 3.12.2013 una nuova forma di sequestro preventivo relativa agli stabilimenti di interesse nazionale (almeno 200 lavoratori occupati da almeno un anno), ove la misura non ha, singolarmente, la finalità di inibire un’attività, bensì di consentire una facoltà d’uso controllata dei beni aziendali.

Ha altresì avuto una espansione esponenziale il sequestro finalizzato alla confisca per equivalente, nel quale è stato reciso il nesso di pertinenza tra reato e res: e in questa categoria assume una notevolissima importanza il sequestro disciplinato dall’art. 12 sexies d.l. 306/1992, la cui applicazione è stata nel tempo continuamente estesa e che ha la caratteristica di portare all’applicazione della misura in caso di condanna per uno dei numerosi reati previsti dalla norma allorquando l’indagato non giustifichi la provenienza dei beni dei quali egli abbia a qualsiasi titolo la disponibilità, anche per interposta persona, con alcune analogie con il sequestro di prevenzione, specie in materia di esecuzione e amministrazione.

Vi è, infine, il sequestro preventivo introdotto con il d. lg. 8.6.2001 n. 231, che riguarda la responsabilità per gli illeciti amministrativi dipendenti da reato degli enti forniti di personalità giuridica, società e associazioni anche prive di personalità giuridica (artt. 19 e 53), per determinate tipologie di reato (tra i quali mancano incredibilmente quelli tributari).

Va anche segnalata l’esistenza di una serie di profili problematici, di carattere generale o riferito alla singola tipologia di sequestro, in materia di individuazione del giudice competente alla sua applicazione (vi è in particolare un vuoto normativo relativamente al giudice dell’udienza preliminare), di esecuzione della misura e di amministrazione dei beni ad essa assoggettati (specie in relazione ai rapporti con il sequestro di prevenzione), di tutela dei terzi in buona fede, di garanzie difensive anche in tema di gravami (la cui labilità normativa è aggravata da indirizzi giurisprudenziali molto restrittivi) e recentemente si sta sviluppando un dibattito in tema di confisca senza condanna, derivante dalla sentenza 26.3.2015 n. 49 della corte costituzionale (che ha proposto una non condivi bile lettura della giurisprudenza della corte e.d.u.) e ha portato alla rimessione della questione alle sezioni unite (ord. Sez. VI, 26.3.2015).

Nell’impossibilità di trattare questa pluralità di argomenti, soffermeremo la nostra attenzione su uno dei punti più incerti e delicati, rappresentato dal corretto inquadramento del fumus delicti.

La natura del sequestro previsto dall’art. 321 c.p.p.
Dal punto di vista sistematico, il sequestro preventivo è stato collocato fra le misure cautelari reali e reso del tutto indipendente dal sequestro probatorio (disciplinato nell’ambito dei mezzi di ricerca delle prove), ad ulteriore dimostrazione della consapevolezza del legislatore della sua potenzialità afflittiva su diritti fondamentali della persona costituzionalmente garantiti, non dissimile da quella dei provvedimenti di coercizione personale.

Come si è già accennato, l’obbiettivo era dunque di offrire una base unitaria a figure disperse nelle leggi speciali e affioranti in modo frammentario nell’abrogato codice, delineando nell’art. 321, 1° e 2° comma, c.p.p. due specifiche ipotesi applicative autonome fra loro, la prima (c.d. sequestro impeditivo) diretta ad evitare il pericolo che la libera disponibilità di una cosa pertinente al reato possa aggravare o protrarre le conseguenze di esso, ovvero agevolare la commissione di altri reati, la seconda funzionale alla confisca, a sua volta graduata tra le ipotesi in cui tale misura è facoltativa o obbligatoria[9].

Il sequestro preventivo è connotato dai caratteri propri degli istituti cautelari, vale a dire la provvisorietà, intesa come limitazione degli effetti ad un periodo di tempo determinato, e la strumentalità, come preordinazione della misura all’emissione di un successivo provvedimento definitivo[10], ed è subordinato alla sussistenza degli elementi tipici di ogni misura cautelare, il fumus delicti e il periculum in mora.

Va anche precisato che l’art. 321, 1° comma, c.p.p. identifica quale oggetto della misura la “cosa pertinente al reato”, la quale, secondo il legislatore, assume un significato scarsamente delimitativo, per cui si è preferito porre l’accento sui fini della misura, piuttosto che sulla caratterizzazione delle cose materiali destinate ad esserne oggetto.

Tale nozione, peraltro, è più ampia di quella di corpo del reato, definita dall’art. 253 c.p.p., ed è comprensiva non solo delle cose sulle quali o a mezzo delle quali il reato è stato commesso o che ne costituiscono il prezzo, il prodotto o il profitto, ma anche di quelle legate solo indirettamente alla fattispecie criminosa, purché il rapporto con l’illecito penale non sia meramente occasionale.

Al fine di evitare una indiscriminata compressione del diritto di proprietà e di uso del bene, il presupposto del nesso pertinenziale della cosa al reato deve essere oggetto di congrua motivazione da parte del giudice sia con riguardo al profilo della specifica, intrinseca e stabile strumentalità della cosa sottoposta a sequestro all’attività illecita che si ritiene commessa dall’indagato, sia con riferimento alla possibilità che quell’attività venga reiterata o aggravata.

Il giudice deve quindi compiere una valutazione rigorosa e motivata del cennato pericolo, alla luce di una pluralità di elementi oggettivi e soggettivi, tra i quali vanno annoverati la natura della cosa, la sua connessione strumentale con il reato e/o i reati futuri possibili, la destinazione occasionale o stabile alla commissione dell’illecito, la personalità dell’imputato o indagato e le circostanze dell’impiego della res nella commissione del reato stesso.

Il requisito della “pertinenza” deve inoltre essere preso in esame in relazione a tale strumentalità del bene, in quanto la peculiarità della funzione del sequestro preventivo prescinde dalla liceità o meno delle cose oggettivamente considerate, assumendo rilievo, invece, la destinazione sia pure indiretta delle stesse a fungere da mezzo di commissione di altri reati.

Il sequestro preventivo può colpire tanto i beni mobili quanto quelli immobili[16] e gli animali, i quali sono assimilati alle cose anche ai fini processuali, secondo i principi civilistici[17].

La nuova formulazione degli artt. 104 e 104 bis disp. att. e coord. c.p.p. non lascia dubbi in ordine alla possibilità di disporre il sequestro preventivo di un’azienda o di beni produttivi, espressamente disciplinato in tali norme.

3.1. Il fumus delicti

La volontà del legislatore, enunciata nella Relazione al progetto preliminare del nuovo codice, di creare un quadro normativo dai contorni precisi, onde limitare il rischio di abusi e ottenere un equilibrio tra difesa sociale e garantismo, non ha avuto una soddisfacente attuazione, con particolare riguardo al fumus delicti.

In proposito, l’art. 321 è avaro di indicazioni, limitandosi ad un sintetico e molto generico riferimento alla esigenza di evitare che la libera disponibilità di una cosa pertinente al reato possa aggravarne o protrarne le conseguenze o agevolare la commissione di nuovi reati.

Tali carenze nella disciplina dei presupposti applicativi dell’istituto hanno comportato serie conseguenze negative in termini di garanzie.

A differenza di quanto previsto per le misure cautelari personali, non vi è alcun riferimento né ai profili soggettivi di colui che detiene la cosa pericolosa, né tanto meno alla correlata sussistenza di gravi indizi di colpevolezza.

3.2 Le opinioni della dottrina

A questo riguardo, la dottrina ha espresso opinioni variegate.

Alcuni Autori hanno evidenziato lo stretto parallelismo con le misure cautelari personali (specie quelle interdittive) e da questo dedotto la necessità di subordinare il sequestro preventivo all’esistenza di gravi indizi di colpevolezza.

Altri considerano sufficiente la sussistenza di “precisi indizi di reato, il cui collegamento alla commissione del fatto risulti in maniera certa e univoca”, e la “coincidenza fra fattispecie concreta e fattispecie legale ipotizzata”.

Altri ancora sostengono che l’esercizio del potere cautelare deve essere condizionato dalla sussistenza di un quadro indiziario grave, sia in ordine all’avvenuta commissione del reato per cui si procede, sia in ordine alla pertinenza del bene da sottoporre a sequestro al reato stesso, sia in ordine al rischio che la libera disponibilità della cosa può costituire in relazione al quadro criminoso attuale[20].

Ed infine, c’è chi ritiene sufficiente per integrare il fumus una indagine, nei termini di sommarietà e provvisorietà propri delle indagini preliminari, mirante ad accertare la corrispondenza fra fattispecie astratta e fattispecie reale.

3.3 Le valutazioni della corte costituzionale

In materia è presto intervenuta una decisione delle Sezioni Unite, che, chiamate a risolvere altro contrasto, hanno però affermato i principi che in sede di applicazione di una misura cautelare reale, ai fini della doverosa verifica della legittimità del provvedimento “è preclusa ogni valutazione sulla sussistenza degli indizi di colpevolezza e sulla gravità degli stessi” e che il controllo del giudice non può investire la concreta fondatezza dell’accusa, ma deve limitarsi “all’astratta possibilità di sussumere il fatto attribuito ad un soggetto in una determinata ipotesi di reato”.

La decisione ha fortemente condizionato i successivi sviluppi applicativi, che, come vedremo più avanti, si sono ad essa adeguati, spesso attraverso apodittici richiami.

Questo orientamento delle Sezioni Unite penali della Corte di Cassazione ha portato a sollevare una questione di legittimità costituzionale per contrasto degli artt. 321 e 324 c.p.p. con gli artt. 24, 97, 111 e 42 Cost.

A parere del rimettente, sarebbe anzitutto compromesso il diritto di difesa in quanto, dovendosi il tribunale astenere da apprezzamenti relativi alla sussistenza degli indizi ed alla relativa gravità, diverrebbe irrilevante per l’indagato qualsiasi sua difesa sul merito. Le disposizioni denunciate violerebbero, poi, gli artt. 97 e 111 Cost., poiché la decisione del giudice si risolverebbe in una “operazione burocratica di mera ratifica” e lederebbe il principio di buon andamento dell’amministrazione giudiziaria, mentre la mancata delibazione degli indizi di colpevolezza e della loro gravità non consentirebbe una motivazione “concreta”, con la necessaria esplicitazione delle ragioni per le quali si fa luogo o meno alla compressione di un diritto soggettivo, costituzionalmente tutelato, come quello di proprietà, con conseguente contrasto con l’art. 42, 2° comma, Cost., per essere prevista una limitazione di questo diritto, al di fuori degli scopi e della funzione di cui alla riserva di legge, enunciata dall’indicato parametro.

La Corte costituzionale ha però dichiarato non fondata la questione, osservando che, pur essendo stati tracciati marcati parallelismi tra le cautele reali e quelle personali, il codice non si è spinto al punto da aver assimilato in toto le condizioni che devono assistere le due specie di misure. La scelta di non richiamare per le misure cautelari reali i presupposti sanciti dall’art. 273 c.p.p. per le misure cautelari personali (fra i quali la sussistenza di gravi indizi di colpevolezza) non contrasta con l’art. 24 Cost. poiché il diritto di difesa ammette diversità di disciplina in rapporto alla varietà delle sedi e degli istituti processuali in cui lo stesso è esercitato, e i valori che l’ordinamento prende in considerazione sono graduabili fra loro: da un lato, l’inviolabilità della libertà personale, e, dall’altro, la libera disponibilità dei beni, che la legge ben può contemperare in funzione degli interessi collettivi che vengono ad essere coinvolti.

Secondo il giudice delle leggi il sequestro preventivo attiene, infatti, a “cose” che presentano un tasso di “pericolosità” tale da giustificare l’imposizione della cautela, e, pur raccordandosi ontologicamente ad un reato, può prescindere totalmente da qualsiasi profilo di “colpevolezza”, proprio perché la funzione preventiva non si proietta necessariamente sull’autore del fatto criminoso, ma su beni che, postulando un vincolo di pertinenzialità col reato, vengono riguardati dall’ordinamento quali strumenti la cui libera disponibilità può costituire situazione di pericolo, come dimostrano le ipotesi della confisca obbligatoria, del “blocco dei beni” nel caso di sequestro di persona in base alle disposizioni dettate dal d.l. 15-1-1991, n. 8, e, più in generale, del sequestro a carico di terzi: l’istituto, quindi, non può essere “costruito” in modo speculare alle misure cautelari personali.

D’altro canto, ove si introducesse in sede di gravame un potere di controllo sul merito della regiudicanda, si assisterebbe ad una specie di “processo nel processo” che sposterebbe, allargandolo, il tema del decidere da quello suo proprio della verifica del pericolo della libera disponibilità di taluni beni, all’oggetto del procedimento principale.

Tuttavia, potendo essere oggetto della misura “le cose pertinenti al reato” (locuzione volutamente ampia ed indistinta che assorbe quella, più circoscritta, di “corpo di reato” definito dall’art. 253 c.p.p.) è evidente che al giudice sia fatto carico di verificare che esista un reato, quanto meno nella sua astratta configurabilità, e che ricorra l’integralità dei presupposti legittimanti la misura, attraverso un controllo non burocratico, ma pienamente satisfattivo del corrispondente obbligo di motivazione prescritto per tutti i provvedimenti giurisdizionali.

Sicché la difesa ben può volgersi a contestare l’esistenza della fattispecie dedotta, proprio perché questa funge da necessario referente che individua il predetto nesso di pertinenzialità: e non è a dirsi che tale verifica non possa in alcun modo spingersi “all’esame del fatto per il quale si procede”[23].

A nostro avviso la soluzione cui è pervenuta la Corte costituzionale è insoddisfacente, poiché nella decisione è stato fornito un quadro di riferimento interpretativo abbastanza angusto sotto il profilo delle garanzie.

Lascia in particolare perplessi il riferimento alla impossibilità di procedere ad una verifica approfondita della fondatezza dell’imputazione (processo nel processo), a differenza di quanto previsto per le misure cautelari personali: e se è certamente vero che i presupposti delle due tipologie di misure sono diversi e l’indagine richiesta per limitare la libertà personale, allo stato attuale della legislazione, si risolve in una prognosi di colpevolezza tanto penetrante da richiedere anche una previsione della pena, anche le misure cautelari reali attingono diritti costituzionalmente garantiti, ragion per cui la valutazione dei presupposti del sequestro preventivo deve essere penetrante e tale analisi trasferita nella motivazione del provvedimento. Altrimenti, sarebbe inutile aver introdotto la garanzia giurisdizionale.

In proposito va rilevato che lo stesso giudice delle leggi si è infatti ripetutamente espresso nel senso che “la costituzione italiana contiene alcuni principi supremi che non possono essere sovvertiti o modificati nel loro contenuto essenziale neppure da leggi di revisione costituzionale o da altre leggi costituzionali”, quali quelli espressamente indicati nell’art. 139 Cost. ed altri che, pur non essendo ivi menzionati, “appartengono all’essenza dei valori supremi sui quali si fonda la Costituzione italiana” ed hanno “una valenza superiore rispetto alle altre norme o leggi di rango costituzionale”, come quelli disciplinati negli artt. 1, 2, 3 e 4 Cost., rivendicando a sé il potere di esercitare il relativo controllo[24].

Orbene, ferma restando l’opinabilità dell’autoinvestitura per la verifica della legittimità delle leggi di revisione costituzionale[25], è vero che nella costituzione è rinvenibile una graduazione nelle garanzie, con collocazione in posizione di preminenza dei “diritti inviolabili” dell’uomo, secondo l’enunciazione contenuta nell’art. 4.

Vi sono in effetti alcune disposizioni nelle quali, appunto, il diritto tutelato viene definito “inviolabile” (artt. 13, 14 e 15, che riguardano la libertà personale, del domicilio e delle comunicazioni) e pur tuttavia è suscettibile di essere compresso, in misura differenziata in riferimento ai diversi valori protetti, da tassative disposizioni: in altre le garanzie sono meno rigorose, come ad esempio avviene per il diritto di sciopero (art. 40), l’iniziativa economica privata (art.41), l’indipendenza del p.m. (art. 107, 4° comma), la durata ragionevole del processo (art. 111, 1° comma), la cui regolamentazione è rimessa al legislatore ordinario.

Il diritto di difesa è invece definito “inviolabile in ogni stato e grado del procedimento”, senza eccezioni, e la sua posizione di preminenza è rafforzata dalla previsione che ogni processo si svolge nel contraddittorio tra le parti, in condizioni di parità davanti ad un giudice terzo, imparziale e soggetto soltanto alla legge (artt. 111, 2° comma, e 101, 2° comma).

Tanto vero che la stessa Corte costituzionale ha ritenuto che il principio di durata ragionevole del processo non può comportare la vanificazione degli altri valori costituzionali che in esso sono coinvolti, primo fra i quali il diritto di difesa, il quale assume nella disciplina processuale valore preminente, essendo inserito nel quadro dei diritti inviolabili della persona e dovendo, appunto, essere tutelato in ogni stato e grado del procedimento.

Assume altresì rilievo l’art. 6 Conv. EDU in relazione al quale i giudici di Strasburgo hanno da tempo sancito che il fine della convenzione “è proteggere diritti non teorici o illusori, ma concreti ed effettivi”e che tale principio di effettività della difesa deve trovare applicazione relativamente alle varie fasi del procedimento, per cui esso s’impone già in quelle anteriori al giudizio, seppure il relativo accertamento vada operato avendo riguardo alle “particolarità della procedura” e alle “circostanze della causa”.

Non sembra che queste osservazioni e il rammentato granitico indirizzo sulla esistenza nella costituzione di principi supremi non modificabili nel loro contenuto essenziale, possano essere messo in discussione da una recente decisione, ove è stato affermato che tutti i diritti fondamentali tutelati dalla Costituzione si trovano in rapporto di integrazione reciproca e non è possibile pertanto individuare uno di essi che abbia la prevalenza assoluta sugli altri: conseguentemente, la tutela deve essere sempre “sistemica e non frazionata in una serie di norme non coordinate ed in potenziale conflitto tra loro”, poiché, se così non fosse, si verificherebbe l’illimitata espansione di uno dei diritti, che diverrebbe “tiranno” nei confronti delle altre situazioni giuridiche costituzionalmente riconosciute e protette, che costituiscono, nel loro insieme, espressione della dignità della persona.

A nostro avviso, tale assunto non è idoneo a scalfire il rilievo che nella costituzione è rinvenibile una graduazione di tutela dei diritti: anche se non ve ne sono di “tiranni”, il ragionevole bilanciamento tra interessi confliggenti (nella specie tra diritto di difesa ed esercizio della pretesa punitiva dello Stato) non può prescindere dall’ampiezza della protezione riconosciuta.

In questa cornice il più volte affermato orientamento del giudice delle leggi per cui il diritto di difesa può essere variamente articolato in riferimento alle varie fasi e tipologie dei procedimenti, anche recentemente ribadito[30], meriterebbe di essere sottoposto a profonda revisione o almeno meglio modulato in riferimento al rango dei beni protetti, che nel caso delle misure cautelari ha rilievo costituzionale, riguardando la proprietà privata, tutelata pure dal protocollo n. 7 della Conv. EDU.

Deve allora concludersi che le norme autorizzative del sequestro preventivo e le loro applicazioni giurisprudenziali non sono rispettose degli indicati parametri, per cui è necessario un loro adeguamento e, ove il legislatore non provveda, un nuovo scrutinio di costituzionalità.

In ogni caso, e come minimo, il giudice, attraverso interpretazioni costituzionalmente orientate, deve disporre la misura soltanto all’esito di una verifica approfondita sulla sussistenza dei pur scarni e carenti presupposti normativi, e in particolare, come si vedrà, sulla presenza di gravi indizi del reato ipotizzato a carico di colui al quale si vuole impedire l’uso della cosa ritenuta pericolosa, ad esso pertinente.

3.4. Gli orientamenti della corte di legittimità

La ricordata sentenza delle sezioni unite Gifuni ha fortemente condizionato i successivi sviluppi applicativi, che si sono adeguati ai principi in essa enunciati, spesso attraverso apodittici richiami.

È divenuto così prevalente l’indirizzo per cui le misure cautelari personali vanno tenute distinte da quelle reali, poiché l’inviolabilità della libertà personale e la libera disponibilità dei beni sono valori di diversa essenza, suscettibili di una tutela differenziata in funzione degli interessi coinvolti: costituendo presupposto dell’imposizione delle misure cautelari reali il tasso di pericolosità della cosa, che pur raccordandosi ad un fatto criminoso, può prescindere totalmente da qualsiasi profilo di colpevolezza, con la conseguenza che non sono consentite al giudice valutazioni in ordine alla sussistenza degli indizi di colpevolezza e alla gravità degli stessi previsti dagli artt. 273 e 274 c.p.p.[31], in quanto, appunto, la giustificazione del sequestro preventivo deriva dalla pericolosità sociale della cosa e non dalla colpevolezza di colui che ne abbia la disponibilità, per cui la sua adozione prescinde dalla individuazione dell’autore del reato ipotizzato e dall’indagine sulla sua colpevolezza.

È stato anche ritenuto che la valutazione della antigiuridicità della condotta non potrà mai sconfinare nel sindacato della concreta fondatezza dell’accusa, ma dovrà limitarsi all’astratta possibilità, non manifestamente arbitraria, di sussumere il fatto attribuito ad un soggetto in una determinata ipotesi di reato, da ricercare attraverso la verifica, provvisoria e incidentale, delle risultanze in atti, nei limiti della, dell’astratta rilevanza penale del fatto accertato”.

E si è giunti a considerare sufficiente all’integrazione di tale presupposto, la semplice configurabilità nei comportamenti dell’indagato delle ipotesi criminose contestate (a fronte dei dati segnalati dal p.m., a prescindere da ogni giudizio sulla loro fondatezza, nonché in mancanza di elementi segnalati dalla difesa atti ad inficiare questi ultimi): e si è ritenuto che, ove sia intervenuto il rinvio a giudizio, l’esistenza del fumus non può essere sindacata.

Questi indirizzi hanno portato a sottolineare come in talune applicazioni giurisprudenziali, il sequestro preventivo sembrasse diventato una fattispecie cautelare a fumus presunto, ove il pubblico ministero si limita ad allegare la commissione di un reato e il destinatario della misura è chiamato a fornire la probatio diabolica della insussistenza dell’illecito penale[36].

Non sono peraltro mancate voci dissonanti, e tra esse assume rilievo una decisione delle Sezioni Unite, ove è stata evidenziata la necessità di assicurare una maggiore tutela delle posizioni individuali, contemperandole con le esigenze di protezione degli interessi collettivi, onde evitare che gli aspetti di garanzia voluti dal legislatore del 1988 e solennemente affermati in teoria, vengano poi vanificati con un’interpretazione erroneamente riduttiva, ed ha rilevato come l’inesatta lettura della decisione Gifuni “ha condotto spesso ad un progressivo impoverimento della funzione di terzietà della giurisdizione. Si è, così, appiattito il ruolo di garanzia, ristretto negli angusti steccati della semplice constatazione dell’astratta asserzione di un’ipotesi di reato, senza la verifica del collegamento con la realtà processuale”, mentre, in realtà, alla giurisdizione compete il potere-dovere d’espletare il controllo di legalità, sia pure nell’ambito delle indicazioni di fatto offerte dal p.m., ragion per cui “l’accertamento della sussistenza del fumus commissi delicti va compiuto sotto il profilo della congruità degli elementi rappresentati, che non possono essere censurati sul piano fattuale, per apprezzarne la coincidenza con le reali risultanze processuali, ma che vanno valutati così come esposti, al fine di verificare se essi consentono di sussumere l’ipotesi formulata in quella tipica”.

I principi di diritto appena ricordati, migliorativi rispetto alla opinione prevalente seppure non completamente soddisfacenti, sono stati successivamente ribaditi, ma solo recentemente si sta assistendo al consolidamento di indirizzi per cui ai fini dell’emissione del sequestro preventivo il giudice deve valutare la sussistenza del fumus delicti in concreto, indicando nella motivazione in modo puntuale e coerente gli elementi in base ai quali desumere l’integrazione del reato configurato, tenendo conto sia degli elementi forniti dall’accusa, sia delle argomentazioni difensive, in quanto la serietà degli indizi costituisce presupposto per l’applicazione delle misure.

3.5. Le prospettive di completa assimilazione dei presupposti tra misure cautelari personali e reali nell’individuazione del fumus

L’appena rammentato approdo rappresenta certamente un notevole passo in avanti rispetto alle precedenti riduttive opzioni interpretative, che per lunghi anni hanno comportato un inaccettabile impoverimento della funzione di terzietà della giurisdizione, ristrettasi negli angusti steccati della semplice constatazione dell’astratta asserzione di una ipotesi di reato, dalla quale è derivato quasi un automatismo tra richiesta e concessione della misura.

C’è da domandarsi se sia possibile una ulteriore evoluzione fino all’equiparazione dei presupposti applicativi con quelli previsti per le misure cautelari personali.

Una siffatta soluzione sarebbe auspicabile poiché le misure cautelari reali vanno ad incidere su interessi costituzionalmente protetti e richiederebbero, pertanto, interpretazioni più rispettose di tali canoni: e d’altro canto, il sequestro preventivo può presentare un contenuto afflittivo addirittura maggiore rispetto ad alcune misure cautelari personali (ad esempio i divieti e gli obblighi di dimora e le misure interdittive).

Tra le due specie di misure esistono inoltre stretti parallelismi, sia per la collocazione sistematica, sia per i rimedi approntati (appello, riesame, ricorso per cassazione), sia, ancora, per la dichiarata intenzione di costruire nei commi 3° bis e 3° ter una figura precautelare modellata sull’art. 384.

Si ritiene, tuttavia, che l’auspicato risultato possa essere conseguito soltanto attraverso un intervento del legislatore.

L’attuale assetto normativo è, come si è visto, lacunoso e manca in particolare la specifica individuazione del fumus delicti, che lascia margini di discrezionalità troppo ampi al p.m. e al giudice

Per altro verso va pure rilevato che nella costituzione risulta accordata per i beni in discussione una protezione di diverso livello.

La libertà personale, invero, viene definita inviolabile e la sua limitazione è ammessa soltanto per atto motivato dell’autorità giudiziaria e nei soli casi e modi previsti dalla legge, mentre iniziativa privata e proprietà godono di una minore garanzia, poiché entrambe possono essere sottoposte a restrizioni dalla legge in funzione della loro utilità e funzione sociale, anche se la loro tutela è oggi rafforzata da rigorosi indirizzi della Corte europea dei diritti umani, che ha assimilato la confisca ad una sanzione penale, inapplicabile in mancanza di una sentenza di condanna.

Si aggiunga, ad ulteriore conferma di questa graduazione, che le misure cautelari personali, coercitive o interdittive, sono consentite unicamente se si proceda per delitti per i quali la legge preveda la pena dell’ergastolo o della reclusione superiore nel massimo a tre anni (artt. 280, 1° comma, e 287, 1° comma, c.p.p.) ed anche l’art. 384 c.p.p. stabilisce analoghe condizioni, seppure meno rigorose: viceversa, nessuna restrizione in riferimento al tipo di reato è stabilita per le misure cautelari reali.

Conseguentemente, la differente regolamentazione non sembra violare il principio di ragionevolezza.

Sembra però possibile pervenire ad una interpretazione costituzionalmente orientata, che tenga conto della necessità di un ragionevole bilanciamento tra esigenze di repressione e tutela del diritto di difesa e della proprietà.

E, in effetti, i principi recentemente elaborati dalla giurisprudenza e sopra rammentati, mostrano la tendenza ad omologare le misure cautelari reali a quelle personali, attraverso l’accertamento dell’esistenza di gravi indizi di responsabilità e l’applicazione alle misure cautelari reali dei principi di proporzionalità, adeguatezza e gradualità, imponendo al giudice di motivare adeguatamente sull’impossibilità di conseguire il medesimo risultato con altre misure meno invasive.

Il sequestro preventivo dovrebbe pertanto essere disposto soltanto in caso di gravi indizi di reità a carico di colui che dispone effettivamente della cosa ritenuta pericolosa, tali da consentire una prognosi in ordine alla possibilità di pervenire ad una sentenza di condanna, e quando esista un vincolo chiaro ed univoco tra la stessa cosa e il reato per cui si procede.

Una siffatta soluzione integrerebbe i profili soggettivi di valutazione e lascerebbe intatta la preminenza del nesso di pertinenza con il reato del bene, dalla cui libera disponibilità deriva il pericolo di aggravare o protrarre le conseguenze del reato o agevolare la commissione di altri reati.

In questo quadro, l’analisi deve essere estesa anche alla valutazione dell’elemento soggettivo del reato, atteso che la sua mancanza impedisce la stessa astratta configurabilità dell’illecito penale.

I presupposti del sequestro finalizzato alla confisca per equivalente
La previsione della “confisca per equivalente” è rivolta a superare gli ostacoli e le difficoltà per la individuazione dei beni in cui si “incorpora” il profitto iniziale nonché ad ovviare ai limiti che incontra la confisca dei beni di scambio o di quelli che ne costituiscono il reimpiego: ferma restando la necessità della consumazione di un reato, essa può quindi riguardare (a differenza dell’ordinaria confisca prevista dall’art. 240 c.p., che ha ad oggetto soltanto cose direttamente riferibili al reato) beni che non hanno alcun rapporto con la pericolosità individuale del reo e neppure alcun nesso di pertinenza con il singolo reato[45], ben potendo questi essere diversi dal provento, profitto o prezzo dell’illecito.

La misura appare altresì connotata dal requisito della obbligatorietà.

Questi due elementi (obbligatorietà e elisione del rapporto di pertinenza tra il bene e la cosa) rendono molto labili i presupposti per l’adozione del sequestro preventivo ad essa finalizzato e lasciano conseguentemente ampi spazi discrezionali nella motivazione del provvedimento applicativo.

In effetti, i suoi presupposti, e dunque di ammissibilità della misura cautelare, sono stati individuati dalla giurisprudenza nella ravvisabilità di uno dei reati per i quali essa è consentita e nella circostanza che nella sfera giuridico patrimoniale del responsabile non siano stati rinvenuti, per qualsivoglia ragione ed anche in caso di impossibilità transitoria e reversibile di loro reperimento, i beni costituenti il prezzo o il profitto certo del reato.

Con questi indirizzi si realizzava così una sorta di automatismo nell’adozione della cautela, facendo prevalere esigenze di difesa sociale sui diritti costituzionali di tutela della proprietà e di difesa individuale.

I più recenti sviluppi interpretativi mostrano tuttavia la tendenza a pervenire ad un più ragionevole bilanciamento tra tali contrapposte esigenze e ad omologare le misure cautelari reali a quelle personali, attraverso l’accertamento dell’esistenza di gravi indizi di responsabilità a carico del prevenuto, valutando anche l’elemento soggettivo.

E’ stato pure affermato che il giudice deve applicare i principi di proporzionalità, adeguatezza e gradualità motivando adeguatamente sull’impossibilità di conseguire il medesimo risultato con altre misure meno invasive[52], e procedere ad una valutazione di equivalenza tra il valore dei beni e l’entità del profitto, pur se questa nella fase delle indagini non può fondarsi su un compendio probatorio stabile[53].

Ma contradditoriamente si è anche ritenuto che il giudice è unicamente tenuto a indicare l’importo complessivo da sequestrare, mentre la individuazione specifica dei beni da apprendere e la verifica della corrispondenza del loro valore al quantum precisato nel provvedimento ablativo è riservata alla fase esecutiva, riservata al p.m.[54].

Nel caso in esame assume inoltre rilievo la circostanza che la confisca per equivalente può essere disposta unicamente in caso di condanna o di applicazione della pena su richiesta delle parti per alcuno dei reati tassativamente elencati.

Da ciò si deduce che il sequestro preventivo ad essa finalizzato può essere applicato solo se esistano gravi indizi di reità a carico della persona sottoposta alle indagini, tali da consentire una prognosi in ordine alla possibilità, appunto, di pervenire ad una sentenza di condanna.

Va ancora rimarcato come tale misura dovrebbe consentire soltanto eccezionalmente lo spostamento della cautela dal bene collegato da nesso pertinenziale con il reato ad altro bene nella disponibilità dell’indagato, indipendentemente dalla sua provenienza legittima: la confisca per equivalente, e il sequestro preventivo che la garantisce e le è funzionale, possono trovare applicazione unicamente in via residuale, allorquando non sia stato possibile aggredire il prezzo del reato[55].

La giurisprudenza ha chiarito che la misura cautelare funzionale alla confisca per equivalente può ricadere su beni comunque nella disponibilità dell’indagato, senza che abbiano effetto presunzioni o vincoli posti in materia contrattualistica dal codice civile, volti a regolare i rapporti interni tra creditori e debitori solidali ovvero tra banca e depositante, considerato che su queste norme prevalgono le disposizioni penali in materia di sequestro preventivo, preordinato ad evitare che, nelle more dell’adozione del definitivo provvedimento ablatorio, tali beni possano andare dispersi[56]: in questa prospettiva sono stati ritenuti sottoponibili alla misura i beni dell’indagato dei quali costui abbia l’usufrutto, ma siano sempre rimasti nella sua disponibilità[57], o, ancora, di conti correnti cointestati o intestati a terzi, ma sui quali l’indagato abbia la delega ad operare[58], mentre  gli stipendi e gli assegni retributivi dei dipendenti dello Stato e degli enti pubblici sono assoggettabili a sequestro preventivo finalizzato alla confisca per equivalente solo nella misura di un quinto, dovendo trovare applicazione gli artt. 1 e 2, d.p.r. 5-1-1950, n. 180.

È stato, peraltro, escluso che il sequestro preventivo sia applicabile alle cose appartenenti a terzi estranei in buona fede, come, ad esempio, la persona offesa o danneggiata, cui va pertanto restituito il bene o il danaro profitto del reato e oggetto di sequestro e che quello disposto su beni immobili possa venire esteso ai canoni di locazione, ove si ecceda il valore equivalente del prezzo-profitto del reato.

Si è inoltre deciso che il sequestro dei beni posseduti per interposta persona fa gravare sull’accusa l’onere di provare l’intestazione fittizia, per cui, ove tale onere non venga soddisfatto, la misura cautelare non è legittima.

Sequestro per equivalente di beni ai sensi dell’art. 12 sexies, d.l. 8-6-1992, n. 306
5.1. Le previsioni normative

L’art. 12 sexies è stato introdotto dall’art. 2, 1° comma, d.l. 20-6-1994, n. 399, conv. dalla l. 8-8-1994, n. 501, dopo che la Corte costituzionale aveva dichiarato illegittimo l’art. 12 quinquies, 2° comma, per contrasto con l’art. 27, 2° comma, Cost. perché fondava sulla qualità di indagato o di imputato il presupposto che rendeva punibile un dato fatto ‒ la sproporzione non giustificata fra beni posseduti e reddito ‒ che altrimenti non sarebbe perseguito, per cui l’indiziato o l’imputato era, solo in base a questa sua qualificazione, assoggettato a pena per una condotta che, ove posta in essere da qualunque altro soggetto, sarebbe stata penalmente irrilevante.

Esso, più volte sottoposto a interventi correttivi e integrativi[64], stabilisce ai commi 1° e 2° che è sempre disposta la confisca del denaro, dei beni o delle altre utilità di cui il condannato non può giustificare la provenienza e di cui, anche per interposta persona fisica o giuridica, risulta essere titolare o avere la disponibilità a qualsiasi titolo in valore sproporzionato al proprio reddito, dichiarato ai fini delle imposte sul reddito, o alla propria attività economica, in caso di condanna o di applicazione della pena su richiesta ai sensi dell’art. 444 c.p.p., per i delitti previsti: (I) dagli artt. 314, 316, 316 bis, 316 ter, 317, 318, 319, 319 ter, 319 quater, 320, 322, 322 bis, 325, 416 realizzato allo scopo di commettere delitti previsti dagli artt. 473, 474, 517 ter e 517 quater, 416, 6° comma, 416 bis, 600, 600 bis, 1° comma, 600 ter, 1° e 2° comma, 600 quater.1, relativamente alla condotta di produzione o commercio di materiale pornografico, 600-quinquies, 601, 602, 629, 630, 644, 644 bis, 648, esclusa la fattispecie di cui al 2° comma, 648 bis, 648 ter del codice penale; (II) dall’art. 12 quinquies, 1° comma, dello stesso d.l. 306/1992; (III) dagli artt. 73, esclusa la fattispecie di cui al 5° comma, e 74, d.p.r. 9-10-1990, n. 309; (IV) in materia di contrabbando nei casi di cui all’art. 295, 2° comma, d.p.r. 23-1-1973, n. 43; (V) commessi per finalità di terrorismo o di eversione dell’ordine costituzionale o avvalendosi delle condizioni previste dall’art. 416 bis c.p. ovvero al fine di agevolare l’attività delle associazioni previste dallo stesso articolo.

Come si vede, dalla lista dei reati contro la pubblica amministrazione è escluso, senza una ragionevole giustificazione, l’abuso di ufficio, in relazione al quale il sequestro preventivo è obbligatorio ai sensi dell’art. 321, 2° comma bis, c.p.p., nei limiti in cui è consentita la confisca, che resta quindi riferibile soltanto alle cose che sono il profitto o il prodotto del reato e che siano con esso in rapporto di pertinenza.

Assume particolare rilievo il 2° comma ter, il quale dispone che nel caso previsto dal 2° comma, quando non è possibile procedere alla confisca del denaro, dei beni e delle altre utilità di cui al 1° comma, il giudice ordina la confisca di altre somme di denaro, di beni e altre utilità per un valore equivalente, delle quali il reo ha la disponibilità, anche per interposta persona.

Va altresì rilevato che, rispetto al testo precedente inserito con il d.l. 92/2008, è stato aggiunto il rinvio al 1° comma ed eliminato il riferimento “al prodotto, profitto o prezzo del reato”, con la conseguenza che oggi la confisca può essere estesa agli altri beni compresi nel patrimonio del condannato per un importo equivalente a quelli di valore sproporzionato, laddove non sia stato possibile applicarla a questi ultimi.

In dottrina è stato osservato che tale sanzione è destinata all’inefficacia, potendo essere inflitta soltanto se vi sia la radicale assenza delle disponibilità patrimoniali sospette[66]: è stato anche rilevato che l’ultima modifica è servita a rimediare ad un errore del legislatore, il quale non aveva considerato nella formulazione del 2008 che in tale ipotesi di confisca non vi è vincolo pertinenziale tra bene confiscato e reato presupposto, in quanto il bene oggetto della misura non costituisce il prodotto, il profitto o il prezzo del reato per cui è intervenuta condanna, ma è una res di valore sproporzionato rispetto all’attività economica o al reddito del soggetto della quale non è stata giustificata la legittima provenienza.

Alla luce del dato normativo appena indicato, sembrerebbe comunque che la confisca dei beni di valore sproporzionato al reddito consegua alla condanna o alla applicazione della pena a norma dell’art. 444 c.p.p. per taluno dei delitti previsti nel comma 1, mentre la confisca per equivalente dovrebbe riguardare soltanto i reati menzionati nel 2° comma (delitto commesso avvalendosi delle condizioni previste dall’art. 416 bis c.p. ovvero al fine di agevolare l’attività delle associazioni di cui allo stesso articolo, e 295, 2° comma, d.p.r. 23-1-1973, n. 43, in materia di contrabbando).

Appare inoltre opportuno rammentare che la Direttiva 2014/42/UE del 3-4-2014 indica all’art. 5 come presupposto della confisca il fatto che il valore deibeni sia sproporzionato rispetto al reddito legittimo della persona condannata (cfr. anche il punto 21 dei Considerando).

5.2. I presupposti del sequestro preventivo ex art. 12 sexies

a) Fumus, periculum in mora e pertinenza al reato
Relativamente ai presupposti per disporre il sequestro preventivo finalizzato alla confisca ex art. 12 sexies, la Suprema Corte segue in prevalenza itinerari che non tengono conto della evoluzione degli orientamenti ormai consolidati verso una omologazione delle misure cautelari reali a quelle personali, prima rammentati, che nel caso di specie dovrebbe essere ancor più stretta, poiché, come in precedenza rilevato, l’applicazione della misura richiede una pregnante prognosi di poter pervenire alla pronuncia di una sentenza di condanna e non può dunque prescindere dalla sussistenza di gravi indizi di colpevolezza a carico della persona sottoposta alle indagini, tanto più necessari per il venir meno del nesso di pertinenza tra la cosa colpita dalla misura e il reato e dalla presunzione di illecita accumulazione del patrimonio.

Secondo l’indirizzo largamente prevalente e confermato recentemente, le condizioni necessarie e sufficienti per disporre il sequestro preventivo in questa ipotesi consistono, quanto al fumus commissi delicti, nel fatto attribuito all’indagato di una delle ipotesi criminose previste dalla norma, senza che rilevino né la sussistenza degli indizi di colpevolezza, né la loro gravità e, quanto al periculum in mora, coincidendo quest’ultimo con la confiscabilità del bene, nella presenza di seri indizi di esistenza delle medesime condizioni che legittimano la confisca, sia per ciò che riguarda la sproporzione del valore dei beni rispetto al reddito o alle attività economiche del soggetto, sia per ciò che attiene alla mancata giustificazione della lecita provenienza dei beni stessi.

È quindi ormai divenuta minoritaria la più condivisibile, ancorché non del tutto soddisfacente tendenza, per cui, ai fini dell’adozione della misura ai sensi dell’art. 12 sexies, per la sussistenza del fumus commissi delicti è necessaria non solo una verifica puntuale e coerente delle risultanze processuali in base alle quali vengono in concreto ritenuti esistenti il reato configurato e la conseguente possibilità di ricondurre alla figura astratta la fattispecie concreta, ma anche la plausibilità di un giudizio prognostico alla luce del quale appaia probabile la condanna dell’imputato per uno dei delitti elencati nel citato articolo, cui consegue in ogni caso la confisca dei beni nella sua disponibilità, allorché sia provata l’esistenza di una sproporzione tra il reddito dichiarato o i proventi dell’attività economica e il valore economico di detti beni e non risulti una giustificazione credibile circa la loro provenienza.

Nelle ipotesi disciplinate dall’art. 12 sexies il requisito della pertinenza tra cosa e reato è irrilevante[70] ed assume invece rilievo quello, di significato peculiare e più ampio, tra il bene e l’attività delittuosa facente capo al soggetto, connotato dalla mancanza di giustificazione circa la legittima provenienza del patrimonio nel possesso del soggetto nei cui confronti sia stata pronunciata condanna, sicché la norma in esame costituisce una deroga, in ragione della specialità, a quella dettata dall’ art. 240 c.p..

Il sequestro preventivo è obbligatorio, in ragione della diretta strumentalità con la confisca, di cui deve assicurare l’effettività.

Spetta al giudice di accertare l’esistenza del fatto costituente reato, trattandosi di indagine che, pur non subordinata alla sola sommaria valutazione ex art. 129 c.p.p., non investe questioni relative all’azione penale, bensì soltanto l’applicazione di una misura di sicurezza, sottratta all’effetto preclusivo della causa estintiva.

b) Oggetto del sequestro e sproporzione tra il valore dei beni posseduti e il reddito e l’attività economica
Il parametro fondamentale per stabilire la legittimità del sequestro preventivo ai sensi dell’art. 12-sexies e della confisca cui è finalizzato, è costituito dalla circostanza che l’indagato non giustifichi la provenienza del danaro, dei beni e delle altre cose di cui abbia la disponibilità a qualsiasi titolo, in valore sproporzionato al proprio reddito dichiarato ai fini della relativa imposta o alla propria attività economica (oltre, ovviamente, alla prognosi della condanna per uno dei reati spia elencati nella norma).

L’ablazione è peraltro impedita quando il patrimonio sia giustificato, o dal valore dei redditi formalmente dichiarati, o dall’attività economica svolta: non è, dunque, sufficiente che ricorra uno solo di detti parametri di sproporzione, sicché non sono assoggettabili a sequestro preventivo e a successiva confisca beni di valore sproporzionato rispetto ai redditi dichiarati, pur se proporzionati all’attività imprenditoriale dell’interessato.

La presunzione di illegittima provenienza delle risorse patrimoniali oggetto di ablazione, deve altresì escludersi in presenza di fonti lecite e proporzionate di produzione, sia che esse siano costituite dal reddito dichiarato ai fini fiscali sia che provengano dall’attività economica svolta benché non evidenziata, in tutto o in parte, nella dichiarazione dei redditi: diversamente opinando, si finirebbe per penalizzare il soggetto sul piano patrimoniale, non per la provenienza illecita delle risorse accumulate, ma per l’evasione fiscale posta in essere, che esula dalla ratio e dal piano operativo dello stesso art. 12 sexies e si colloca in un momento successivo.

Ai fini dell’applicazione della misura cautelare, in conformità ai principi che regolano il processo penale, la prova circa la sproporzione, rispetto alla capacità reddituale lecita del soggetto, del valore economico dei beni da confiscare grava sull’accusa, ma una volta fornita tale prova, sussiste una presunzione relativa di illecita accumulazione patrimoniale, superabile solo attraverso specifiche e verificate allegazioni dell’interessato.

La presunzione relativa di illecita accumulazione patrimoniale non opera se i beni siano formalmente intestati a terzi, in quanto, in relazione ad essi, siccome soggetti estranei al rapporto processuale penale, trova applicazione la regola generale che pone l’onere probatorio a carico dell’accusa.

Tale presunzione vale anche in riferimento ai beni del coniuge dell’indagato, qualora sussista la indicata sproporzione, che è dimostrativa della natura simulata della intestazione, salvo che i beni siano stati acquistati anteriormente al matrimonio[80].

Ai fini della operatività del sequestro preventivo previsto dall’art. 12 sexies e della successiva confisca nei confronti del terzo estraneo alla commissione del reato, grava sull’accusa l’onere di provare l’esistenza di circostanze che avallino in modo concreto la divergenza tra intestazione formale e disponibilità effettiva del bene non essendo sufficiente la sola presunzione fondata sulla sproporzione tra valore dei beni e reddito percepito.

L’acquisto del bene a titolo gratuito, (nella specie per donazione), rende impossibile la valutazione di sproporzione fra il valore del bene medesimo ed i redditi e le attività economiche dell’acquirente ai fini dell’eventuale confisca del bene a norma dell’art. 12 sexies, poiché la presunzione di fittizietà degli atti di trasferimento compiuti – a titolo oneroso o gratuito – dal prevenuto in favore di determinate categorie di persone, prevista in tema di misure di prevenzione patrimoniale dall’art. 26, d.lg. 159/2011, non si applica al sequestro penale finalizzato alla confisca prevista dall’art. 12 sexies, d.l. 306/1992, pur dovendosi ritenere indizi gravi, precisi e concordanti dell’interposizione fittizia di beni dell’indagato ad un terzo, la natura giuridica e le modalità dell’atto dispositivo – nella specie, donazione -, il rapporto di stretta parentela tra le parti dell’atto dispositivo – nella specie, padre e figlio -, la vicinanza temporale tra l’atto di disposizione e la commissione da parte del dante causa di un reato per il quale è prevista la confisca dei beni, la destinazione del bene, le qualità personali dell’avente causa – nella specie, la giovane età –, l’oggetto dell’atto dispositivo – nella specie, una ingente somma di denaro.

Sussiste, altresì, a carico del titolare apparente dei beni una presunzione di illecita accumulazione del patrimonio, in forza della quale è sufficiente dimostrare che costui non svolge un’attività tale da giustificarne la proprietà, per invertire l’onere della prova ed imporre alla parte di dimostrare da quale reddito legittimo proviene l’acquisto e la veritiera appartenenza degli stessi beni.

È assoggettabile a confisca il bene legittimamente acquistato e migliorato con danaro di provenienza non giustificata, ma solo limitatamente alla quota corrispondente a tale incremento di valore.

Il sequestro preventivo deve ritenersi legittimo solo qualora si accerti che il valore dei beni è sproporzionato e i termini di raffronto dello squilibrio, oggetto di rigoroso accertamento nella stima dei valori economici in gioco, devono essere fissati nel reddito dichiarato o nelle attività economiche non al momento della misura rispetto a tutti i beni presenti, ma in quello dei singoli acquisti rispetto al valore dei beni di volta in volta acquisiti , dovendosi ritenere ininfluenti favorevoli vicende economiche successive.

La presunzione di illegittima acquisizione da parte dell’imputato deve essere pertanto circoscritta in un ambito di ragionevolezza temporale, escludendo i beni acquistati in un periodo di tempo eccessivamente antecedente alla commissione del reato.

Il sequestro e la confisca ex art. 12 sexies possono tuttavia avere ad oggetto beni acquisiti in epoca anteriore o successiva al reato per cui è intervenuta condanna indipendentemente dall’effettivo valore del profitto o provento di quest’ultimo.

Per vincere la suddetta presunzione relativa di illecita accumulazione del patrimonio, la persona sottoposta alle indagini può esporre fatti e circostanze rilevanti a propria giustificazione e, secondo una condivisibile decisione, limitare le sue allegazioni al periodo preso in considerazione dal p.m., senza dover assolvere alla probatio diabolica di dimostrare la legittimità dell’intero suo patrimonio: nel momento in cui il requisito del fumus subisce una tendenziale dequotazione, richiedere un maggiore sforzo di specificazione sul piano della sproporzione, soprattutto nei casi in cui si tratti di sequestri di beni acquistati prima della commissione del reato, determinerebbe l’effetto di un sostanziale incremento dell’onere probatorio, che funziona da fattore riequilibratore rispetto allo stesso principio di proporzione, che impone un rapporto ragionevole ed adeguato tra mezzo e scopo e che trova applicazione anche nella materia della speciale confisca.

La “giustificazione” credibile deve consistere nella prova della positiva liceità della loro provenienza e non in quella negativa della loro non derivazione dal reato per cui è stata inflitta la condanna.

Ed il giudice ha l’obbligo di prendere in considerazione tutta la documentazione prodotta, in merito dalla difesa, fornendo adeguata motivazione in ordine alle giustificazioni fornite dagli interessati sulla lecita provenienza dei beni.

È stato altresì precisato che allorquando l’interessato fornisca attraverso una consulenza tecnica la prova della legittima provenienza dei beni, il giudice non può limitarsi ad affermare in modo del tutto generico che questi sarebbe sfornito di redditi adeguati e che la ricostruzione operata dal consulente sarebbe limitata e formale, quindi inadatta a vincere la presunzione di illecita provenienza del bene, ma deve invece dimostrare l’eventuale inattendibilità dell’assunto difensivo.

Secondo il dettato normativo, la confisca obbligatoria si applica anche in caso di applicazione della pena su consenso delle parti, poiché attesa la sua natura eminentemente sanzionatoria, essa si colloca completamente al di fuori della disponibilità delle parti e non lascia spazio a discrezionalità del giudice.

È stato anche deciso che la confisca può riguardare anche cespiti acquisiti in epoca anteriore alla entrata in vigore delle disposizioni, che l’hanno istituita, in quanto il principio di irretroattività opera solo con riguardo alle confische aventi natura sanzionatoria e non anche in relazione alle misure di sicurezza, tra le quali va compresa la confisca in questione.: ma per le ragioni già esposte questo indirizzo non può essere condiviso.

Viceversa, la confisca di un bene condotto in locazione finanziaria da un autore del delitto di cui all’art. 12 sexies, d.l. 306/1992 non può trovare applicazione in danno della società locatrice, terza proprietaria (fino al pagamento dell’ultimo canone) in buona fede.

5.3. Profili di costituzionalità

Il continuo ampliamento delle ipotesi di confisca per equivalente, e quindi del prodromico sequestro preventivo, spesso dichiarato obbligatorio, impone una riflessione sui profili di costituzionalità dell’istituto.

Va infatti constatato con preoccupazione che i già troppo labili confini normativi dell’originario sequestro preventivo c.d. impeditivo o finalizzato alla confisca sono stati resi ancor più evanescenti dalla serie di disposizioni introdotte nell’ordinamento in materia di confisca per equivalente, che, grazie anche alla lettura che ne ha dato la giurisprudenza, hanno provocando inaccettabili semplificazioni, al limite dell’automatismo, nella spoliazione di beni, contaminando il processo penale con finalità e istituti propri delle misure di prevenzione.

Questa deriva sembra arginabile solo parzialmente dalla giurisprudenza della Corte EDU, non sembrando attestate su posizioni garantiste la Corte di legittimità e la Corte costituzionale (salvo ovviamente qualche lodevole eccezione).

Men che meno si può confidare su un intervento del legislatore che ponga ordine a questa complessa materia, ristabilendo l’equilibrio tra difesa sociale e garantismo (com’era nelle originarie intenzioni e più non è): ed anzi le più recenti scelte attuate con la l. 94/2009, la l. 50/2010, di conversione del d.l. 4/2010 e d.lg. 159/2011 (c.d. codice antimafia, che ha stabilito la prevalenza del sequestro di prevenzione su quello penale), vanno nella opposta direzione, sospingendo, non è dato comprendere quanto consapevolmente, il sequestro preventivo finalizzato alla confisca per equivalente verso l’area delle misure di prevenzione, alla quale dovrebbe invece restare estraneo, attraverso una normativa contraddittoria e confusa.

Per altro verso, va rilevato come la declaratoria di rispondenza alla costituzione del sequestro preventivo previsto dall’art. 321 c.p.p., secondo il giudice delle leggi, si sia fondata principalmente sul tasso di pericolosità della cosa e sul vincolo di pertinenzialità tra il bene e il reato, che consente un efficace espletamento del diritto di difesa, attraverso la contestazione di tale nesso in riferimento alla fattispecie dedotta e verificata dal giudice.

In riferimento alla questione di legittimità costituzionale dell’art. 12 sexies d.l. 8-6-1992, n. 306, il tribunale di Santa Maria Capua Vetere aveva denunciato, non senza fondamento, la elusione nell’art. 12 sexies in esame dei principi affermati nella sentenza 48/1994, giacché la possibilità di adottare il provvedimento di sequestro preventivo nel corso del procedimento concernente l’accertamento del reato “presupposto” vanifica la previsione introdotta dal legislatore nel 1° e 2° comma della norma impugnata, ove la qualità di indagato è stata sostituita con quella di condannato, dal momento che, per un verso, sarebbe impedito al giudice del riesame di verificare la gravità degli indizi che sostengono il merito dell’accusa e, sotto altro profilo, risulterebbe svilito il requisito della “immediata correlazione” tra beni e reato che costituisce l’ordinaria condizione di legittimità del sequestro.

La Corte costituzionale ha ritenuto la questione manifestamente infondata, sostenendo che nella specie il sequestro preventivo è destinato esclusivamente ad assicurare l’esecuzione del provvedimento di confisca che deve essere adottato nel caso di condanna a norma del 1° e 2° comma della disposizione censurata, e poiché la confisca ivi disciplinata ha struttura e presupposti diversi dall’istituto generale previsto dall’art. 240 c.p., sarebbe evidente che anche i requisiti di sequestrabilità debbano essere necessariamente calibrati sulla falsariga di quelli previsti per l’adozione del provvedimento ablatorio definitivo, con ovvie conseguenze, quindi, sulla qualificazione stessa del vincolo pertinenziale che di regola deve sussistere tra reato e cose oggetto della misura cautelare reale.

In questa ipotesi, il legislatore avrebbe non irragionevolmente ritenuto di presumere l’esistenza di un nesso pertinenziale tra alcune categorie di reati e i beni di cui il condannato non possa giustificare la provenienza e che risultino di valore sproporzionato rispetto al reddito o alla attività economica del condannato stesso, per cui il parametro di legittimità del sequestro preventivo è costituito dall’identica relazione tra il delitto per il quale si procede e la giustificazione della provenienza dei beni, proprio perché misura è destinata ontologicamente ad impedire la sottrazione o dispersione di questi stessi beni che possono formare oggetto di confisca in ipotesi di condanna.

Sequestro e confisca, in altri termini, rappresentano nel caso di specie, come in tutte le ipotesi riconducibili all’art. 321, 2° comma, istituti fra loro specularmente correlati sul piano dei presupposti, al punto che soltanto deducendo l’illegittimità costituzionale del secondo potrebbe venire in discorso l’illegittimità del primo.

Non sarebbero nemmeno violati il principio di uguaglianza e il diritto di difesa, sia per le considerazioni poste a fondamento della sentenza 48/1994, sia perché la persona cui i beni sono stati sequestrati può in ogni tempo contestare il provvedimento cautelare e provare l’inesistenza dei suoi presupposti attraverso il riesame o domandando la revoca della misura, con l’ulteriore possibilità di proporre appello avverso la decisione del giudice.

Il parametro per affermare la costituzionalità della misura viene quindi individuato nel nesso di pertinenza tra il bene sottoposto a sequestro e il reato.

Tale nesso è però completamente venuto meno nel sequestro finalizzato alla confisca per equivalente, sul quale la sentenza 18/1996 è silente: e anche la successiva decisione 97/2009 si è limitata ad affermare che l’assenza del rapporto di pertinenzialità attribuisce alla confisca per equivalente una connotazione prevalentemente afflittiva ed eminentemente sanzionatoria, che esclude una sua applicazione retroattiva.

In materia, si è recentemente posto in evidenza che l’inaccettabile tendenza a far prevalere le esigenze di difesa sociale sulle garanzie individuali trova una decisa applicazione nelle ipotesi particolari di confisca previste dall’art. 12 sexies, d.l. 8-6-1992, n. 306, ove è venuto meno di ogni nesso di pertinenzialità con il reato presupposto, per cui la sanzione espropriativa consegue al mero sospetto che i beni non giustificati siano frutto dell’illecita attività accertata, senza alcuna dimostrazione che da essa sia derivato un qualsiasi vantaggio economico e in particolare quello costituito dai beni sottoposti alla misura, la quale si caratterizza per l’ampiezza del suo contenuto (esteso a ricomprendervi tutti i beni di valore sproporzionato rispetto al reddito dichiarato), ma anche per l’inversione dell’onere della prova sulla loro legittima provenienza, difficilissima da fornire, con pesante sacrificio del diritto di difesa: e va considerato come la confisca possa derivare anche da una sentenza di patteggiamento e quindi non di piena cognizione.

Secondo indirizzi consolidati, invero, questo tipo di misura cautelare (in ragione della diversità di presupposti con la ordinaria confisca prevista dall’art. 240 c.p., che ha ad oggetto soltanto cose direttamente riferibili al reato) può riguardare beni che non hanno alcun rapporto con la pericolosità individuale del reo e neppure alcun nesso di pertinenza con il singolo reato: attese anche le numerose ipotesi di obbligatorietà del sequestro e la inderogabilità della confisca, i presupposti della misura sono stati individuati nella ravvisabilità di uno dei reati per i quali essa è consentita e nella circostanza che nella sfera giuridico patrimoniale del responsabile non siano stati rinvenuti, per qualsivoglia ragione ed anche in caso di impossibilità transitoria e reversibile di loro reperimento, i beni costituenti il prezzo o il profitto certo del reato.

Sicché il fumus commissi delicti si riduce alla configurabilità di uno dei reati previsti dalle varie disposizioni e viene ulteriormente svuotato dalla presunzione di illecito accumulo del patrimonio, mentre il periculum in mora si limita alla confiscabilità del bene, con la conseguenza che è diventata particolarmente agevole l’ablazione del patrimonio del condannato, vanificando quasi del tutto il diritto di difesa e riducendo il diritto alla prova e al contraddittorio sull’adozione della sanzione ad un mero simulacro di tutela.

Il descritto quadro giuridico induce pertanto a nutrire seri dubbi di costituzionalità del sequestro per equivalente in relazione all’osservanza della presunzione di non colpevolezza, che conserva la sua valenza di regola di trattamento e di giudizio pure nei procedimenti cautelari nonché all’esercizio del diritto di difesa e alla tutela della proprietà privata.

Non sembra sufficiente a rendere l’istituto compatibile con questi principi la tesi, convalidata dalla più recente giurisprudenza, di sopperire alla mancanza del nesso pertinenziale attraverso l’individuazione di un più forte legame soggettivo con il reo, estendendo l’accertamento del fumus commissi delicti agli indizi di colpevolezza a carico dell’indagato.

Sarebbe dunque necessaria una riconsiderazione della sua rispondenza ai principi costituzionali.

Le conclusioni
Le conclusioni sono sconfortanti.

Per lunghi anni gli orientamenti giurisprudenziali sono stati caratterizzati da una quasi totale rinuncia ad una penetrante valutazione dei presupposti di applicabilità della misura, rimessa alle scelte del p.m., e vanificando così nella sostanza la giurisdizionalizzazione della procedura, con sconcertanti automatismi applicativi in una materia che involge interessi protetti dalla costituzione e dalla c.e.d.u.

Solo recentemente i giudici di legittimità stanno scoprendo che al centro di ogni processo penale e dei suoi particolari istituti, quali le misure cautelari reali, vi sempre una vicenda umana e che pertanto non è possibile prescindere da una approfondita disamina della (eventuale) condotta illecita del soggetto indagato, che è preliminare all’accertamento della pericolosità della cosa di cui si vuole impedire l’utilizzazione.

E questa esigenza dovrebbe ancor più valere in materia di sequestro finalizzato alla confisca per equivalente, specie nella forma di cui all’art. 12 sexies, ove è stato reciso qualunque nesso di pertinenza tra il reato e la cosa sottoposta alla misura ablativa ed è quindi del tutto evaporato il presupposto principale posto a fondamento delle decisioni del giudice delle leggi di rispondenza alla costituzione dell’istituto.

Non resta da augurarsi che la giurisprudenza rafforzi e completi il rammentato percorso di omologazione tra i presupposti delle misure cautelari personali e reali, attraverso le interpretazioni rispettose dei principi fissati dalla costituzione e dalla c.e.d.u., poiché un intervento adeguatore del legislatore appare improbabile alla luce degli ultimi indirizzi normativi di avvicinamento al sequestro di prevenzione di quello finalizzato alla confisca per equivalente, così come non sembra possibile riporre fiducia in un nuovo esame dei delineati profili da parte della corte costituzionale.

Piero Gualtieri

già professore ordinario di Diritto processuale penale nell’Università di Urbino

(*) Il presente contributo è stato oggetto di positiva valutazione da parte del Comitato Scientifico.

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Sono utilizzabili nel processo penale, ancorché imputato sia il lavoratore subordinato, i risultati delle videoriprese effettuate con telecamere installate all'interno dei luoghi di lavoro ad opera del datore di lavoro per esercitare un controllo per tutelare il patrimonio aziendale messo a rischio da possibili comportamenti infedeli dei lavoratori, in quanto le norme dello Statuto dei lavoratori poste a presidio della loro riservatezza non proibiscono i cosiddetti controlli difensivi del patrimonio aziendale e non giustificano pertanto l'esistenza di un divieto probatorio (Cass. Pen. Sez. II, 16 gennaio 2015 n. 2890, CED Cass.) IL CASO. Il caso sottoposto all’esame della Corte riguardava la vicenda in cui il proprietario di un negozio, in seguito a taluni furti, provvedeva ad installare una telecamera nascosta e puntata verso la cassa, così riprendendo, in più occasioni, una dipendente intenta a prelevarvi somme di denaro ricevute dai clienti. In base a tali risultanze, pertanto, la medesima veniva tratta a giudizio e condannata per appropriazione indebita. L’argomento giuridico invocato dalla difesa per censurare le unanimi pronunce dei giudici di merito è stato di natura squisitamente processuale: l’inutilizzabilità dei risultati delle videoriprese per violazione degli artt. 4 e 18 della legge n. 300 del 1970 (cd. Statuto dei Lavoratori). La Corte, nel rigettare la questione, ha dato continuità all’indirizzo giurisprudenziale secondo cui sono processualmente utilizzabili le videoriprese effettuate dal datore di lavoro per accertare comportamenti potenzialmente delittuosi e non, invece, per esercitare un controllo a distanza dei lavoratori. Ne consegue, secondo tale impostazione, che i risultati delle videoriprese sono pienamente acquisibili ed utilizzabili come documenti ex art. 234 c.p.p. La pronuncia, seppur concisamente, lambisce un tema di sempre maggiore attualità, cioè a dire l’ausilio tecnologico nell’accertamento della verità, sia processuale che extraprocessuale, e i correlativi limiti VIDEORIPRESE SUI LUOGHI DI LAVORO (NOTA A CASS. PEN. N. 2890/2015) (*) Luca Gessaroli Fascicolo n. 1/2016 www.ilforomalatestiano.it Pag. 2 di 9 rinvenibili nel sistema positivo a tutela dei diritti dei soggetti “osservati”. Occorre pertanto brevemente ricostruire il sistema pretorio delle videoriprese, per poi analizzare più nello specifico il caso in esame. VIDEORIPRESE SUI LUOGHI DI LAVORO. NATURA DELLO STRUMENTO. La sentenza in commento si iscrive in un orientamento già espresso in altre occasioni dalle sezioni penali della Corte di Cassazione1 . Il tema è peraltro di particolare interesse, poiché impone un’analisi necessariamente multidisciplinare che involge il sistema giuslavoristico e quello processualepenale, nonché fonti di rango secondario, rappresentate dai provvedimenti del Garante della privacy. Anzitutto,occorre preliminarmente indagare la natura dei risultati delle videoriprese effettuate in autonomia dal datore di lavoro sui luoghi di lavoro stessi. Trattasi, come è evidente, di (*) Il presente contributo è stato oggetto di positiva valutazione da parte del Comitato Scientifico. 1 Relativa allo stesso caso di specie è Cass. pen., 1 giugno 2010, n. 20722, n. 20722, in C.E.D. Cass., n. 247588, che, pur qualificando come privata dimora il luogo di lavoro ai sensi dell’art. 614 c.p., ha ritenuto che non abbiano carattere illecito, ai sensi degli artt. 189 e 191 c.p.p., le prove documentali rappresentate da riprese audiovisive effettuate nei locali aziendali, anche al di fuori dei limiti previsti dall'art. 4 della l. n. 300 del 1970 quando le stesse siano state eseguite non al fine di controllare l'attività del lavoratore ma al solo fine di salvaguardare il patrimonio aziendale dalle offese altrui, ivi compresi i lavoratori medesimi, perché le norme dello Statuto dei lavoratori poste a presidio della loro riservatezza, non fanno divieto dei cosiddetti controlli difensivi del patrimonio aziendale e non giustificano pertanto l'esistenza di un divieto probatorio. Nello stesso senso; Cass. pen., 26 marzo 2008, n. 26597, in D.p.l., 2009, p. 317; Cass. pen., 14 dicembre 2009, n. 47429, in N. g. l., 2010, p. 185; Cass. pen, 12 luglio 2011, n. 34842, in Cass. pen.,2012, p. 1430. documenti, acquisibili in dibattimento ex art. 234 c.p.p., e non invece di atti processuali. L’atto del procedimento, infatti, è qualificabile come l’atto che persegue le finalità del procedimento e che è compiuto da uno dei soggetti in esso operanti. La relativa documentazione, come i verbali o, nel caso di specie, le videoriprese, rappresenta la mera cristallizzazione (e dunque la rappresentazione) degli atti del procedimento stesso2 . Il documento3 , invece, è la rappresentazione di fatti, persone o cose effettuata al di fuori del procedimento, anche se non necessariamente prima4 . In tale 2 Tonini, Manuale breve diritto processuale penale, 2014, Milano, p. 239, ove si legge «se l’oggetto rappresentato è un fatto o un atto del medesimo procedimento, il codice non utilizza il termine “documento”, bensì il termine “documentazione”» e che «il verbale che rappresenta un atto del procedimento, non è un “documento” bensì è una forma di “documentazione”. Per “atto del procedimento” si intende comunemente quell’atto che persegue le finalità del procedimento e che è compiuto da uno dei soggetti legittimati, e cioè il giudice, il pubblico ministero, la polizia giudiziaria (o i loro ausiliari) ed i difensori». 3 Tonini, Manuale breve, cit., p. 239 afferma efficacemente che «il codice non contiene una definizione espressa di “documento”, anche se ne fornisce un requisito positivo ed uno negativo. Il requisito positivo è indicato nell’art. 234, comma 1: perché vi sia documento è sufficiente uno scritto o altro oggetto comunque idoneo a rappresentare un fatto, una persona o una cosa. Il requisito negativo si ricava dalla sistematica del codice come, del resto, viene sottolineato espressamente dalla Relazione al progetto preliminare (p. 67). L’oggetto rappresentato deve essere un atto o un fatto differente dagli atti processuali compiuti nel procedimento nel quale il documento è acquisito». 4 Cass., Sez. Un., 28 marzo 2006, n. 26795, in Cass. pen., p. 3937 che richiamando la Rel. Prog. Prel. C.p.p. vigente e la precedente giurisprudenza di legittimità in merito alla distinzione tra atti e documenti, ha sottolineato che «ai fini dell’ammissione delle prove documentali sono necessarie due condizioni: a) che il documento risulti materialmente formato fuori, ma non necessariamente prima, del procedimento; b) che lo Fascicolo n. 1/2016 www.ilforomalatestiano.it Pag. 3 di 9 fattispecie processuale, disciplinata dagli artt. 234 ss c.p.p., si inscrivono, evidentemente, i risultati delle videoriprese effettuate privatamente dal datore di lavoro per tutelare propri beni aziendali. Si tratta, infatti, di attività senza dubbio connesse all’accertamento della “verità”, ma collocate al di fuori del procedimento. Ciò posto, occorre interrogarsi sulla presenza di limiti all’acquisizione dei risultati delle videoriprese del datore di lavoro effettuate a scopi difensivi. Più precisamente, occorre chiedersi se dal sistema positivo siano desumibili divieti probatori che, ai sensi dell’art. 191 c.p.p., interdicano l’utilizzabilità degli elementi probatori tratti dalle prove acquisite al fascicolo ai fini della decisione sottoposta all’esame del giudicante. Occorre pertanto procedere ad una precisa analisi delle disposizioni rilevanti. IL QUADRO NORMATIVO. La censura proposta dal ricorrente concerneva l’inutilizzabilità delle videoriprese (rectius, dei risultati delle stesse) per violazione degli artt. 4 e 38 l. 300/1970. L’art. 4, in particolare, vieta l’uso di impianti audiovisivi finalizzati al controllo «dell’attività del lavoratore» e consente la sola predisposizione di apparecchiature di registrazione richieste da esigenze organizzative, produttive o di sicurezza, pur con il previo accordo con le rappresentanze sindacali. Come stesso oggetto della documentazione extra-processuale appartenga al contesto del fatto oggetto di conoscenza giudiziale e non al contesto del procedimento». Vedi anche Focardi, Sub art. 234, in Codice di procedura penale commentato, a cura di Giarda –Spangher, I, Milano, 2010, p. 1728. acutamente osservato5 , dunque, tale disposizione, da un lato, vieta in modo assoluto i controlli preordinati ad osservare il lavoratore nello svolgimento delle sue ordinarie mansioni; dall’altro, consente i controlli per esigenze organizzative, produttive e di sicurezza, che solo indirettamente ed accidentalmente potrebbero riprendere il lavoratore nell’ambito della sua attività, a condizione che siano osservate le procedure di cui all’art. 4, co. 2, St. lav.. L’art. 38, poi, sanziona penalmente il datore che abbia violato gli artt. 2, 5, 6 e 15, co. 1 lett a) dello Statuto; come è evidente, tra le disposizioni presupposte non rientra l’art. 4 in materia di impianti di videosorveglianza. Ed invero, tale materia è regolata anche dalla disciplina legislativa posta a tutela dei dati personali e contenuta nel d.lgs. 196/2003, poiché, come ha avuto modo di sottolineare il Garante della privacy, la raccolta, la registrazione e in generale l’utilizzo di immagini configura un trattamento di dati ai sensi dell’art. 4, co. 1, lett. b), d.lgs. 196/20036 . Orbene, ciò che rileva, ai fini che qui interessano, è che, ai sensi dell’art. 171 d.lgs. 196/2003, la violazione delle disposizioni di cui agli artt. 113, co. 1 e 114 d.lgs. 196/2003 è punita con le sanzioni di cui all’art. 38 dello Statuto. Dal canto loro, detti articoli dispongono rispettivamente che resta 5 Pasquarelli, Grande fratello sul luogo di lavoro: il contrasto fra sezione penale e sezione civile della Corte di Cassazione, in www.questionegiustizia.it. 6 Provvedimento in materia di videosorveglianza 8 aprile 2010, doc. web 1712680, punto 1. Fascicolo n. 1/2016 www.ilforomalatestiano.it Pag. 4 di 9 fermo quanto disposto dall’art. 8 (art. 113) e dall’art. 4 dello Statuto (art. 114). Dall’intricata tela normativa, dunque, sembra trarsi che le sanzioni previste dall’art. 38 dello Statuto conseguono non solo alla violazione degli articoli dallo stesso indicati, ma anche degli articoli 8 e, per quanto qui interessa, 4. Pertanto, ne deriva ulteriormente che l’installazione di impianti audiovisivi finalizzata al controllo dei lavoratori è condotta penalmente illecita. In tale materia, infine, trova spazio anche la disciplina dettata dal Garante privacy nella sua attività normativa regolamentare. Il Garante, in particolare, ha specificato il paradigma di comportamento richiesto al datore, stabilendo che l’uso di impianti di videosorveglianza è ammesso per molteplici finalità legittime, inclusa la tutela dei suoi beni e l’acquisizione di prove, purché ciò non determini un’ingerenza ingiustificata nei diritti e nelle libertà delle persone. Pertanto, occorre che il datore o il soggetto eventualmente delegato adotti sistemi di controllo in cui la compressione dei diritti fondamentali – tra cui rientra la privacy – sia ridotta al minimo in base ai principi di necessità e proporzionalità, espressi dall’art. 3 d.lgs. 196/20037 . Infine, il Garante ha stabilito che sono espressamente vietate le videoriprese dirette a verificare l’osservanza dei doveri di diligenza stabiliti per il rispetto dell’orario di 7 Provvedimento generale del Garante in materia di videosorveglianza, 8 aprile 2010, doc web n. 1116810, punto 2. lavoro e la correttezza dell’esecuzione della prestazione lavorativa. Per altro verso, anche qualora l’osservanza sia giustificata da ragioni organizzative e di produzione, non può escludersi che la stessa capti, pur indirettamente, comportamenti dei lavoratori: per tale ragione, il Garante prescrive la necessità di osservare in ogni caso le procedure di accordi con le rappresentanze sindacali prescritte dall’art. 4, co. 2, dello Statuto8 . GLI ORIENTAMENTI. Il quadro normativo testé riportato consente ora di apprezzare con maggior rigore i contrapposti orientamenti in ordine alla utilizzabilità, nel processo penale, dei risultati di videoriprese svolte dal datore sul luogo di lavoro per cogliere eventuali illeciti ivi commessi dai suoi dipendenti. Un primo orientamento, favorevole9 , ritiene che l’installazione degli impianti di videosorveglianza ad esclusivi “scopi difensivi” sia espressione di un potere datoriale privato, fondato sulla necessità di reprimere gli abusi dei dipendenti. Inoltre, sebbene le disposizioni contenute nello Statuto dei Lavoratori 8 Invero, su tale ultimo aspetto, potrebbero esprimersi non poche perplessità in ordine alla legittimità di quanto disposto dal Garante. Infatti, nel prescrivere l’osservanza delle procedure di cui all’art. 4, co. 2, dello Statuto, il provvedimento, che ha natura regolamentare, sembra porsi in contrasto con la lettera dell’art. 4, co. 1, che al contrario esclude tale necessità nelle ipotesi in cui il controllo sia giustificato da ragioni organizzative o di produzione 9 De Luca Tamajo, Introduzione, in Tecnologie della comunicazione e riservatezza nel rapporto di lavoro, a cura di Tullini, in Tratt. GI, 2010, 4 s.; ID., I controlli sui lavoratori, in I poteri del datore di lavoro nell'impresa, a cura di Zilio Grandi, Cedam, 2002, 29 ss.; Ichino, Il contratto di lavoro, in Tratt C.M., III, 2003, 233 ss.. Fascicolo n. 1/2016 www.ilforomalatestiano.it Pag. 5 di 9 siano poste a presidio della riservatezza e della dignità del lavoratore, il comportamento (penalmente) illecito di quest’ultimo, abusivo o infedele, non dovrebbe costituire un adempimento lavorativo, attenendo ad una condotta squisitamente extraprofessionale10. Si tratterebbe, in altre parole, di una condotta posta in essere in occasione delle mansioni lavorative, e non ad esse funzionale. Un diverso orientamento, invece, ritiene inutilizzabili i risultati di dette videoriprese, poiché l’esigenza di salvaguardare il patrimonio aziendale non può ritenersi prevalente rispetto alle garanzie di riservatezza e di dignità del lavoratore: «l'insopprimibile esigenza di evitare le condotte illecite da parte dei dipendenti non può assumere portata tale da giustificare un sostanziale annullamento di ogni forma di garanzia della dignità e riservatezza» a tutela del lavoratore11. Di conseguenza, le garanzie procedurali ed i limiti imposti all’impiego di impianti di videosorveglianza si estendono anche ai cd. controlli a scopi difensivi, derivando da essi la concreta, seppur indiretta, possibilità di un controllo a distanza dell’attività del lavoratore. Ed invero, occorre a questo punto una precisazione. Altro è predicare l’utilizzabilità o inutilizzabilità e, ancor prima, la possibilità stessa di effettuare le 10 Tullini, Videosorveglianza a scopi difensivi e utilizzo delle prove di reato commesso dal dipendente, in Riv. It. Dir. Lav., 2011, I, p. 86; Pasquarelli, Grande fratello sul luogo di lavoro, cit.. 11Cass. sez. lav., 17 luglio 2007, n. 15892, in Riv. it. dir. lav., 2008, II, 714, nt. Vallauri, È davvero incontenibile la forza espansiva dell'art. 4 dello Statuto dei lavoratori? videoriprese sotto il profilo civilistico, e più precisamente giuslavoristico, ad esempio sia ai fini disciplinari sia ai fini probatori in un’eventuale azione di risarcimento danni; altro , a ben vedere, è invece l’utilizzabilità o inutilizzabilità dei risultati di dette videoriprese nel processo penale. Non stupisce, quindi, che la giurisprudenza di legittimità abbia seguito strade divergenti. Più precisamente, la Sezione Lavoro ha aderito ad ambedue gli orientamenti suesposti. Alcune pronunce, nel bilanciamento tra i contrapposti interessi della riservatezza del lavoratore e del datore di lavoro, hanno ritenuto prevalenti le seconde tutte le volte in cui si faccia questione di videoriprese eseguite a scopi difensivi del patrimonio aziendale12. Altre più recenti, invece, hanno ritenuto che in detto bilanciamento non possa che prevalere la tutela della riservatezza del lavoratore, da cui la conseguente inammissibilità delle videoriprese e la inutilizzabilità dei loro risultati anche nel processo penale a carico del dipendente13. Al contrario, la giurisprudenza penale ha sostanzialmente14 ritenuto 12 Cass. sez. lav., 14 luglio 2001, n. 9576, in Arch. Civ, 2001, p. 1120; Cass. sez. lav., 2 marzo 2002, n. 3039, in Riv. It. Dir. Lav., 2002, 4, pp. 873 ss.., Cass. sez. lav., 17 luglio 2007, n. 15892, cit., Cass. sez. lav., 10 luglio 2009, n. 16196, in C.E.D. Cass, rv. 609379. 13 Cass. sez. lav., 17 luglio 2007, n. 15892, in C.E.D. Cass, rv. 598745, Cass. sez. lav., 23 febbraio 2010, n. 4375, in Riv. It. Dir. Lav., 2010, 2, pp. 564 ss., Cass. sez. lav., 1 ottobre 2012, n. 16622, in C.E.D. Cass., rv. 624112. 14 Cass. pen., 16 ottobre 2009, n. 40199, Riv. Giur. Lav., 2010, p. 275, è forse l’unica pronuncia in senso contrario, secondo cui commette il reato contravvenzionale dell’art. 38 St. Lav. Il datore di lavoro che installi un sistema di videosorveglianza sena Fascicolo n. 1/2016 www.ilforomalatestiano.it Pag. 6 di 9 dette videoriprese utilizzabili a fini probatori nel processo penale15. Secondo una lettura16, la ragione andrebbe rinvenuta nel principio di fondo seguito dalle Sezioni penali, cioè a dire la prevalenza del prioritario interesse pubblico alla prevenzione ed accertamento dei reati rispetto alla riservatezza dei dipendenti. A ben vedere, la difformità di vedute sul tema tra le Sezioni civili e penali, lungi dal disorientare, è il portato dei diversi principi che regolano l’utilizzabilità delle prove in campo penale, di cui la sentenza in commento fa (sostanziale) applicazione, pur senza chiarire esplicitamente tutti i passaggi del relativo iter logico. Risulta pertanto utile ripercorrerne il filo argomentativo. Come anticipato, i Giudici di Piazza Cavour hanno ritenuto dirimenti le finalità perseguite dal datore nell’installare gli impianti di ripresa visiva: in particolare, si afferma, sono utilizzabili nel processo penale le videoriprese effettuate con telecamere installate nei luoghi di lavoro per accertare comportamenti potenzialmente delittuosi. Per giustificare tale conclusione, vengono anzitutto richiamati i precedenti sul punto, secondo cui, ancorché l’imputato sia il lavoratore subordinato, sono utilizzabili nel processo penale i risultati delle la preventiva autorizzazione sindacale o amministrativa. 15, Cass. pen., 26 marzo 2008, n. 26597, in D.p.l., 2009, pp. 317 ss.; Cass. pen., 14 dicembre 2009, n. 47429, in N. g. l., 2010, pp. 185 ss.; Cass. pen., 1 giugno 2010, n. 20722, in C.E.D. Cass., rv. 247588; Cass. pen, 12 luglio 2011, n. 34842, in Cass. pen.,2012, p. 1430. 16 Tullini, Videosorveglianza a scopi difensivi, cit.. videoriprese effettuate con telecamere installate all'interno dei luoghi di lavoro ad opera del datore per esercitare un controllo a beneficio del patrimonio aziendale messo a rischio da possibili comportamenti infedeli dei lavoratori, perché le norme dello Statuto dei lavoratori, poste a presidio della loro riservatezza, non fanno divieto dei cosiddetti “controlli difensivi” del patrimonio aziendale e non giustificano pertanto l'esistenza di un divieto probatorio. La Corte conclude, pertanto, affermando che i risultati delle videoriprese non possono considerarsi prove illegali, illegittimamente acquisite, ex art. 191 c.p.p., bensì prove documentali, acquisibili ex art. 234 c.p.p.. A tale lettura si contrappongono alcune critiche. In particolare, si sottolinea che i controlli “a scopi difensivi” non sono espressamente previsti dal legislatore, ma sono frutto di una giurisprudenza creativa; che, in secondo luogo, l’art. 4 St. Lav. parla di «attività dei lavoratori» e non di «attività lavorativa», di talché il correlativo divieto sarebbe esteso ad ogni comportamento tenuto dal lavoratore nell’azienda. Infine, che, ad ogni buon conto, non sarebbe possibile distinguere a priori il controllo sull’attività lavorativa del dipendente dal controllo di suoi potenziali , comportamenti illeciti17. RILETTURA ALLA LUCE DELLE COORDINATE DEL CODICE: 17 Pasquarelli, Grande fratello sul luogo di lavoro, cit.; Dossi, Controlli a distanza e legalità della prova: tra esigenze difensive del datore di lavoro e tutela della dignità del lavoratore, in DRI, 2010, pp. 1155 ss.. Fascicolo n. 1/2016 www.ilforomalatestiano.it Pag. 7 di 9 INUTILIZZABILITÀ E ILLEGALITÀ DELLA PROVA. In realtà, come anticipato, il peso specifico degli argomenti appena esposti è (forse) dirimente nel processo civile; lo stesso non può dirsi, però, per il processo penale. All’uopo, occorre richiamare ancora una volta un passo della motivazione della sentenza in commento per meglio esplicare la ragione, forse inconsapevole, che rende corretto ritenere i risultati di dette videoriprese utilizzabili. Il dato di interesse è il termine prova “illegale”: nella sentenza, infatti, si afferma che le videoriprese sono utilizzabili poiché non è ravvisabile in esse alcuna illegalità. In occasioni passate la Cassazione aveva impiegato il termine prove “illecite”, affermando che non hanno carattere illecito, ai sensi degli artt. 189 e 191 c.p.p., le prove documentali rappresentate da riprese audiovisive effettuate nei locali aziendali, anche al di fuori dei limiti previsti dall’art. 4 St. Lav., laddove le stesse siano state eseguite al fine di controllare l’attività del lavoratore, ma al solo fine di salvaguardare il patrimonio aziendale dalle offese altrui, ivi compresi i lavoratori medesimi18. La difformità terminologica sembra trarre linfa, forse inconsapevolmente, dal lessico rinvenibile nell’art. 240 c.p.p., che, dopo la modifica avvenuta con il d.l. 259/2006, prevede l’inutilizzabilità e distruzione delle prove cd. “illegali”, laddove rientrino nelle ipotesi ivi previste, tra cui, a ben vedere, non 18Cass., Sez. V, 1 giugno 2010, n. 20722, cit.. figurano le videoriprese19. Ciò assume particolare rilevanza: infatti la giustificazione che la Corte adduce per ammettere i risultati delle videoriprese dovrebbe passare, in realtà, proprio attraverso l’analisi dell’art. 240 c.p.p. e degli articoli che disciplinano l’utilizzabilità delle prove in campo penale. Più precisamente, secondo l’opinione maggioritaria20i divieti probatori di cui all’art. 191 c.p.p. non possono che derivare dalla stessa legge processuale21 o, al più, dal dettato costituzionale, laddove si ammetta la 19 Il novellato comma 2 dell’art. 240 c.p.p., infatti, così recita: <>. 20 Cordero, Procedura penale, Milano, 2012, p. 613; CORDERO, Prove illecite nel processo penale, in Riv. it. dir. proc. pen., 1961, p. 38.; Cordero, Il procedimento probatorio, in Cordero, Tre studi sulle prove penali, Milano, 1963, p. 63, secondo cui l’elemento tipizzante di un divieto probatorio sia la carenza di potere istruttorio: <> e <>; Galantini, L’inutilizzabilità della prova nel processo penale, Padova, 1992, p. 35 ritiene invece che in assenza di un'espressa sanzione d'inutilizzabilità, una previsione normativa assume il ruolo di divieto probatorio se è posta a protezione di determinati interessi processuali o extraprocessuali. Occorre quindi «scoprire quando [la regola probatoria] si atteggia a strumento di tutela dell'attendibilità dell'accertamento o del diritto di difesa o di altri diritti anche costituzionalmente tutelati»; Scella, L’inutilizzabilità della prova nel sistema del processo penale, in Riv. dir. pen. proc., 1992, p. 203; Lozzi, Lezioni di procedura penale, 7° ed., Torino, 2006, p. 228. 21 In tal senso, il termine “legge” non starebbe a significare qualunque disposizione normativa di primo grado, ma solo quelle che disciplinano il processo penale e quelle che, pur di altri settori, siano dalle prime richiamate. Fascicolo n. 1/2016 www.ilforomalatestiano.it Pag. 8 di 9 discussa categoria delle prove cd. incostituzionali22. Ciò comporta quindi che, di regola, l’illiceità penale, civile o amministrativa di un mezzo probatorio (si pensi al classico esempio della testimonianza resa da chi aveva il dovere di serbare un segreto professionale) non determina automaticamente l’inutilizzabilità processuale dello stesso, all’uopo occorrendo un’espressa previsione normativa23. In altre parole, occorre che il legislatore valorizzi nel settore processuale la violazione di norme sostanziali, ricollegandovi una sanzione, appunto, processuale, come l’inutilizzabilità. Ciò accadeva, ad esempio, nell’art. 226 quinques c.p.p. del codice di procedura penale previgente24. Stando così le cose, la violazione da parte del datore di lavoro dell’art. 4 St. Lav., in sé, non avrebbe alcuna efficacia sul piano dell’utilizzabilità processuale dei risultati delle videoriprese, e ciò alla luce della previsione generale contenuta nell’art. 191 c.p.p., che fa riferimento ai “divieti” stabiliti dalla legge, intesa, secondo quanto appena ricordato, come legge “processuale”. Tuttavia, proprio in quest’ottica, il richiamo all’art. 240 c.p.p., e con esso all’illegalità, assume una portata dirimente. La novella normativa del 22 Sul tema in particolare: Mainardis, L’inutilizzabilità processuale delle prove incostituzionali, in Quaderni Costituzionali, 2002, 2, p. 371 23 Marinelli, Intercettazioni processuali e nuovi mezzi di ricerca della prova, Torino, 2007, p. 137. 24 L’art. 226-quinquies c.p.p. abr. prevedeva la nullità assoluta di ogni decisione fondata su <> costituenti reato ai termini dell’art. 615-bis c.p.. 200625 in materia di cd. dossieraggio e spionaggio illegali ha infatti innovato l’art. 240 c.p.p.: in particolare, ha introdotto la nuova categoria delle prove illegali, che, se accertate come tali, sono inutilizzabili e vanno immediatamente distrutte in un apposito procedimento camerale. Sul significato del termine “illegale” la dottrina ha espresso numerose critiche26. Ad ogni buon conto, secondo la lettura più convincente – e peraltro più condivisa - il legislatore sarebbe incorso in una “svista”, impiegando il termine “illegale” in luogo di “illecito”, e che l’illiceità rilevante sarebbe solo quella derivante dalla violazione di una disposizione penale27. Ne consegue, pertanto, che laddove un soggetto estraneo al procedimento e per finalità altre ponga in essere illeciti sussumibili nelle 25 Decreto legge n. 259 del 2006, convertito con modificazioni nella legge n. 181 del 2006. 26 Manzione, Intercettazioni illegali: soluzioni davvero urgenti ed adeguate?, in Leg. pen., 2007, p. 202; Beltrani, Intercettazioni illegali: cosa cambia se il sì alla distruzione è inoppugnabile, in Dir. e giust., 2006, 36, p. 110; Bricchetti-Pistorelli, La distruzione immediata della prova rischia di ledere i diritti dell’imputato, in Guida dir., 2006, 39, p. 22; Cesari, Su captazioni e dossiers illeciti, un intervento non risolutivo, in Giur. Cost., 2009, p. 3537; Conti, Le intercettazioni “illegali”: lapsus linguae o nuova categoria sanzionatoria?, in Dir. Pen. Proc. 2007, p. 158; Conti, Intercettazioni illegali: la Corte costituzionale riequilibra un bilanciamento“claudicante”, in Dir. pen. proc., 2010, p. 196. 27 In particolare sul punto Filippi, Distruzione dei documenti e illecita divulgazione di intercettazioni: lacune ed occasioni perse di una legge nata già “vecchia”, in Dir. pen. proc., 2007, p. 152 nonché Conti, Le intercettazioni “illegali”, cit., p. 161. Secondo una certa opinione, inoltre, la novella normativa avrebbe dato viepiù prova della necessità di una espressa previsione affinché una violazione sostanziale si ripercuota sull’utilizzabilità delle prove formate: Conti, Le intercettazioni “illegali”, cit., p. 163. Fascicolo n. 1/2016 www.ilforomalatestiano.it Pag. 9 di 9 fattispecie di cui all’art. 240 c.p.p., i “documenti” così formati non solo sarebbero inutilizzabili, ma andrebbero altresì tout court distrutti. Ciò posto, e venendo al caso di specie, la videosorveglianza effettuata dal datore a scopi difensivi non si configura come illecito penale in violazione del combinato disposto degli artt. 4, 38 St. Lav. e 114 e 171 d.lgs. 196/2003: infatti, l’art. 171 del d.lgs. 196/2003, nel disporre l’applicazione delle pene previste dall’art. 38 dello Statuto per la violazione dell’art. 114 d.lgs. 196/2003, che a sua volta richiama l’art. 4 St. Lav., esige che l’installazione degli impianti sia effettuata per il «controllo a distanza dell’attività dei lavoratori». Di talché, come è evidente, non solo difetterebbe l’elemento soggettivo richiesto dalla fattispecie, agendo il datore per finalità diverse da quelle tipizzate, ma, ancor prima, il fatto risulterebbe scriminato ex art. 51 c.p.28. Da ciò deriva che i documenti visivi confezionati dagli impianti di videosorveglianza sono processualmente utilizzabili. Tale conclusione, lo si ribadisce, dipende da ciò, che, se il controllo è posto in essere per la tutela dei beni aziendali, e non per un generico controllo dei 28 Si fa riferimento agli “offendicula”, cioè a dire quegli strumenti posti a protezione di un proprio diritto ed atti ad arrecare lesioni a terzi, ed inerenti alla titolarità di un diritto dominicale. Le videoriprese sono infatti ammissibili, poiché, seguendo i criteri elaborati dalla giurisprudenza, non sono idonee a cagionare eventi di rilevante gravita, o lesioni gravi, né ad incidere sulla incolumità di terzi e si presentano come proporzionate alle finalità perseguite. Trattasi della scriminante dell’esercizio del diritto, non potendosi configurare una legittima difesa per carenza di attualità del pericolo. lavoratori29, trattandosi di fatto penalmente lecito, il relativo risultato non rientra tra le prove “illegali” di cui l’art. 240 c.p.p. dispone l’inutilizzabilità. Resta, infine, un ultimo profilo, attinente alla tutela del domicilio: potrebbe infatti invocarsi l’inutilizzabilità delle riprese effettuate dal datore di lavoro in quanto integranti il reato di interferenze illecite ex art. 615 bis c.p. In tal caso, applicando i principi suesposti, le riprese visive si atteggerebbero come “prove illegali” ai sensi dell’art. 240 c.p.p. e, di conseguenza, andrebbero distrutte e ritenute non utilizzabili. Tuttavia, anche in questo caso, il risultato non cambierebbe. Infatti, l’esercizio di un diritto di tutela del proprio patrimonio aziendale ex art. 51 c.p. rendere non indebita la captazione di immagini sul luogo di lavoro. Sempreché, peraltro, le casse di un esercizio commerciali possano qualificarsi come “privata dimora”, ai sensi del medesimo articolo, e l’attività lavorativa qui svolta possa dirsi notizia attinente la vita privata. 29 Vedi Supra, ove si è infatti sottolineato come il legislatore, attraverso una serie di richiami normativi a cascata, sanzioni penalmente la violazione dell’art. 4 St. Lav.. Ed invero, la sussistenza del reato esige l’accertamento di tutti gli elementi richiesti dalla fattispecie, ivi compreso l’elemento psicologico qui rappresentato dal dolo specifico del controllo dei lavoratori, assente laddove esso consista nella tutela preventiva dei beni aziendali.
 

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